Moderato ottimismo in Kosovo dopo la proposta Ahtisaari. Ma nessuno è sceso in strada a festeggiare e la parola d'ordine sembra essere ''basso profilo''. Chi invece proprio non ci sta è Albin Kurti, leader del movimento Vetvendosje. Una nostra intervista
Dopo una lunga attesa l'inviato speciale dell'Onu per il Kosovo Martti Ahtissari ha presentato a Belgrado e Pristina le sue proposte per lo status finale del Kosovo. Vetevendosje ha dichiarato immediatamente la sua ferma contrarietà al piano, può spiegarci il perché?
Il pacchetto di Ahtisaari non tiene conto della volontà del popolo kosovaro, e fa soprattutto riferimento ai diritti, ma anche ai privilegi delle minoranze, o per essere più precisi della minoranza serba. Tutto questo non a partire da considerazioni di principio o di giustizia, ma a causa delle pressioni ricevute da Belgrado. Queste proposte rendono chiaro e concreto il concetto di "autonomia sostanziale" basato sulla risoluzione 1244, che non prende in considerazione né la volontà popolare né la storia del Kosovo. Il piano di Ahtisaari prevede inoltre una nuova missione internazionale che porterà avanti il regime antidemocratico dell'Unmik, un regime di stampo coloniale che continuerà a controllare i settori vitali della vita pubblica, come polizia, giustizia, difesa ed economia.
Tra i punti che contestate con più forza c'è quello legato al piano di decentralizzazione, che prevede la creazione di nuove municipalità a maggioranza serba e gli affida maggiori competenze. Perché giudica sbagliata questa proposta?
Il processo di decentralizzazione in questo momento storico significa una sostanziale divisione del Kosovo. Non siamo contro la decentralizzazione in sé, che può essere positiva come devoluzione del potere a livello locale, ma questa deve avvenire dopo la proclamazione di indipendenza. In un Kosovo non ancora sovrano, però, la decentralizzazione porta alla creazione di entità serbe di fatto autonome, che continueranno a mettere in dubbio e a privare di pieno significato l'indipendenza della regione.
Lo Unity Team e la classe politica albanese kosovara hanno, nel loro complesso, accolto con favore il pacchetto Ahtisaari, presentandolo come un passo importante verso l'indipendenza. Come giudica queste considerazioni?
Il contenuto del pacchetto Ahtisaari è frutto del processo negoziale con la Serbia, che ha un passato criminale qui in Kosovo. Lo Unity Team è andato a Vienna con un obiettivo preciso, quello di ottenere l'indipendenza, e il risultato finale non è quello che tutti si aspettavano. Dalle proposte di Ahtisaari non emerge l'indipendenza per il Kosovo, ma l'ennesimo governo straniero che ha la facoltà di licenziare i nostri ministri e cassare le leggi del nostro parlamento.
E a cosa sarebbe dovuta la rinuncia da parte dello Unity Team al principale obiettivo che si era proposto nei negoziati?
Lo Unity Team è sottomesso alla volontà di Ahtisaari e dell'Unmik perché grazie al vigente status quo i suoi membri più eminenti stanno godendo della possibilità di diventare i personaggi più ricchi di tutto il Kosovo. L'Unmik tollera la corruzione dilagante e ne ottiene in cambio obbedienza, quindi la corruzione della classe politica in Kosovo è legata a doppio filo al carattere antidemocratico del sistema di potere dell'Unmik. Si è venuta a creare una tipica situazione coloniale, in cui i colonizzatori creano e foraggiano un'elité locale che dipende da loro e li aiuta nel tenere la situazione sotto controllo.
Vetevendosje ha già annunciato una manifestazione per il prossimo 10 febbraio. Quali saranno i principali obiettivi di questa azione di protesta?
Con la manifestazione di sabato vogliamo mandare un segnale forte, far capire che quello che viene deciso nei negoziati a Vienna non può essere portato impunemente sul territorio qui in Kosovo, perché la gente non è disposta ad accettare questo tipo di imposizione. Per noi è inaccettabile e umiliante ricevere ancora e soltanto l'autonomia dopo la tragedia e i lutti della guerra, inaccettabile anche perché la storia ci ha insegnato che l'autonomia può esserti portata via, come già successo durante il regime di Milosevic.
