Il film "Venera" parla di amicizia, di relazioni tra generazioni e, soprattutto, della lotta di due ragazze contro il destino e i condizionamenti sociali. Ne abbiamo parlato con la regista Norika Stefa
Tra gli ospiti del Balkan Film Festival di Roma ci sarà la kosovara Norika Sefa con il suo film d’esordio “Looking for Venera”. Un lungometraggio che ha ricevuto il premio della giuria al Rotterdam Film Festival ed ora è candidato all’Oscar per il Kosovo. Abbiamo intervistato la regista, diplomata alla prestigiosa Famu di Praga e con all’attivo vari corti e documentari, attualmente al lavoro su due nuovi film, uno di finzione e un documentario.
Come vede il cinema nei Balcani in questo momento? Sta accadendo qualcosa di nuovo?
Credo che la questione sia cos’è realmente il cinema dei Balcani. Forse dobbiamo cominciare a ripensare e ridefinire questa nozione specifica. Diciamo che cinema dei Balcani si riferisce a una specifica sensibilità artistica, possibilmente proveniente da una storia condivisa e da uno spazio socio-culturale, e allora sì, i film dei Balcani continuano a esplorare e rielaborare temi simili, ma questo sta cambiando, almeno fino a un certo punto. Non guardo così tanti film, così posso dire, in base a quelli che ho visto recentemente, che forse il cambiamento arriva perché abbiamo dato spazio a persone più giovani che hanno un diverso accesso al cinema e anche una diversa comprensione del cinema. Tuttavia credo che abbiamo bisogno di più voci autentiche e anche film e approcci produttivi più liberi.
Stiamo vedendo sempre più donne registe nella regione. Che cosa questo rappresenta per lei?
Il Kosovo è un grande esempio di questo. Mi sembra che, specialmente per un certo cinema che ha un suo linguaggio e che in qualche modo sfida nuove forme e anche nuovi modi di finanziamento, ci sia bisogno di prendersi molti rischi ed essere pronti ad adattarsi ai rapidi cambiamenti che questa industria comporta. Le donne, soprattutto quelle che provengono da società piccole come quella da cui vengo io, sono abituate a un tipo di educazione che richiede molta più resistenza e insegna anche ad accettare e fare i conti con il fallimento, in modo molto diverso da come fanno gli uomini con gli stessi studi e preparazione. Questo ci rende più adattabili e in questa industria che cresce velocemente la capacità di adattamento è importante.
La partecipazione delle donne e il loro punto di vista possono portare qualcosa di nuovo nel cinema dei Balcani? E quale può essere il loro ruolo, non solo come registe?
Penso che sia necessario concedere spazio alle donne per accedere ad altri campi del fare cinema, non solo scrivere o dirigere. Sarebbe interessante la diversità portata nel linguaggio e nella forma dei film se ci fossero più donne a produrre. Secondo me dobbiamo prima combattere un’educazione che genera l’idea che ci siano certe cose per gli uomini e altre per le donne. Ci sono attività che tradizionalmente sono delegate agli uomini e questo fa sì che le donne non siano molto propense a raggiungerle. Fare film è un lavoro molto tecnico e molto fisico, ma questo non significa che le donne siano meno capaci di farlo.
Quanto considera importante il movimento delle donne per il cinema e la società dei Balcani?
Beh, porterà più diversità. Penso che genererà un approccio più esplorativo nel fare film. Ora nella regione abbiamo più co-produzioni che sono condotte da donne e questo genera collaborazioni transfrontaliere e reti culturali, dando più possibilità di sentire o vedere storie scritte da artiste donne. Ci sono molte reti e istituzioni regionali che aiutano lo sviluppo di film transnazionali, ed è positivo non solo per le donne, ma anche per i giovani che sono incoraggiati a partecipare. Per molti anni i cosiddetti Balcani – o quelli più vicini all’idea di Balcani che conosco – erano i film fatti da una certa generazione di registi, che rappresentavano solo un modo di vedere e sentire la nostra regione.
Il suo film è sull’amicizia, la relazione tra le generazioni e, soprattutto, sulla lotta di due ragazze contro il destino e i condizionamenti sociali. Cosa rappresentano per lei questi temi?
All’inizio ho scritto pensando a tutti i personaggi. Vivendo in una grande famiglia era un modo per interrogare la realtà. Poiché anche se viviamo le stesse situazioni, le percezioni e le emozioni sono diverse e questo genera dei buchi, dei vuoti. Inoltre, avendo vissuto in una famiglia con tre generazioni, ho pensato e ripensato alla riservatezza e alla mancanza di riservatezza che ci sono in questa convivenza. Così il mio scopo era trattare lo spazio come una continua possibilità per le sorprese. Non avevo fretta di tirare conclusioni, cercavo di lasciare aperte le possibilità, volevo mostrare un mondo dove qualsiasi cosa fosse possibile. Per questo ho scelto di raccontare la storia attraverso Venera, perché il suo essere adolescente mi consentiva di spingermi oltre. A quell’età si è molto curiosi, si controlla tutto, si vuole esplorare, ci si vuole adeguare ma si sbaglia nell’adeguarsi. Così in una società che delega le responsabilità e le decisioni della vita a nozioni come la morale o le gerarchie, questa dinamica dell’età e delle aspettative è diventata la forza motrice del film. Mentre Venera riflette sul senso della vita, il film mostra un senso di assurdo: dietro le facciate grezze, la gente nasconde un mondo di emozioni che vanno dall’umiliazione alla colpa alla disillusione. Il film sfrutta le provocazioni sessuali delle adolescenti e affronta i gesti casuali di bullismo con cui hanno a che fare, non solo dai loro pari o coetanei, ma anche dei loro genitori.
Balkan Film Festival
Il Balkan Film Festival si terrà presso la Casa del Cinema di Roma e avrà inizio il 29 novembre per concludersi il 4 dicembre