Da più parti giungono segnali di allarme per un peggiorarsi della situazione in Kosovo. Tuttavia non sembra trattarsi solo delle tensioni tra la maggioranza albanese e la minoranza serba, un elemento di instabilità potrebbe essere innescato dalle misure draconiane messe in atto dalla società elettrica kosovara, KEK, la quale, per evitare il collasso finanziario, ha deciso di togliere il servizio in quei villaggi che presentano una bassa percentuale di pagamento delle bollette
Il 31 dicembre 2004, l'ultimo giorno di un anno ancora travagliato per il Kosovo, il "Council for the Defence of Human Rights and Freedoms" di Pristina (CDHRF), ha reso pubblica una dichiarazione sulla seria possibilità che possano verificarsi nuovi disordini sociali nella regione, "disordini di grandi dimensioni, e dalle conseguenze imprevedibili".
A suscitare preoccupazione, stavolta, non è tanto la tensione tra maggioranza albanese e minoranza serba, che ha portato agli scontri di marzo, i più gravi dalla fine della guerra, quanto le difficoltà finanziarie della KEK, la società elettrica kosovara, e alle misure draconiane che la società stessa sta mettendo in atto per evitare la prospettiva della bancarotta.
"La KEK è una società di interesse strategico per il Kosovo, e quindi la bancarotta è impensabile", ha dichiarato in un'intervista al "Koha Ditore" del 15 dicembre John Ashley, direttore in loco dell' "ESB International", una delle società satellite della compagnia nazionale elettrica irlandese, che da giugno del 2004 gestisce la KEK. "La società però", ha proseguito Ashley "è in crisi economica, il che significa che non ci sono i fondi né per la manutenzione ordinaria né per gli investimenti necessari, per non parlare poi di un'eventuale importazione di energia".
Il giorno successivo la direzione della KEK ha indetto una conferenza stampa per rendere pubblici i conti della compagnia: ogni mese, di fronte ad un incasso di 6,2 milioni di euro, le spese si attestano intorno agli 8,3 milioni, per una perdita netta di 2,1 milioni.
Il motivo di tale dissesto è presto detto: i kosovari pagano soltanto il 29% dell'elettricità fornita dalla KEK, il resto delle bollette rimane non pagato, tanto che allo stato attuale il debito dei consumatori ha raggiunto i 200 milioni di euro. Tra l'altro, non sono soltanto i cittadini kosovari a "dimenticare" di pagare la corrente, visto che, secondo fonti non ufficiali della KEK, la stessa amministrazione UNMIK è in rosso per circa 200mila euro, mentre la Kosovo Trust Agency (KTA), creata per seguire le privatizzazioni nella regione, semplicemente non paga le bollette.
Naturalmente c'è anche un'altra faccia della medaglia: la corrente è razionata, e nonostante in teoria i periodi di black-out siano programmati di giorno in giorno, in realtà tutto sembra affidato al caso. Anche quando c'è, la corrente è sottoposta a sbalzi continui, talvolta prese e lampadine sembrano letteralmente friggere, elettrodomestici e impianti elettrici hanno spesso vita breve. A casa si usano le candele, per chi lavora sono indispensabili generatori e stabilizzatori di corrente.
Per contrastare quella che ha definito "la cultura del non pagamento", Ashley ha annunciato la nuova strategia della KEK: la disconnessione collettiva dei quartieri o dei villaggi che presentano una bassa percentuale di pagamenti.
"Da oggi in avanti", ha dichiarato Ashley, "al presentarsi di un guasto o malfunzionamento della rete, i tecnici della KEK andranno innanzitutto a controllare quale sia la percentuale di pagamento del villaggio o del quartiere interessato. Se questa è accettabile si provvederà alla riparazione, altrimenti la KEK insisterà affinché il debito contratto venga saldato".
Nei fatti questo significa una punizione collettiva, che non tiene in conto il diritto al servizio di chi paga regolarmente, e uno strumento di pressione affinché la comunità stessa si mobiliti per recuperare i fondi.
Ashley ha aggiunto che non verranno più fatte distinzioni nemmeno per i cosiddetti casi sociali, che fino ad oggi, di fatto, sono stati tacitamente esonerati dal pagamento. "I casi sociali non sono un problema della KEK, che non è qui per fornire servizi sociali, ma elettricità. Dei casi sociali devono occuparsi le istituzioni governative", ha dichiarato Ashley, concludendo poi "la KEK è una società commerciale, e vuole essere pagata per i servizi che fornisce".
La nuova strategia di disconnessione collettiva ha immediatamente suscitato profondi malumori nella società kosovara, tanto da portare a timori di veri e propri disordini, come dimostrato dal comunicato del CDHRF.
