"La necessità di uscire dal binario obbligato, di scartare, di introdurre nella linearità un fattore diverso. E' il senso della politica." L'intervento di Michele Nardelli al Convegno nazionale di Osservatorio sui Balcani dal titolo "Kosovo, regione d'Europa"
La proposta che qui discutiamo, il Kosovo come prima regione europea, venne avanzata due anni fa, nel corso della Tavola rotonda conclusiva del Convegno "Vivere senza futuro?" promosso dall'Osservatorio sui Balcani. In quella sede cercai di indicare una strada diversa, che potesse sbloccare la situazione già allora in stallo.
Dobbiamo dirci molto serenamente che quella proposta non trovò grande ascolto. Nel frattempo, la matassa è diventata ancor più intricata: nei Balcani, nell'appannarsi della prospettiva europea e con il prendere vigore di quell'"effetto domino" i cui effetti abbiamo visto in Montenegro come in Bosnia Erzegovina; in Europa, con il cammino a ritroso nel processo di costruzione dell'Europa politica.
Proprio a partire dalla preoccupazione per un clima niente affatto favorevole all'allargamento dell'Unione Europea che oggi riscontriamo forse ancor più nella coscienza collettiva che sul piano istituzionale, dalle sollecitazioni che pure ci sono venute dalla società civile ancora impegnata sul territorio della regione, dall'incapacità della comunità internazionale di trovare una soluzione condivisa suffragata dalle recenti dichiarazioni del Ministro degli Esteri Massimo D'Alema durante la visita a Belgrado, ci siamo convinti dell'utilità di rilanciare.
Ne è nato questo convegno, che ha avuto il merito di dare voce e spessore alla proposta. Nel far questo ci sono venute alcune obiezioni: è troppo tardi... la proposta rischia di essere illuminista perché calata dall'alto... c'è una montagna insormontabile (come l'ha definita quest'oggi il sottosegretario Famiano Crucianelli) data dalla pregiudiziale antiserba presente nella comunità europea... Osservazioni serie, vere, che abbiamo ben presenti e rispetto alle quali vorrei tentare qualche risposta proponendovi quattro spunti di riflessione.
Sparigliare
Chi ama lo scopone scientifico conosce bene questo concetto. Nel giuoco significa "la presa con una carta superiore di due o più carte inferiori, allo scopo di lasciare in gioco un numero dispari di quelle carte" (Devoto Oli) ed evitare che chi è ultimo di mano abbia partita vinta.
Io credo che oggi la politica debba saper sparigliare, soprattutto laddove questa è occupata dalla visceralità e dalla sola ricerca del consenso. Quando le istituzioni faticano a trovare soluzioni, quando la diplomazia appare incartata su se stessa, c'è bisogno di sparigliare le carte. Di introdurre un fattore di discontinuità, per azzerare il confronto e delineare nuove strade.
Questo concetto me ne ricorda un altro, a me caro: l'azione parallela. Robert Musil, nell'"Uomo senza qualità", indica "la necessità di portare nella sfera del potere nuove idee, o meglio - come lui stesso scrive - semplicemente idee".
Musil scrive in un passaggio di tempo che segna il crepuscolo dell'impero austroungarico, un momento di profonde trasformazioni e di grande incertezza ed inquietudine. Il mondo che lo circonda, che egli percepisce come un universo di convenzioni e di abitudini, anche mentali, ormai obsolete e prive di fondamento, non è in grado di nuove visioni. Ecco che s'impongono nuove capacità di sintesi. L'azione parallela è l'idea di uno sguardo strabico sulle cose del mondo, da dentro e da fuori, vicino e lontano. E' il bisogno di rimescolare le carte, per guardare con un altro sguardo al nuovo secolo che viene.
Credo che vi sia una forte analogia con il nostro passaggio di tempo.
Uscire dal paradigma dello stato nazione
Abita proprio qui il secondo spunto di riflessione che intendevo proporvi. Come ci ha ricordato Marco Revelli, non siamo capaci di scollinare il '900. Abbiamo, certo, la consapevolezza che tutto sta cambiando intorno a noi, ma continuiamo a ragionare secondo le categorie precedenti, con gli stessi strumenti interpretativi e con gli stessi orizzonti.
Uno di questi è il paradigma dello stato-nazione. Il concetto di autodeterminazione, che sta a fondamento delle carte internazionali dei diritti dei popoli, è stato fondamentale nell'affrontare la fase post-coloniale. Dobbiamo però dirci con estrema franchezza che oggi rischia di generare (o di essere usato a pretesto) per la germinazione di tante piccole patrie, di nuovi confini, di nuovi e sanguinosi conflitti.
Un concetto che è fuori dal nostro tempo, perché la realtà è già oltre. Lo è l'economia, l'informazione, la circolazione degli uomini e delle cose...
Una straordinaria lezione ci è venuta, per chi sapeva vedere, il 1 gennaio 1994. Mentre nel cuore dell'Europa infuriava la guerra in nome del sangue e del suolo, dalla periferia del pianeta un piccolo popolo ci proponeva un salto di paradigma. La sollevazione delle popolazioni indigene del Chiapas, di cui abbiamo saputo guardare solo il folklore, ci indicava una strada che per la prima volta nella storia moderna rivendicava autogoverno piuttosto che autodeterminazione. La proposta di un nuovo orizzonte, dove le identità territoriali siano motivo di valorizzazione delle proprie culture, delle proprie unicità, non di nuovi confini.
