Per uscire dalla situazione di impasse in cui versa il Kosovo servirebbe uno scatto di fantasia e di lungimiranza politica che fino ad oggi non c'è stato. Il Kosovo assumerebbe uno status inedito, ma non per questo non sperimentabile. Nostro commento
Qualche giorno fa sul Corriere della Sera Franco Venturini ("Tempo scaduto per il Kosovo" del 23 dicembre) poneva giustamente l'attenzione, in prossimità della visita del Ministro degli Esteri Gianfranco Fini a Belgrado, Pristina e Tirana, sul possibile riaprirsi di uno scenario di guerra sull'uscio di casa nostra. Perché il tempo sul Kossovo più che scaduto è come si fosse fermato, non solo in relazione al conclamato fallimento del mandato dell'amministrazione internazionale, ma per il semplice fatto che tutte le contraddizioni sono lì come sospese fin dal giorno in cui si preferì l'intervento armato ad una negoziazione, difficile ed estenuante quanto si vuole, ma che aveva già raggiunto nel castello di Rambouillet punti d'incontro più avanzati sul piano dell'autogoverno della regione di quelli che si sarebbero poi sanciti con la pace di Kumanovo. Fatto paradossale se pensiamo che quest'ultima venne siglata dopo 75 giorni di bombardamenti ed una guerra che la Nato considerò vittoriosa. Quasi che l'obiettivo della guerra fosse la guerra stessa, la contro-pulizia etnica che ne seguì e l'occupazione militare di quel territorio.
Una guerra che ha lasciato dietro di sé macerie di ogni tipo, compreso l'uranio impoverito dei liberatori, ed una situazione insostenibile sul piano dello status della regione a fronte di posizioni ancor più distanti e radicalizzate di sei anni or sono. E con in più la consapevolezza dell'effetto domino che un'eventuale strappo sul Kossovo potrebbe provocare in tutti i Balcani occidentali. Non scordiamoci infatti che la crisi jugoslava non nasce nel '91 lungo la Sava ma nel giugno '89 alla Piana dei Merli (Kossovo Polje), in quella chiamata alle armi che lanciò un allora oscuro personaggio a capo del rancore nazionalista serbo.
Il fatto è che tutto in Kossovo è stato paradossale. Non solo la guerra, ma anche gli effetti del "circo umanitario" che hanno portato in una regione grande come il nostro Abruzzo un'enormità di aiuti, con l'effetto di creare dipendenza e assistenzialismo, insostenibilità e corruzione. Senza dimenticare che nella deregolazione estrema del paese ha prosperato una criminalità economica che non conosce confini e che si riverbera dall'altra parte dell'Adriatico.
Il Kossovo, sullo status del quale si riaprono in questi giorni le trattative, è oggi un ibrido: sul piano del diritto internazionale si tratta di una regione parte integrante dell'Unione Serbia Montenegro, su quello sostanziale di un protettorato internazionale, forma priva di qualsiasi legittimità se escludiamo la risoluzione 1244 delle Nazioni Unite, tant'è vero che con il passaporto Unmik non si va da nessuna parte.
I serbi (non solo gli ultranazionalisti se consideriamo il voto a larghissima maggioranza del parlamento di Belgrado sul documento base della trattativa in corso) considerano questo territorio parte integrante non solo della loro sovranità statuale ma anche dell'identità e della cultura nazionale serba. Gli albanesi del Kossovo, maggioranza oggi schiacciante della popolazione, ne rivendicano l'indipendenza, suffragati da una guerra "vinta" e dall'espulsione della minoranza serba. Gli albanesi del Kossovo si appellano al diritto di autodeterminazione, i serbi mettono in guardia la comunità internazionale sui rischi connessi alla messa in discussione dell'integrità dei confini nazionali di un paese sovrano (e senza più Milosevic e Seselj, in prigione a L'Aja), con possibili effetti destabilizzanti per la Macedonia, il Montenegro e la stessa fragilissima Bosnia Erzegovina.
La comunità internazionale si è resa conto di essersi cacciata in un pantano dal quale non sa come uscire, considerato che le posizioni in campo sono inconciliabili e che l'adozione unilaterale di una di esse riaprirebbe una contesa con gravi rischi di instabilità per tutta la regione.
Servirebbe uno scatto di fantasia e di lungimiranza politica che però fino ad oggi non c'è stato.
