Il coreografo Benno Voorham frequenta professionalmente l'est Europa da molti anni. Lo abbiamo incontrato
(Quest'articolo è stato originariamente pubblicato da Altrevelocità e fa parte dello Speciale Est. Voci da un'altra Europa )
Benno Voorham, coreografo olandese con base in Svezia, ha all'attivo diversi progetti che coinvolgono Paesi dell'Est europeo (Moldavia, Ucraina, Bielorussia, Georgia). A partire dal 2009 con Дом/Home ha esplorato, tramite whorkshop con bambini, le differenti accezioni che può assumere il concetto di casa, documentando l'intero processo di creazione. Del 2015 invece il suo Violența, o istorie de dragoste, presentato al Teatru Ionesco di Chisinau: è una notevole prova corale, sulla parola che si fa movimento e sul movimento che si fa parola. Un continuo rimpallo di giochi verbali e gesti fisici, aneddoti individuali e racconti di una comunità che si amalgamano fino a formare un tutt'uno. Con lui analizziamo l'approccio alla danza dei paesi con cui ha collaborato, le energie sotterranee che caratterizzano la scena dell'est.
Hai percepito differenze tra l'approccio al teatro cui eri più abituato (olandese e svedese) e quello presente nei paesi est-europei in cui hai lavorato?
Certo, e direi che in un modo o nell'altro hanno tutte a che fare con la differente storia di questi paesi. Va detto innanzitutto che durante l'epoca sovietica erano praticamente inesistenti correnti o tradizioni sperimentali, la danza era ballet o danza popolare; sebbene alcuni club notturni sviluppassero tendenze più moderne, si trattava di casi marginali.
Oggi molti giovani artisti guardano con interesse ai movimenti e alle tradizioni teatrali dell'Ovest, cercando di entrare in connessione con esse per poi integrarle nel propri lavori. Un'altra differenza sostanziale riguarda i finanziamenti: sono risibili o nulli per l'arte indipendente. Allo stesso tempo, però, esiste una ricca "infrastruttura" di teatri indipendenti che consente una circolazione di opere sperimentali di una capillarità difficilmente raggiungibile in Svezia, ad esempio. Se conosci il percorso giusto, spesso è più facile che un progetto si concretizzi in questi paesi piuttosto che in uno di quelli in cui lavoro usualmente nell'Europa dell'ovest.
Non parlo semplicemente di possibilità fattuali e organizzative: a volte mi chiedo se fosse stato possibile concepire gli stessi progetti che ho portato avanti in Moldavia, Ucraina o Bielorussia in un contesto come quello svedese. A livello estetico, trovo una maggiore "fisicità" nell'approccio alla danza dei paesi dell'est, elemento che spesso mi manca, dal momento che la Svezia, a mio modo di vedere, possiede un'attitudine prettamente concettuale.
Pensi ci siano cambiamenti in atto o la situazione ti sembra statica?
Penso che ci sia una frizione interna al modo di concepire generalmente la danza in questi paesi, che rappresenta il terreno su cui si giocano eventuali cambiamenti. A differenza dell'Ovest, dove questo passaggio è in buona parte assodato, persiste ancora una forte propensione all'intrattenimento del pubblico come urgenza primaria e fine ultimo degli spettacoli, cui molti artisti sacrificano le proprie personali tendenze artistiche o riflessioni nei confronti della società.
È dunque in atto un adeguarsi a quella che, secondo una concezione tradizionale, dovrebbe essere l'aspettativa degli spettatori. Tuttavia, soprattutto nel pubblico più giovane, cresce la necessità di ritrovare a teatro un pensiero sul presente, sulla posizione dell'individuo nella società. È un processo lento, che dipende anche dagli sviluppi politici in questi paesi, ma i cui germi sono già visibili.
Come è nato il progetto Дом/Home e come mai proprio in Moldavia, Ucraina e Bielorussia?
Non è il primo progetto che mi capita di sviluppare in quell'area. A partire dal 1995 ho iniziato a collaborare con alcune realtà teatrali delle repubbliche post-sovietiche. Si tratta di progetti che, oltre alla componente performativa finale, hanno anche momenti pedagogici che coinvolgono la popolazione locale.
