Confini, migrazioni e identità che si intrecciano sui piani nazionali e di genere. OBC vi racconta perché il teatro queer trentino ha messo in scena il Kosovo e perché questo viaggio fisico e simbolico, come uno specchio, ci mette di fronte agli occhi qualcosa dell'Italia
Transisters è la storia di un transito. Un ritorno all’interno della propria coscienza, per risolvere un passato travagliato, di costrizione, di voglia di fuga, di invisibilità, verso una, molte forme di altre migrazioni. È la storia di chi transita: non solo da un genere all’altro, ma anche da uno stato all’altro, attraverso confini che sono corpi, frontiere, coscienze, perdono.
Una persona in due momenti diversi, due luoghi, due corpi diversi, che si ritrovano per riconoscersi, per ridisegnare la propria relazione, per riappacificarsi e dunque fondersi e ricomporsi. Per poi, forse, ricominciare a migrare. E così la storia del Kosovo diventa la storia dell’Italia, una migrazione di genere diventa lo specchio di mille altre migrazioni fisiche e simboliche. Con la consapevolezza che le lotte contro la repressione, la discriminazione, le forme granitiche e monolitiche sono inevitabilmente tutte intrecciate tra loro.
Al festival "Universinversi" (Trento) è andata in scena la prima di Transisters, spettacolo teatrale scritto da Ila Covolan e interpretato da Mara Pieri, entrambe appartenenti al Tavolo LGBTQ* Trento, con la partecipazione di Nicole De Leo, attrice e attivista nel movimento trans. Le abbiamo incontrate per parlare di come hanno tradotto sul palcoscenico la riflessione su identità nazionali e di genere scaturita da un viaggio in Kosovo insieme a Operazione Colomba.
In questo spettacolo emerge chiaramente un collegamento fra i confini, le migrazioni e le identità sul piano nazionale e sul piano del genere. Come si inserisce questo discorso, spesso e volentieri affrontato a livello accademico, nel vostro lavoro di attivismo di base in ambito LGBTQ*?
Mara: Il tema centrale dello spettacolo è l'intersezionalità delle lotte. Si parla infatti di transito: una transizione fra generi, legata all'esperienza della transessualità, che si intreccia però con una riflessione politica sulla situazione del Kosovo. Quello che abbiamo cercato di fare è stato esplicitare e rendere palesi dei parallelismi, ritrovabili nella realtà di oggi, fra le diverse forme di transito e le diverse forme di "essere minoranza", che confluiscono in un unico calderone dove tutto ciò che non è allineato e conforme alla norma diventa un corpo estraneo da combattere. È in questo senso che abbiamo voluto lavorare sulle analogie tra la situazione delle persone migranti e quella delle persone transessuali. Tuttavia, le riflessioni che abbiamo voluto fare si espandono anche oltre le questioni della transessualità e della migrazione in un discorso più ampio, in cui raccontare la storia del Kosovo diventa anche uno strumento per guardare alla situazione politica italiana. Penso che il momento storico in cui viviamo non ci permetta di lavorare in termini di identità definite in termini strettamente separati come "identità transessuale" o "identità migrante", ma ci chieda con forza di intersecare questi ed altri piani.
Ila: Scrivendo lo spettacolo, mi sono trovata a riflettere su una serie di parallelismi relativi ai temi dell'identità personale e collettiva. Queste riflessioni teoriche si sono poi incontrate e scontrate con le sensazioni molto più terrene date dall'impatto con la realtà kosovara.
E com'è nato questo contatto?
Ila: Ho seguito un percorso di formazione con Operazione Colomba che culminava con un'esperienza di due settimane presso uno dei progetti attivi: io ho scelto di andare in Kosovo perchè mi interessava conoscere uno dei progetti più strutturati della Colomba, e l'idea di questo spettacolo è nata proprio in seguito a questo viaggio. A me interessava vedere come si era strutturata la presenza italiana nell'arco degli anni e capire che frutti questo lavoro avesse portato. Una volta sul posto, sono rimasta toccata dalle esperienze e dalle questioni con cui sono venuta a contatto. In particolare, l'esperienza più significativa per me è stata visitare il centro anti-violenza di Peja/Peć e rendermi conto, parlando con chi lo gestisce di questioni LGBTQ*, di quanto la diversità sessuale sia in questo contesto difficile persino da concepire. Se l'omosessualità maschile è almeno riconosciuta come fenomeno, infatti, quella femminile rimane inconcepibile oltre che invisibile. Lo stesso succede, in modo ancora più estremo, con la transessualità. Io ero partita per questo viaggio semplicemente con l'idea di scrivere uno spettacolo sul Kosovo, ma in seguito a queste riflessioni è nato spontaneamente l'intreccio con il tema della transessualità, poi approfondito attraverso il confronto della mia esperienza in Kosovo e delle mie letture sul tema con il lavoro e il vissuto di Nicole De Leo.
E per te, Mara, da attrice, com'è stato affrontare questo discorso?
