Pristina

Per le strade di Pristina CharlesFred/flickr

La missione europea Eulex spinge sull'acceleratore, i dissidi con gli americani, il Kosovo e la corruzione. Un reportage tra strade (in costruzione) e salotti surriscaldati della diplomazia

26/05/2010 -  Paolo Bergamaschi* Pristina

Evaporata, dissolta, svanita. Dopo la firma dell'accordo di cooperazione con la polizia serba, che aveva provocato la collera dell'opinione pubblica kosovara, la reputazione della missione Eulex ha dovuto fare i conti ad inizio aprile con lo scandalo di alcuni poliziotti romeni del contingente europeo, pizzicati dalle guardie di frontiera macedoni mentre contrabbandavano alcol e sigarette.

E mentre Bucarest richiamava in fretta e furia i propri agenti, a Bruxelles i ministri dei 27 paesi dell'Unione hanno cominciato ad interrogarsi sul senso della presenza europea nel più giovane paese dei Balcani.

Da una parte l'esigenza di rafforzare le capacità di autogoverno delle fragili istituzioni kosovare, a due anni dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza, dall'altra la necessità di dare un senso compiuto al complesso ed articolato dispiegamento di duemila persone nell'ambito della più importante missione di politica estera comune dell'Unione. Il tempo sta scadendo e si inizia a fare il bilancio dell'azione europea in relazione agli obiettivi prefissati.

Eulex, c'è chi storce il naso

Gli edifici governativi si sono sdoppiati per dare spazio ai nuovi ministeri. Le autorità di Pristina avevano subito accettato la tutela europea in cambio della garanzia di una graduale integrazione del paese nelle strutture comunitarie ma, soprattutto, per scongiurare la separazione della parte settentrionale, popolata in prevalenza da serbi tentati dall'idea di ricongiungersi a Belgrado.

Nessuna delle due condizioni si è avverata ed i dirigenti kosovari stentano a mascherare la crescente frustrazione che accompagna l’evidente delusione. Tanti sorrisi, ma il messaggio è uno solo: non meritiamo di essere trattati come gli ultimi della classe. Il Kosovo, in effetti, entro la fine dell’anno in corso, sarà l’ultimo paese dei Balcani i cui cittadini avranno l’obbligo di visto per entrare nell’Unione europea.

E’ una disperata corsa contro il tempo quella partita da Pristina. Gli uffici competenti hanno cominciato a distribuire i nuovi passaporti biometrici, ma manca buona parte degli altri requisiti imposti da Bruxelles ed in particolare una anagrafe affidabile che garantisca il riconoscimento di identità.

“Abbiamo già messo in piedi l’agenzia per il registro civile, ma il problema è il recupero e la ricostruzione dei documenti” spiega Bajram Rexhepi, il ministro degli Interni. “Ai tempi della guerra, purtroppo, gli amministratori serbi in fuga si sono portati dietro gli archivi di molti comuni e, ammesso che non siano andati distrutti, Belgrado non ha alcuna intenzione di restituirli”.

A complicare le cose si è messo anche il governo tedesco, che ha deciso di rispedire in Kosovo 14mila profughi, in gran parte rom. “Abbiamo appena adottato le nuove disposizioni di legge per la riammissione ed il reintegro dei rifugiati”, dice Rexhepi, “ma se i paesi europei non ci danno una mano, non saremo in grado di gestire la situazione”.

Senza un accordo di rimpatrio, però, non vi sarà alcuna apertura di dialogo per l’abolizione del visto. E’ questa la risposta della diplomazia europea, assillata a sua volta dalla insofferenza montante della propria opinione pubblica verso ospiti scomodi.

Perquisizioni

Numerose auto della missione Eulex parcheggiate di fronte agli edifici ministeriali, con le transenne che tengono a distanza nugoli di giornalisti e telecamere, segnalano qualche avvenimento di rilievo che mi sfugge. I fatti mi vengono chiariti la sera durante una cena con Engjellushe Morina e Ilir Deda, rappresentanti di spicco di due autorevoli think-tank della capitale.

Gli inquirenti europei hanno eseguito perquisizioni negli uffici del ministero dei Trasporti e di tre società che hanno vinto gli appalti più importanti sequestrando computer e documenti. E’ coinvolto uno dei politici kosovari più potenti, Fatmir Limaj, che si trova al vertice del dicastero.

L’eccitazione degli ospiti è incontenibile. “Forse è finita l’era dell’impunità”, esordisce Ilir, “due anni fa si pensava che l’indipendenza avrebbe risolto tutti i problemi del paese, ma così non è stato”. “Con le questioni interetniche passate in secondo piano, adesso il governo viene giudicato per quello che fa”, continua. “Bisogna sciogliere i nodi più difficili che riguardano crisi economica e corruzione; quello di oggi mi auguro sia solo il primo passo”.