"Reclamare il pagamento delle bollette è un diritto della KEK, ma questo non giustifica l'atteggiamento della società verso i consumatori" ha scritto il quotidiano "Zeri", definendo il sistema di punizione collettiva come "paradossale e politicamente sbagliato" e sostenendo che, grazie ad un regolamento promulgato ai tempi di Steiner (ex capo dell'UNMIK) esistono già le basi legali per la disconnessione individuale di chi non paga le bollette.
Alcuni giorni dopo, sempre su "Zeri", Blerim Shala commentava: "I cittadini che devono 200 milioni di euro alla KEK, in questi 5-6 anni ne hanno probabilmente spesi molti di più in candele, luci d'emergenza, generatori e stabilizzatori di corrente".
C'è inoltre da tenere in considerazione il diffuso malcontento generato dal fatto che la KEK non si ritiene responsabile di tutti i guasti agli elettrodomestici e alle varie apparecchiature elettriche dovuti ai frequenti black-out e agli sbalzi di tensione.
I kosovari, insomma, non mostrano molta fiducia nella KEK, anche perché la società, negli anni passati, è stata il centro di uno dei più gravi scandali di corruzione dell'intera amministrazione internazionale della regione.
Nel giugno 2003, l'ex amministratore della società elettrica, il tedesco Jo Trutschler, è stato condannato dal tribunale di Bochum a tre anni e mezzo di prigione per l'appropriazione indebita di 4,5 milioni di euro del budget della società, trasferiti segretamente a Gibilterra "...allo scopo di innalzare segretamente gli stipendi dei dipendenti", secondo quanto dichiarato dal condannato.
La questione, infine, si è inevitabilmente trasformata da sociale ed economica a politica quando Caglavica, Laplje Selo e Preoce, tre villaggi serbi alle porte di Pristina, sono rimasti al buio a causa di un guasto che la KEK ha rifiutato di riparare fino al pagamento del debito contratto dai villaggi.
I villaggi serbi non pagano la corrente dalla fine della guerra, e 35 dei 200 milioni di debito provengono dai mancati pagamenti di questa comunità.
Il black-out, nel pieno del freddo inverno kosovaro, e nel periodo di minore luminosità dell'anno, ha sconvolto la vita dei villaggi, visto che le famiglie si sono ritrovate senza luce, ma anche senza riscaldamento. Le proteste si sono alzate fin dai primi giorni, con l'accusa velata, ma non troppo, di trattamento ineguale per i serbi e volontà di cacciarli dalle proprie case.
Da una parte e dall'altra sono iniziate le accuse e le recriminazioni reciproche. Un lungo articolo di Blerim Stavileci su "Lajm" del 28 dicembre giustifica il comportamento della KEK come "basato sull'unica logica economica", ricordando che anche diciannove villaggi albanesi erano rimasti al buio, ed accusando di demagogia i politici serbi del Kosovo e di Belgrado che parlavano di politica discriminatoria nei confronti dei villaggi serbi.
L'autore procedeva esprimendo la speranza che la KEK non facesse concessioni, "visto che nonostante le continue lamentele sulla limitata libertà di movimento e l'impossibilità di lavorare e guadagnare, i serbi non vivono poi così male. Ricevono stipendi, due pensioni e due contributi sociali, uno dall'UNMIK e uno dalla Serbia. Tutto questo mentre la maggioranza degli albanesi sono disoccupati e non possono contare su stipendi o pensioni doppie".
Dall'altra parte il quotidiano belgradese "Politika" non ha esitato a parlare di catastrofe umanitaria sfiorata per i circa 4000 abitanti di Caglavica, Laplje Selo e Preoce, parlando di un aumento sensibile dei casi di malattie respiratorie, intestinali e reumatiche e dell'interruzione forzata anche delle lezioni per gli studenti serbi dei tre villaggi del Kosovo centrale.
La situazione, almeno per il momento, si è risolta grazie all'intervento diretto dell'ufficio del presidente serbo Tadic, che si è offerto di pagare 16mila euro per riparare la connessione alla rete elettrica. Il 28 dicembre la dirigenza della KEK si è incontrata a Merdare con Nebojsa Covic, il presidente del Centro di Coordinamento per il Kosovo, e la corrente è tornata nei villaggi serbi, anche se i dettagli dell'accordo non sono stati resi pubblici.
I problemi però restano così come i rischi che la "questione KEK" possa essere una nuova miccia a lenta combustione per il Kosovo. Il CDHRF sostiene che la situazione può essere normalizzata, a condizione che vengano prese alcune iniziative importanti, come cancellare i debiti dello strato più povero della popolazione, livellare i prezzi della corrente con gli stipendi percepiti in Kosovo, rendere pubblici gli investimenti effettuati sulla KEK dal 1999 e, infine chiarire che tipo di accordo sia stato raggiunto con le autorità serbe nell'incontro di Merdare.
Intanto l'inverno è ancora lungo, freddo e buio, e in Kosovo è meglio fare scorta di candele, tenere sempre pronto il generatore ma, soprattutto, sperare che i vicini abbiano pagato la bolletta.