Ora, il dibattito sullo status del Kosovo non riesce a superare questo orizzonte, nel quale sono impantanati entrambi i contendenti e la stessa comunità internazionale. Il non uscire dallo schema novecentesco dello stato-nazione ha reso le posizioni difficilmente conciliabili. Entrambe le parti hanno le loro ragioni, e non se ne esce, se non imponendo una soluzione ad una delle parti.
Ecco dunque emergere la necessità di uscire dal binario obbligato, di scartare, di introdurre nella linearità un fattore diverso. E' il senso della politica.
Una sintesi diversa, che non risponde al concetto di forza, rispetto al quale una visione s'impone sull'altra, e che offre una via d'uscita onorevole per tutte le parti.
Un parallelo
Il terzo stimolo riguarda un pezzo di storia a noi più vicina. Nelle scorse settimane si sono celebrati i 60 anni dell'accordo De Gasperi - Gruber. Il 5 settembre 1946, a margine del trattato di Parigi, venne siglato dai ministri degli esteri italiano ed austriaco un trattato che affrontava la contesa sul Sud Tirolo - Alto Adige.
Fermi restando i contesti diversi, senza voler in alcun modo indicare modelli, mi permetto però di rilevare le interessanti analogie con la crisi di cui parliamo.
Anche in quel contesto le popolazioni locali di lingua tedesca (una forte maggioranza) chiedevano il referendum per l'autodeterminazione. Venivano dalle vessazioni che il fascismo aveva compiuto in quel territorio, un violento processo di colonizzazione e di italianizzazione forzata del territorio, della toponomastica e perfino dei cognomi delle persone, per non parlare delle misure di polizia e di internamento nel lager di Bolzano. Un quadro fosco, almeno quanto il Kosovo, un conflitto che la fine della guerra lascia aperto.
In questo quadro nasce l'idea di un accordo, fondato sul concetto di ancoraggio internazionale.
Il testo dell'accordo è una paginetta, semplice semplice. Indicava 3 punti:
- Il riconoscimento della specialità: diritto allo studio nella propria lingua; il bilinguismo nella pubblica amministrazione e nella toponomastica; il ristabilire i cognomi originali.
- L'autogoverno.
- Una consultazione permanente fra i governi di Italia ed Austria, con particolare riferimento alla questione delle opzioni, al riconoscimento titoli di studio, al diritto di libera circolazione nel Tirolo; allo scambio transfrontaliero.
L'accordo sarà parte, come annesso, del Trattato di Parigi, e questo garantiva l'ancoraggio internazionale dell'Alto Adige - Sud Tirolo. Era l'internazionalizzazione della questione sud tirolese. Non una soluzione definitiva ma un percorso verificabile. Tant'è che in seguito al non rispetto degli accordi da parte dell'Italia, furono le Nazioni Unite a pronunciarsi con due risoluzioni nel 1960 (n.1497) e nel 1961 (n.1661).
L'accordo non costituì dunque la soluzione del conflitto, ma pose le basi per una cornice "transnazionale". Un conflitto che, in assenza di elaborazione e memoria condivisa, è ancora vivo, ma che ciò nonostante la politica ha saputo non far degenerare.
Una cornice innovativa sul piano culturale e giuridico
Anche in questo caso, quello che proponiamo è un percorso di natura culturale e politica, la cui efficacia è in gran parte legata alla capacità di far crescere un'opinione pubblica transnazionale. Un diverso approccio processuale verso la soluzione del conflitto.
Non ci sarà alcuna soluzione di pace duratura che non sia il prodotto di un percorso di condivisione diffusa fra le parti. Per questo abbiamo bisogno di trovare interlocutori credibili che comprendano o semplicemente prendano atto della necessità di darsi un approccio post-nazionale ed europeista. E che da subito ritengano questa strada originale conveniente per tutti, a cominciare dalle condizioni di vita e di libertà delle persone, a prescindere dalla loro appartenenza nazionale e culturale.
Quella del Kosovo come regione autonoma europea non è solo una proposta sullo status, è lo scarto che ci permette di costruire un serio percorso di riconciliazione che sia fondato sull'elaborazione del conflitto, ovvero sulla ineludibile necessità di avere a fondamento della nuova società kosovara una memoria il più possibile condivisa.
Rispetto a come fino ad oggi si è affrontata la questione, quello che intendiamo delineare rappresenta una nuova agenda di discussione che riguarda certamente il futuro dello status del Kosovo, ma che investe anche la modalità con la quale affrontare il futuro delle regioni di confine e, più in generale, il modo con cui pensiamo l'Europa, quell'Europa delle regioni che era nei principi ispiratori del manifesto di Ventotene e del federalismo europeo. Ed uno scatto di fantasia, perché la politica ritorni ad essere il luogo nel quale si delineano nuovi scenari che possano inverarsi anche sul piano del diritto internazionale.