Sarà un messaggio diretto all'amministrazione internazionale o ai politici del Kosovo?
Il nostro messaggio sarà diretto agli internazionali, ma anche e soprattutto alla nostra classe politica. Il nostro governo pensa innanzitutto ad obbedire all'Unmik, e soltanto in seconda battuta a governare il Kosovo, e di fatto si è ridotto ad essere uno strumento burocratico al servizio dell'amministrazione internazionale. Vogliamo dire ai nostri politici che siamo stanchi delle loro bugie, delle false promesse, della loro ipocrisia, e soprattutto del fatto che non stanno difendendo gli interessi di coloro che dovrebbero rappresentare.
Sarà una manifestazione pacifica? Ci sono altri soggetti coinvolti nell'organizzazione della protesta?
La nostra sarà una pacifica marcia di protesta per le strade di Pristina. Al momento stiamo ancora elaborando gli slogan e le azioni concrete per dare voce agli insoddisfatti che non vengono ascoltati né dai media né dalle istituzioni. In questa occasione non abbiamo lanciato una piattaforma di collaborazione. Sappiamo che ci sono altre organizzazioni contrarie alle proposte di Ahtisaari, e che con tutta probabilità parteciperanno insieme a noi, ma piuttosto che spendere energie per creare alleanze con altri soggetti politici ed espressione della società civile, abbiamo preferito concentrarci sulla mobilitazione della gente.
Vetevendosje ha espresso contrarietà anche sulle garanzie proposte alla chiesa serbo-ortodossa...
Innanzitutto credo sia sbagliato definire l'eredità culturale ortodossa come soltanto serba. Anche gli albanesi sono stati ortodossi e cattolici prima dell'arrivo dell'impero ottomano. Anche in questo caso si tratta di strategia politica: i serbi vogliono far passare l'idea che le chiese sono patrimonio culturale serbo, le moschee dell'impero ottomano, e quindi turche, e che gli albanesi non hanno lasciato tracce culturali perché in realtà sarebbero arrivati in Kosovo recentemente dall'Albania. Su queste basi ideologiche molti leader serbi propongono di deportarci da dove saremmo venuti, cioè in Albania, come ha dimostrato il tentativo fatto da Milosevic nel 1999. Inoltre intorno ad ogni chiesa e monastero saranno create ampie zone extraterritoriali, che insieme al processo di decentralizzazione contribuiscono ad una nuova forma di controllo del territorio kosovaro da parte della Serbia.
C'è, secondo lei, qualcosa che può essere salvato nel piano di Ahtisaari?
Penso di no, perché le fondamenta su cui è costruito sono sbagliate. Il Kosovo viene definito come una moltitudine di comunità, nonostante gli albanesi costituiscano il 90% della popolazione. Anche in Serbia ci sono molte comunità, tra cui quella albanese, ma lì la loro lingua non viene riconosciuta come lingua ufficiale, cosa che invece viene prevista in Kosovo per la comunità serba. Tutto questo succede perché la condotta di Ahtisaari come mediatore è stata interamente diretta a non provocare lo scontento di Belgrado.
Lo slogan che Vetevendosje ha lanciato in questi mesi è "Jo Negociate", no ai negoziati. Quale crede sia la strada giusta per arrivare alla definizione dello status del Kosovo?
Noi diciamo no ai negoziati con la Serbia sullo status del Kosovo. Abbiamo molte cose da discutere con Belgrado, ma questo può avvenire soltanto quando la Serbia rinuncerà ai suoi piani di egemonia e controllo. Io credo che i kosovari dovrebbero manifestare fino a quando non otterremo dall'Unmik la data per un referendum, grazie al quale il popolo possa esprimere la sua volontà di indipendenza. Quando questo avverrà potremo discutere di decentralizzazione e di molti altri temi, ma non prima. La decentralizzazione oggi divide e rischia, con creazione di entità separate e la militarizzazione della regione, di creare un nuovo Medio Oriente nel cuore dell'Europa.