Mara: Per me inizialmente è stata una sfida...quando Ila è tornata dal viaggio con l'idea di intrecciare le tematiche con cui lavoriamo abitualmente e la vicenda del Kosovo, mi sono resa conto che di questa realtà conoscevo solo quanto riportato dai media, soprattutto in occasione dell'indipendenza. Di conseguenza, non mi sentivo del tutto preparata e mi domandavo se questa storia potesse appartenermi. Lavorando giorno dopo giorno, però, mi sono resa conto che nei molti piani di riflessione che si mescolavano trovavo qualcosa di legato al mio vissuto e anche alla situazione politica del nostro paese.
Il posizionamento che avete messo in scena è piuttosto specifico e richiama un'analogia fra la dimensione chiusa di un'enclave serba e il personaggio chiuso in una sorta di limbo: due condizioni accomunate dalla dimensione di "non avere un posto"?
Ila: Esatto, non è un parallelo che nasce solo perché, geograficamente, mi sono trovata nell'enclave serba di Goraždevac. Lavorando sull'intersezionalità delle lotte e delle discriminazioni, l'unica chiave narrativa che io potevo assumere era adottare il punto di vista della minoranza. In quel contesto ho percepito fortemente una sensazione di non avere scelta, un'impossibilità di cambiamento, una condizione di chiusura in una gabbia. Questa gabbia diventa una lente con cui è possibile analizzare molte altre situazioni, compresa la transessualità, la condizione di migrante, ogni identità non allineata.
Hai avuto la sensazione di un conflitto fra una "corretta" identità nazionale, intrisa di normatività di genere, e le identità sessuali "alternative"? Ovvero, hai trovato che "deviare" dai canoni tradizionali di genere portasse all'esclusione dall'identità nazionale?
Ila: Sì, ad esempio un ragazzo mi ha raccontato che l'omosessualità è tollerata quando si tratta di internazionali, che vengono comunque visti come un mondo separato, mentre provoca grande scalpore in una persona vicina. Questo fa sì che fare coming out sia molto più "sovversivo" in una persona del luogo, perché scardina l'idea che la diversità sessuale sia un prodotto d'importazione. Nello spettacolo infatti abbiamo un personaggio che sente di non avere un'identità nazionale, perché l'identità nazionale kosovara è spesso percepita come qualcosa che suscita passioni forti ma al contempo rimane sfuggente e difficile da definire, fluida e contestata, proprio come le identità di genere.
Mara: Dall'altra parte, nello spettacolo c'è un momento in cui il personaggio, seguito nel suo viaggio di migrazione, si chiede "e quindi io dovrei far parte del sogno italiano? E cosa dovrei essere per essere italiana?". Probabilmente non trans, non migrante, forse nemmeno donna. Secondo me, questa distinzione fra buoni e cattivi cittadini, fra chi ha diritto di cittadinanza e chi no, tanto nella terra d'origine quanto in quella d'accoglienza, coinvolge chi non si può riconoscere pienamente nei modelli normativi del luogo dove vive. A livello di cittadinanza sessuale, questo non riguarda poi solo le persone transessuali, ma tutte le identità non conformi, che possono sentirsi parte di spazi comuni delimitati da confini nazionali e normativi solo aderendo a modelli specifici.
Mi chiedo se nello spettacolo ci sia una traiettoria che parte da uno "stato fantasma", attraversa la condizione fantasma della persona migrante e approda alla condizione transessuale, "fantasma" non perché invisibile, ma perché priva di diritto di cittadinanza...
Mara: Credo che il filo conduttore sia proprio quello delle diverse forme di invisibilità e visibilità, che si alternano in modo anche estremo. Per cui alla traiettoria dallo "stato fantasma" all'"identità fantasma" si affianca e si oppone quella dello stato che impone dei confini e delle regole a un'identità molto visibile che non può passare inosservata, che non si può cancellare dal corpo.
Nè dall'immaginario altrui: mi viene in mente un momento dello spettacolo in cui si mette in evidenza la curiosità morbosa riservata alle persone trans...
Mara: Sì, questa è una riflessione che ci si è proposta molto fortemente a partire da alcuni casi di attualità, tra i quali, ad esempio, anche il caso Brenda/Marrazzo. Abbiamo quindi inserito un dialogo che riassumesse le domande morbose che ci si arroga il diritto di porre quando si ha a che fare con persone transessuali. Alcune delle domande nello spettacolo sono tratte da interviste o apparizioni televisive, e questo pezzo è stato costruito proprio con questo episodio in mente.
In chiusura, quali sono le implicazioni del titolo?
Mara: Il gioco di parole vuole richiamare una sorta di sorellanza in transito, sia nel rapporto fra le due anime del personaggio sia, più in generale, nel legame fra tutte le condizioni di transito. Dall'altra parte, richiama anche il transistor, il trasmettitore di frequenze, e come si dice in un punto del testo, ci sono delle frequenze che sono scomode, e che si cerca puntualmente di ignorare, spezzare, oscurare. In questo senso, "Transisters" richiama un "transfer resister", una forma di resistenza verso i tentativi di oscurare le frequenze scomode.