Un successo della diplomazia europea e l'unica scelta pragmatica che Belgrado e Pristina potevano fare. E ora? Serve dar spazio a relazioni e cooperazioni transfrontaliere, dinamiche, multilivello. Non solo tra Kosovo e Serbia, ma in tutta Europa, per rilanciare un progetto sull'orlo del baratro
(Questo articolo viene pubblicato in contemporanea da OBC e il quotidiano svizzero Le Temps)
Dopo anni di piombo e di sangue, l'instaurazione di un protettorato troppo spesso sinonimo di miseria e corruzione, un'indipendenza tendente a essere maschera di una sindrome da dipendenza, si spera ora in Kosovo di uscire dal labirinto delle recenti guerre jugoslave. Ricordiamo alcune circonvoluzioni di un dedalo nel quale si sono persi un gran numero di diplomatici ed esperti.
Ritorno al passato. Marzo 1989, Slobodan Milošević pone fine ad un'autonomia regionale che garantiva al Kosovo la parità con la Serbia in seno alla Repubblica federale socialista di Jugoslavia. Fine degli “anni d'oro” del Kosovo e instaurazione di un regime di apartheid. La discriminazione crescente e la repressione della polizia esercitata dalle autorità serbe marginalizzano il pacifista Ibrahim Rugova e favoriscono l'affermarsi dell'Armata di liberazione del Kosovo (in albanese Uçk). Dopo il massacro di Raçak (15 gennaio 1999), alla conferenza di Rambouillet vengono fatti incontrare a Parigi rappresentanti serbi e rappresentanti kosovari. Sotto forte pressione occidentale questi ultimi sottoscrivono un accordo che prevede un'autonomia significativa, un futuro referendum di autodeterminazione e anche lo scioglimento dell'Uçk; ma serbi e russi s'oppongono alle clausole militari.
Il conflitto diviene allora ineluttabile. L'intervento “umanitario” della Nato (dal 24 marzo al 10 giugno 1999) impone alla fine i termini dell'accordo di Rambouillet attraverso la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza: ritiro delle forze serbe e creazione di un'amministrazione provvisoria a guida Onu. Gli anni del protettorato segnano la fine di un “Kosovo multietnico” e ratificano la nuova struttura demografica del paese, nello specifico la creazione di enclaves serbe e la divisione di Mitrovica. Per il resto, violenza e miseria ben riassumono un dopoguerra che porta al disincanto.
Cambiamenti anche a Belgrado: rovesciamento e poi arresto di Milošević (1 aprile 2001) Il nuovo primo ministro Zoran Djindjić avvia una cooperazione efficace con il Tribunale dell'Aja e intende fare piena luce sui crimini commessi in Kosovo. Se lo spazio post-jugoslavo sembra ormai pacificato la questione del Kosovo non è ancora regolata. Né Djindjić, assassinato il 12 marzo del 2003, né Boris Tadić, le cui politiche non raggiungono alcun consensus, saranno in grado di far riconoscere l'indipendenza di quello che tradizionalmente molti serbi considerano come la culla della loro nazione.
Ciononostante il Kosovo proclama la sua indipendenza il 17 febbraio del 2008. Benché la Corte internazionale di giustizia abbia legalizzato questa dichiarazione unilaterale nel luglio del 2010, l'indipendenza è del tutto virtuale. In effetti, malgrado la fine della supervisione internazionale segnata dalla chiusura dell'International Civilian Office (10 settembre 2012), la Nato rimane sul campo come rimane la missione civile europea Eulex incaricata dal 2008 di promuovere lo stato di diritto. Indipendente ma non autonomo, diviso e sull'orlo del fallimento, il Kosovo doveva decidersi a relazionarsi in modo differente con la Serbia; paese che, da parte sua, vedeva la data d'avvio dei negoziati d'adesione all'Ue rinviata alle calende greche a causa della mancanza di un accordo con Pristina.
Nel maggio del 2012, il ritorno a Belgrado di un governo d'orientamento nazionalista sembrava annichilire ogni speranza di soluzione della questione del Kosovo. Ironia della storia, non sono le colombe, ma i falchi ad aprire un varco, il 19 aprile del 2013. In effetti sono Ivica Dačić, antico scudiero di Slobodan Milošević, e Hasim Thaçi, ex leader dell'Uck, a firmare un accordo storico. Le linee cruciali di questo compromesso: i firmatari si impegnano a non bloccare gli sforzi della controparte in vista di un'adesione nell'integrazione europea, il Kosovo acconsente alla creazione di una regione costituita da comuni serbi nel nord del Kosovo infine, e soprattutto, la Serbia – pur non riconoscendo il Kosovo come stato-nazione – ammette de facto che non rivendica più la sua sovranità.
