Il risultato delle elezioni parlamentari in Moldavia era tutt’altro che scontato. Se la maggioranza dei seggi va alla coalizione europeista, il primo partito del paese è il più antieuropeo di tutti
La Moldavia ha scelto. O forse no. A scrutinio terminato, il quadro che si delinea è chiaro e incerto allo stesso tempo. Se è vero che, come parte della stampa internazionale le aveva rappresentate, queste elezioni sarebbero state un “referendum” sulla politica estera del governo di Iurie Leanca, principale fautore della corsa verso l’Europa dell’ultimo anno, è anche vero che il verdetto è tutt’altro che definitivo.
La maggioranza dei seggi va infatti alla coalizione dei partiti europeisti che appoggiano l’attuale governo, con 55 su 101, ma la forza politica con il maggior numero di parlamentari è il Partito socialista, fortemente antieuropeo, che può contare su 25 voti in parlamento.
Nel dettaglio, il Partito liberal-democratico ha ottenuto il 19,55% dei voti, il Partito democratico il 15,77% e il Partito liberale il 9,46%, portando lo schieramento europeista a un 44,5% totale. I partiti apertamente filorussi e antieuropei hanno totalizzato insieme quasi il 40% dei voti (Partito comunista al 17,89% e Partito socialista al 21,21%).
Come anticipato dai sondaggi già prima delle elezioni, nessun partito ha comunque raggiunto la maggioranza per formare un governo, e le possibilità di coalizione lasciano ancora aperto lo scenario definitivo. In particolare, gli occhi sono puntati sul Partito liberale che già da oltre un anno è uscito dalla coalizione, limitandosi a garantire un appoggio esterno al governo.
Se però la maggioranza dei voti espressi dai cittadini moldavi ha indicato una volontà di proseguire sulla strada dell’Europa, non si può ignorare che quasi un’altra metà di moldavi ha votato in direzione diametralmente opposta. E, per di più, che il partito socialista, con la sua campagna a favore dell’ingresso della Moldavia nell’Unione eurasiatica al fianco della Russia, ha raccolto più voti di tutti gli altri.
Una mano da Mosca
Negli ultimi giorni della campagna elettorale, Chişinău è stata tappezzata di cartelloni con la foto di Igor Dodon, capo dei socialisti, a colloquio con il presidente russo Vladimir Putin. Lo slogan scritto sotto diceva “Insieme alla Russia”, in romeno e russo. È chiaro che, con queste premesse, un risultato del 21% non può far parlare serenamente di scelta europeista degli elettori.
L’exploit socialista è un po’ la sorpresa di queste elezioni. Il partito era dato a meno del 2% solo lo scorso giugno e al 10% alla vigilia delle elezioni. Secondo alcuni commentatori, il miracolo sarebbe la prova di cospicui aiuti economici arrivati da Mosca. Non è una possibilità da escludere a priori, ma l’analisi del voto può spiegare il risultato anche diversamente.
Non si può ritenere del tutto infondato un aiuto russo, visto il precedente del partito Patria. La formazione, registrata come partito solo lo scorso settembre, era stata fondata da Renato Usatii, un uomo d’affari di origini moldave ma formatosi in Russia, e proponeva un programma fortemente filorusso. La Commissione elettorale centrale prima, e la Corte d’appello poi, avevano bandito Patria dalla competizione elettorale con l’accusa di aver ricevuto fondi dall’estero per la propria campagna. Lo scandalo è esploso dopo la diffusione di un’intercettazione audio in cui lo stesso Usatii ammette di rispondere agli ordini dell’Fsb, il servizio segreto russo.
Allo stesso tempo, però, è molto probabile che gli elettori rimasti orfani di Patria, che gli ultimi sondaggi davano intorno al 12%, si siano dirottati compattamente verso il Partito socialista, come forza più affine alla loro richiesta di ingresso nell’Unione eurasiatica. La somma delle percentuali dei sondaggi ante voto di Patria e Partito socialista coincide con il risultato elettorale di quest’ultimo.
Scelta mancata
Ma c’è un altro ingrediente che potrebbe aver portato alla netta affermazione socialista. Il Partito comunista, da sempre forza politica di punta nel paese, nonostante sia ora terzo partito, ha comunque segnato una sensibile flessione rispetto al passato. Basti pensare che alle scorse elezioni i comunisti avevano raccolto il 39% dei voti. Nel 2011 Igor Dodon, all’epoca nel partito, guidò una scissione verso il Partito socialista, forse portandosi quindi dietro quel quasi 20% mancante. Proprio questo episodio interno all’opposizione potrebbe oggi minarne la compattezza. Con l’incognita del ruolo del Partito liberale nella formazione del governo, le tensioni interne alle opposizioni potrebbero giocare un ruolo determinante per le future scelte del paese.
In questo senso, la presenza ingombrante della Russia è tutt’altro che svanita, a differenza di come previsto da molti osservatori in caso di vittoria dei filoeuropei. E la svolta storica e definitiva non c’è stata. Un “alleato” interno come prima forza politica del paese è forse per Mosca la migliore assicurazione per continuare a esercitare su Chişinău un'influenza capace di condizionarne le scelte future in tema di politica estera. E la cosa potrebbe trovare una sua certa legittimazione proprio nell’espressione del voto.
Lo spauracchio ucraino
Restano nelle mani di Mosca le altre leve usate fin qui, almeno in parte. Prima fra tutte la paura di un contagio ucraino.
Il territorio separatista della Transnistria – dove, è giusto ricordarlo, non si è votato – continua a rappresentare un’area di frizione tra la Russia e l’Europa sullo scacchiere del partenariato orientale. Il rischio, sempre paventato da Mosca, di uno scenario ucraino e di una nuova guerra per la Transnistria rimane attuale.
Da un lato Chişinău non è disposta a rinunciare al territorio al di là del Nistru, dall’altro una più profonda integrazione con l’Europa – e un potenziale ingresso nella Nato – potrebbero riaccendere il conflitto congelato dal 1992.
Non c’è però solo la Transnistria. Nei territori meridionali della regione autonoma di Găgăuzia, area di appena 2mila chilometri quadrati abitata da popolazione turcofona, le tendenze indipendentiste non si sono sopite. La circoscrizione elettorale della Găgăuzia, tradizionale bastione del Partito comunista, ha segnato una delle affluenze più basse alle urne e bisognerà aspettare la diffusione dei dati su base regionale per capire in che maniera si sono espressi gli elettori găgăuzi.
Che la crisi ucraina da Euromaidan in poi abbia aleggiato sulla Moldavia sin dagli inizi non è certo un segreto. Ma non si tratta soltanto del rischio di una nuova guerra comandata a distanza dalla Russia. La pur remota possibilità di una Maidan moldava è percepita in maniera diametralmente opposta dai due schieramenti elettorali. Se per chi è favorevole all’integrazione con l’Unione europea gli eventi di Euromaidan sono stati la molla per premere sull’acceleratore nella corsa verso l’Europa, per la parte di popolazione vicina alla Russia per lingua, cultura e tradizione sono un esempio di violenza e instabilità da tenere lontano. Uno spauracchio da agitare al momento opportuno.
Le prossime settimane e i prossimi mesi diranno quanto queste leve saranno utilizzate da Mosca.