Con il convegno sul fallimento dei protettorati internazionali ("Vivere senza futuro", Venezia, dicembre 2004) abbiamo posto già un anno fa come Osservatorio sui Balcani la necessità di uscire dallo stallo "autonomia - indipendenza", ponendo la prospettiva europea al centro di una possibile soluzione in grado di delineare una via d'uscita onorevole per entrambe le parti.
Ponendo in primo luogo alcuni punti insieme metodologici e di sostanza politica:
1. nella soluzione negoziale è necessario che nessuna delle parti, se non si vuole che il conflitto riesploda magari dopo aver covato per anni sotto la cenere, ne esca annichilita: questo significa introdurre un fattore esterno in grado di rispondere tanto alle istanze di autogoverno dei kossovari, quanto di tutela delle radici culturali ed identitarie che originano in questa regione;
2. il superamento della controversia che investe il Kossovo non riguarda soltanto il destino di questa piccola regione ma l'insieme dell'area balcanica e l'Europa in quanto tale, la sua capacità ad un tempo di fornire un quadro giuridico istituzionale nel quale trovare una soluzione e di avere quell'autorevolezza necessaria se vuole riaprire una dialettica internazionale fuori dallo schema dello "scontro di civiltà" imposto dal binomio guerra-terrorismo;
3. nella storia dell'Europa delle nazioni, la pulizia etnica non è stata l'eccezione, ma una norma; con la pulizia etnica l'Europa si è rivoltata contro se stessa, contro le sue molteplici radici culturali: abita qui la scommessa di una nuova Europa capace di includere e di valorizzare la pluralità culturali che ne hanno fatto la storia;
4. nel tempo dell'interdipendenza il concetto di sovranità nazionale va ripensato profondamente: l'infrangersi degli assetti geopolitici del '900, gli effetti dell'economia-mondo, la mobilità delle persone e i flussi migratori, impongono il superamento dello stato-nazione quale paradigma dominante e con esso il depotenziamento dei confini statuali, l'apertura delle frontiere, la smilitarizzazione dei territori e nuove forme di associazione regionali nell'ambito dei quali le nazioni rappresentino sempre di più un riferimento storico e culturale;
5. le stesse carte del diritto internazionale andrebbero rivisitate se non vogliamo che diventino vuoti simulacri: così il principio di autodeterminazione, la cui estensione a tutte le identità nazionali presenti sul pianeta avrebbe effetti catastrofici. In questo, la rivolta delle popolazioni indigene del Chiapas ha mostrato il suo grande messaggio di modernità, nella rivendicazione di autogoverno anziché di autodeterminazione.
Il fattore "esterno" nella crisi della controversia sul Kossovo si chiama "Europa delle regioni". E' infatti la prospettiva europea l'unica che può essere in grado di indicare una via d'uscita ragionevole, credibile, auspicabile e praticabile per lo status del Kossovo e per le aspirazioni delle popolazioni locali. E' l'Europa il possibile punto d'incontro delle diverse narrazioni che incontriamo nella regione ed è qui che si evidenzia più che altrove la faglia che divide una prospettiva "euroatlantica" da quella "euromediterranea".
Uno scatto di fantasia, questo è necessario, rovesciando dunque il vincolo in opportunità. Uno scatto di fantasia: il Kossovo come "prima regione europea".
Si tratterebbe di uno status inedito, ma non per questo non sperimentabile, che preveda uno statuto di autonomia con un forte ancoraggio internazionale garantito tanto dall'Europa come dalle Nazioni Unite attraverso una Commissione internazionale di verifica dell'applicazione dello stesso, preceduta da una fase costituente alla quale partecipano con pieno diritto tutte le popolazioni residenti in Kossovo prima del '99; la legislazione europea come quadro di riferimento per un'autonoma legislazione regionale; la completa smilitarizzazione dell'area attraverso un passaggio intermedio (cinque anni) gestito dall'Eufor (non dimentichiamo che in Kossovo c'è la più grande base militare degli Stati Uniti in Europa); l'adesione all'Euro e alle regole che lo presiedono; la libertà di circolazione e l'adozione di un passaporto dell'Unione Europea.
Un impegno per l'Europa, certo, anche come forma di risarcimento per quello che il vecchio continente non ha saputo o voluto fare negli anni '90, per la grave responsabilità di aver assistito all'infrangersi della vecchia Jugoslavia senza una politica unitaria ma soprattutto soffiando sul fuoco dei nazionalismi pur di garantire ai vari attori statuali europei proprie specifiche aree di influenza. Ma anche un investimento per il proprio futuro, per un'Europa capace di includere e di svolgere quel ruolo di civiltà sociale e giuridica che in molti le chiedono.