Spesso criticata, la diplomazia dell'Unione europea rispolvera il suo blasone. Bisogna anche inserirvi un lungo processo negoziale avviato a Rambouillet (1999) e continuato da Martti Ahtisaari (2007). Ma certo, è un successo significativo per Catherine Ashton – alto rappresentante Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza – che non ha lesinato sforzi sin dall'estate del 2012.
Malgrado la crisi che scuote l'Unione europea, quest'ultima non è che l'unica prospettiva possibile tanto per il Kosovo che per la Serbia. Il cammino che porta all'adesione sarà certamente molto lungo, l'Ue infatti deve evitare che non si ripetano né lo scenario cipriota né quello di Bulgaria e Romania. Come avvenuto per la Croazia, che si prepara ad entrare nell'Unione il prossimo primo luglio, il Kosovo e la Serbia dovranno sottoporsi a negoziazioni ardue e da meccanismi d'adeguamento puntigliosi in merito allo stato di diritto, lotta contro la corruzione e crimine organizzato.
Certo, il progetto europeo sembra un po' “affaticato”, gli stati dell'Unione poco inclini a integrare nuovi membri proprio nel momento in cui interessa loro ridefinire il senso e la direzione di un progetto “sconvolto” da una crisi che non è solo economica. Di qui l'importanza di mettere fine alle divisioni che indeboliscono l'Ue: divisioni tra i paesi della zona euro e quelli fuori dall'euro, tra il nord e il sud, tra l'est e l'ovest. Se il progetto di un'Europa predeterminata dall'economia è votato al fallimento, se la strategia di un allargamento denominato “il cambiamento attraverso il commercio (Wandel durch Handel) ha dimostrato i suoi limiti, non occorre creare fantasmi in merito ad una Germania come capro espiatorio e ancor meno sulla possibilità di un contrattacco dell'”impero latino” (Francia, Spagna e Italia).
Così è la politica regionale che ci sembra in grado di ridare senso al progetto europeo e, nel caso del Kosovo, di evitare il rischio che il nord del paese divenga una nuova Republika Srpska – entità tentata dalla secessione e che porta ad una Bosnia Erzegovina fragile e vicina all'implosione. La cooperazione regionale transfrontaliera supera il quadro concettuale limitante della cooperazione regionale intesa come esclusive relazioni tra stati. I nuovi schemi delle cooperazioni sono dinamici e multidimensionali, coinvolgono simultaneamente un insieme di attori ancorati a differenti livelli (municipali, regionali e nazionali) e in differenti paesi in reti centrate su questioni concrete: creazione di poli di formazione, sviluppo di progetti ambientali, gestione urbana e sviluppo tanto demografico quanto economico. Da queste reti – senza che con questo si voglia mettere in discussione l'esistenza degli stati – si generano nuove relazioni e solidarietà che superano l'egemonismo e la staticità delle tradizionali relazioni tra stati.
In modo stupefacente, mentre i programmi di cooperazione transregionale e transfrontaliera sono stati sviluppati dall'unione per “gestire” il suo allargamento, rimangono assenti nella “cassetta degli attrezzi” utilizzata nello spazio post-jugoslavo. Come non vedere la loro pertinenza per un approccio innovativo ai problemi legati all'indipendenza del Kosovo, che si tratti del nord del Kosovo o delle relazioni con la regione di Preševo (situata in Serbia) o ancora delle relazioni "naturali" con l'Albania. Una tale cooperazione rappresenta un'alternativa ben più dinamica e aperta sul futuro che cambi di confini o il fantasma di una "grande Albania". Gli strateghi europei sembrano loro stessi catturati nelle reti di un approccio nazionalista unidimensionale, poco in sintonia con i problemi reali di un'Europa solidale capace di trovare soluzioni alternative.
Wolfgang Petritsch è stato inviato speciale dell'Unione europea per il Kosovo, negoziatore europeo presso il gruppo di contatto dei Balcani a Rambouillet e Alto Rappresentante in Bosnia Erzegovina.
Christophe Solioz, è segretario generale del Centro per le strategie di integrazione europea (CEIS) con sede a Ginevra
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