Engjellushe concorda: “La strategia del nemico comune ha perso di efficacia e la fase della definizione per contrapposizione si è conclusa”, afferma riferendosi ai contrasti con la Serbia.“E’ giunto il tempo di decidere quello che vogliamo essere e che tipo di stato costruire”. Il malessere diffuso del mondo non governativo nei confronti dell’Unione sembra improvvisamente trasformarsi in sostegno entusiasta dopo un lungo periodo di critiche velate ed imbarazzanti malintesi.

La città è piccola e le voci corrono in fretta. Si parla di un dissidio profondo fra europei ed americani sull’operazione in corso. La conferma arriva indirettamente da Yves de Kermabon, comandante Eulex, che preferisce glissare sulla domanda manifestando allo stesso tempo soddisfazione per il blitz della polizia.

“E’ un deciso passo in avanti per il Kosovo”, confida, “che dimostra la nostra volontà di combattere in modo efficace il fenomeno della corruzione”. Nei corridoi del quartier generale della missione l’atmosfera è effervescente. “Eulex sta mantenendo fede alle promesse”, incalza il generale, “adesso occorre lavorare con serenità e concludere le investigazioni per arrivare ad eventuali rinvii a giudizio e processi”.

I collaboratori sottolineano che l’inchiesta è stata condotta dalle autorità giudiziarie in completa autonomia, rispettando scrupolosamente tutte le procedure previste dalla legge. Al capo missione de Kermabon, una volta informato dei fatti, non è restato che lasciare che la giustizia facesse il suo corso.

Il disappunto Usa

Di tutt’altro parere è l’ambasciatore americano Christopher Dell. Un intero quartiere sulla sommità di una collina alla periferia di Pristina, recintato da filo spinato e blocchi di cemento con appariscenti misure di sicurezza ospita la nutrita delegazione USA.

Dell non usa mezzi toni per manifestare il suo disappunto in relazione agli avvenimenti. “Il mandato di perquisizione mi sembra molto debole, potrebbe essere l’inizio e la fine dell’inchiesta”, attacca duro. “Sarebbe stato più prudente attendere e sviluppare meglio il caso”.

L’ambasciatore si mostra seccato dal comportamento europeo e continua: “Le relazioni fra Kosovo ed Ue sono compromesse, sarà difficile riannodare il filo del dialogo”. A Dell non va giù, soprattutto, di essere stato tratto in inganno. Stando a voci ben informate c’era un accordo informale per permettere a Limaj di essere nominato ambasciatore a Washington, togliendolo dal ministero incriminato senza interferire con il proseguimento delle indagini.

“Bruxelles si comporta come se fossimo ancora nel 2007, prima della dichiarazione di indipendenza: la supervisione occidentale è giunta al capolinea”, afferma perentorio. L’ambasciatore si dichiara perplesso al proseguimento della missione europea.

Tre sono i problemi da lui identificati per quanto riguarda l’Unione: una catena di comando non chiara, che trasmette messaggi non coordinati, un linguaggio “del corpo” molto negativo verso il Kosovo, basato solo sul bastone e privo della carota degli incentivi e una burocrazia troppo indulgente verso la Serbia.

Anche se non lo dice apertamente, fa capire che il Kosovo è un feudo americano e tale deve rimanere. Gli osservatori più smaliziati, che sostengono che il vero governo a Pristina si trova nell’ambasciata americana, non sono lontani dalla realtà.

Mitrovica e la partizione del Kosovo

La strada verso Mitrovica è un susseguirsi accidentato di cantieri e deviazioni improvvisate. Tutte le principali direttrici che partono dalla capitale, in realtà, sono sede di imponenti lavori di ammodernamento delle infrastrutture viarie. Si capisce la ragione per la quale corruzione e concussione si concentrano sul ministero dei Trasporti, con le cifre di preventivo delle gare di appalto che si gonfiano a dismisura in corso d’opera.

Il monumento di Kosovo Polje, che ricorda la storica battaglia fra serbi ed ottomani del 1389, non è più presidiato dai soldati del contingente internazionale. Tutt’intorno terra incolta o scarsamente coltivata vuoi per la proprietà incerta vuoi per un’economia agricola ancora volta alla sussistenza.

Nei villaggi le nuove moschee con le cupole e le punte dei minareti laminate luccicano al sole, fra vecchie abitazioni bisognose di manutenzione e nuove costruzioni prive di intonaco.