La prima volta che ho lavorato in Moldavia è stato nel 2000, invitato da Alexandra Soshnicova per la prima edizione del festival di danza moderna che organizzava lei stessa. Da allora sono tornato in diverse occasioni, vuoi per lezioni, workshop o performance con danzatori moldavi. Intrattengo quindi una relazione profonda con l'est Europa in generale e lo spettacolo Violența, o istorie de dragoste, andato in scena in prima nazionale a novembre al Teatrul Ionesco di Chisinau, non è che l'ultimo risultato di tale relazione.
Il progetto Дом/Home è stato inizialmente concepito nel 2009, sulla scia di un'altra performance che vedeva la partecipazione di sette danzatori provenienti da Moldavia, Ucraina e Bielorussia. Con lo stesso gruppo di persone abbiamo allora lavorato attorno al concetto di "casa", principalmente attraverso workshop per bambini. Ci interessava cogliere le diverse accezioni che tale concetto potesse assumere nelle esperienze individuali dei ragazzi e come la loro biografia lo filtrasse, associandolo a suggestioni e relazioni anche molto diverse l'una dall'altra. Il risultato è stata la creazione di una performance finale per ciascuna delle nazioni coinvolte.
Il contesto sociale è dunque parte integrante del processo di creazione della performance...
Assolutamente. Negli ultimi anni è diventato per me fondamentale sviluppare progetti che avessero una rilevanza sociale. Come coreografo, credo che il movimento possa comunicare idee, sentimenti e riflessioni in maniera in un certo senso più libera nonché meno letterale di quanto lo sappia fare un testo.
Lavorare allo stesso tempo con bambini e professionisti attraverso workshop significa dunque costruire un linguaggio comune, in cui interagiscono le diverse strutture che andranno poi a formare la performance finale. Il contesto sociale è sia premessa che conclusione del lavoro. Premessa, nella misura in cui è determinante per la formazione del concetto di "casa" da parte dei bambini così come da parte mia. Conclusione, perché la performance parla anche in maniera indiretta, attraverso il linguaggio comune di cui sopra, di un possibile approccio alternativo alle usuali relazioni fra adulti e bambini, acquisendo così una precisa valenza sociale.
Direi che, in modo spontaneo, è stato "forzato" il normale rapporto adulti/bambini nella direzione di una maggiore apertura nei confronti delle istanze e delle esperienze di cui il secondo termine della relazione è portatore. Questo è diventato incredibilmente chiaro a un certo punto del processo. Inoltre, avendo a che fare con bambini, il progetto mostra un problema, quello della rottura di un rapporto di fiducia fra genitore e figlio. Ecco, ciò che abbiamo fatto, sia sul palco che nelle sessioni preparatorie, può essere riassunto come un tentativo di "riparare" tale rapporto.
Alcuni valori comunemente accettati sono stati messi in crisi?
A livello individuale, sicuramente. Era palpabile durante le prove. Il progetto ha condotto soprattutto i genitori a confrontarsi con il modo in cui entrano in contatto con i propri figli. Tutto ciò in un contesto in cui è difficile parlare e riflettere apertamente su un argomento come questo. Ma non solo, ho potuto apprezzare anche nelle discussioni successive alla performance come questa avesse provocato dubbi e ragionamenti all'interno del pubblico.
Non pensi però che l'accento sul vissuto individuale delle persone coinvolte rischi di togliere specificità artistica allo spettacolo?
Quello del vissuto individuale è solo un lato del progetto. Ovviamente dall'altra parte c'era la mia volontà di creare qualcosa che avesse il mio interesse artistico. Ma, aggiungerei, c'è una grossa differenza tra "privato" e "personale". Il "personale" è appunto la trasformazione della tua storia privata in una dimensione pubblica, che quindi può interessare anche senza una conoscenza diretta dell'individuo cui si riferisce.
Non si tratta di qualcosa necessariamente mediato da una visione generale, ma che coinvolge fin da subito il corpo del performer e la sua relazione con la complessità del materiale trattato. Nell'elaborazione che il performer compie di quest'ultimo è coinvolta la sua storia personale e, mi viene da dire, è anche ciò che fonda la dimensione "politica" della danza in quanto tale. Si tratta di un fatto su cui ho acquisito sempre più consapevolezza durante la gestazione dei miei ultimi spettacoli. Ci sono spettacoli chiaramente più o meno espliciti su questo punto, ma ciascuno di essi riflette sempre il punto di vista politico di chi ci ha lavorato. Ogni nostra azione è politica, non credo esista un modo per evitare di posizionarsi politicamente di fronte alla realtà.