Mitrovica è ancora una città spezzata, ma i segni di questa frattura sono sempre meno evidenti. Gli autoblindo e i fuoristrada delle truppe della Nato non sorvegliano e intasano più il traffico come in precedenza; anche a ridosso del fiume Ibar le misure di sicurezza sono attenuate e il grande edificio che ospitava il quartier-generale Kfor, una volta centro culturale, è stato smobilitato. Sia a piedi che in macchina, c’è gente che attraversa il ponte che separa la parte sud albanese da quella nord serba.

Dopo le ultime dichiarazioni rilasciate dal presidente serbo Tadić, l’ipotesi partizione è tornata di attualità. Belgrado vuole riprendere le trattative con Pristina e, data ormai per scontata ed irreversibile l’indipendenza del Kosovo (che comunque insiste pervicacemente a contrastare e negare in tutte le sedi), ambisce ad ottenere una contropartita da dare in pasto alla propria opinione pubblica.

Di fatto la parte nord-occidentale dell'ex provincia è ancora sotto il controllo serbo. Proprio per questo l’Ufficio Internazionale Civile (ICO), composto dagli Stati Uniti e dai paesi europei che riconoscono la sovranità di Pristina, ha prodotto una “Strategia per il Nord” che mira a sviluppare quanto conseguito fino ad oggi con il processo di decentramento.

“Molto dipenderà dalla capacità di offrire servizi e investire denaro nell’altro lato della città da parte delle autorità kosovare”, esordisce Jeff Bieley, rappresentante di zona dell’ufficio che incontriamo nei locali situati nella fetta meridionale del centro. “Abbiamo accantonato la parola ‘integrazione’ per evitare che la popolazione serba si senta minacciata, ma vorremmo che Bruxelles fosse più decisa nei confronti di Belgrado che con le sue strutture parallele determina le scelte della comunità in funzione dei propri interessi e soffoca i tentativi di cooperazione”, prosegue deluso.

Emblematico, a questo riguardo, è il caso della rete dell’acquedotto, unico per tutto il capoluogo, la cui acqua arriva a nord da una stazione di pompaggio ormai fatiscente posta a sud. L’Unione europea sarebbe pronta a finanziare la sostituzione delle pompe, ma i radicali serbi preferirebbero che i nuovi impianti venissero trasferiti nella zona settentrionale evitando così di dover dipendere dalla municipalità albanese.

Il corso principale di Mitrovica Nord è affollato di gente che si muove a rilento fra i negozi, le bancarelle ed i chioschi. Colpiscono ai lati della strada le auto senza targa. Chi si sposta a sud, infatti, una volta oltrepassato l’Ibar applica alla vettura una targa kosovara per poi toglierla quando rientra nei quartieri serbi.

Gabbie etniche

Buona parte della popolazione è formata da studenti dell’università, qui trasferita da Pristina dopo il conflitto. Nel centro per la società civile incontriamo i rappresentanti delle organizzazioni studentesche che denunciano il clima di intimidazione in cui operano. “In dieci anni la situazione non è cambiata, il dissenso non è possibile da queste parti”, confida uno dei leader.

La città è la roccaforte della componente più oltranzista della comunità serba, che non ha intenzione di scendere a patti con le autorità di Pristina. La spaccatura che si è creata tra i serbi che vivono a sud del fiume, propensi al dialogo e quelli che risiedono a nord, che invocano la Grande Serbia, sembra incolmabile. A farne le spese sono i giovani studenti vittime di clichè ideologici e gabbie etniche di cui farebbero volentieri a meno.

Ruzdhi mi aspetta come d’accordo sull’altro lato del ponte. Con il suo taxi non osa avventurarsi nella parte settentrionale. “Nulla me lo impedisce”, spiega, “ma non parlando serbo preferisco evitare inconvenienti”.

Quella di Ruzhdi è la prima generazione di albanesi kosovari che non ha appreso la lingua serba a scuola. Emigrato per qualche tempo a Londra è tornato in patria subito dopo la fine del conflitto. Se la cava abbastanza bene, anche se si rammarica della crisi che colpisce un paese già di per sé debole.

Mentre mi porta in aeroporto mi racconta, ad esempio, che il costo delle abitazioni e, di conseguenza, degli affitti nella capitale sono stratosferici per il fatto che tutto il materiale edile è importato dall’estero.

“Non esiste ancora una vera economia del paese con salari che non superano in media i 250 euro al mese”, si lamenta. Si dice contento, comunque, della scelta che ha fatto quando ha deciso di ritornare. La sua è una scommessa. Tutto il Kosovo, forse, è una scommessa.

*Consigliere per gli Affari Esteri del Parlamento europeo