C'erano rappresentanti di Ue, Usa e Russia in Moldavia nei giorni precedenti alla nascita del governo di Maia Sandu. Oltre le apparenze della grave crisi politica in Moldavia
Sabato 8 giugno la Moldavia è salita agli onori delle cronache internazionali a seguito della nascita di un nuovo governo, sostenuto da una coalizione formata dai social-democratici filorussi e dal blocco ACUM, dichiaratamente favorevole a un legame sempre più stretto tra Chișinău e l’Unione europea. Obiettivo di questa ambigua alleanza è mettere fuori gioco Vladimir Plahotniuc, leader del Partito Democratico di Moldavia (PDM) e più potente oligarca del paese. Il nuovo esecutivo, guidato dalla leader di ACUM, Maia Sandu ha ricevuto il sostegno congiunto di Bruxelles, Washington e Mosca, ma è stato quasi subito dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale moldava, su cui Plahotniuc esercita una pericolosa influenza: il governo sarebbe nato quando già erano scaduti i 90 giorni concessi dalla costituzione per la formazione di un esecutivo dopo le elezioni.
Si è venuta a creare quindi una situazione di pericoloso stallo politico e istituzionale, con un governo legittimato dai più forti attori internazionali e con una maggioranza parlamentare da un lato, e la decisione vincolante della Corte costituzionale dall’altro. Difficile prevedere oggi quali saranno gli sviluppi della vicenda. Per domenica sono previste nella capitale delle manifestazioni a favore del governo Sandu. È forse la prima volta dal 2014, anno dell’annessione della Crimea, che occidente e Russia si schierano dalla stessa parte per raggiungere un obiettivo politico condiviso. Tuttavia, ridurre la vicenda a un semplice accordo tra euro-americani e russi contro un nemico comune rischia di semplificare un quadro ben più complesso.
Certo è che quel che è accaduto sabato scorso non può essere slegato dalla visita, il 3 giugno scorso, del Commissario Ue per le politiche di vicinato e i negoziati per l’allargamento Johannes Hahn. Quest'ultimo, dopo aver incontrato tutti i principali leader di partito, ha ribadito la necessità impellente di un governo per la Moldavia, paventando addirittura dei rischi estremamente concreti per il paese nel caso in cui non si fosse giunti al risultato, primo fra tutti una diminuzione degli aiuti economici provenienti da Bruxelles.
Quello stesso 3 giugno si trovavano a Chișinău anche Dmitri Kozak, rappresentante del Cremlino e autore del famoso memorandum Kozak promotore di una federalizzazione della Moldova, e Bradley Freden, responsabile dell’ufficio Europa orientale presso il dipartimento di stato americano. La presenza simultanea dei rappresentanti di Russia, Europa e Stati Uniti ha sicuramente dato un impulso decisivo alle negoziazioni per la formazione del nuovo governo, culminate poi con la nascita dell’esecutivo Sandu. I tre grandi attori internazionali si son trovati d’accordo nel rifiuto di una prosecuzione del binomio di potere formato da Plahotniuc e dal presidente Igor Dodon, che negli ultimi anni ha monopolizzato la vita politica moldava.
Sebbene nelle ultime ore Dodon abbia pronunciato parole incendiarie contro Plahotniuc, i due hanno collaborato spesso, egemonizzando lo spettro politico del paese. Celebre è la famosa legge elettorale varata nel 2017 e figlia della collaborazione tra il PDM e il partito socialista di Dodon. Essa, trasformando il tradizionale sistema proporzionale moldavo in un sistema misto con parte dei parlamentari eletti tramite competizione in collegi uninominali ha mirato alla marginalizzazione politica del blocco pro-occidentale della Sandu. Nel contesto moldavo infatti la competizione in collegi uninominali facilitava i partiti più strutturati nel territorio e più propensi ad abusare del loro potere amministrativo.
Cosa si è rotto pertanto nel dialogo tra il potente oligarca e il presidente filorusso? È difficile credere che a Dodon interessi davvero liberare il paese dalle oligarchie. Più probabile è che la negoziazione personale tra i due sulla distribuzione del potere e delle influenze sia naufragata. Una trattativa provata anche da un video "casualmente" pubblicato da ‘Publika’ (un’emittente controllata dallo stesso Plahotniuc) proprio nella tumultuosa giornata di sabato che ritrae un incontro del 7 giugno scorso. Nel video Dodon spiega a Plahotniuc come il partito socialista abbia puntualmente ricevuto sostegno finanziario dalla Russia, tramite Alexey Miller, amministratore delegato di Gazprom, e Dmitri Kozak, senza tuttavia entrare nel dettaglio delle operazioni. Il partito avrebbe ricevuto dal Cremlino più di 1 milione di dollari, secondo le stime di Dodon, il quale successivamente pone come condizione fondamentale per un accordo con Plahotniuc il famigerato progetto di federalizzazione.
L’accordo tra i due è però naufragato, e il resto è storia. La Moldavia, paese più povero d’Europa, rischia di uscire distrutta dalla crisi politica scoppiata nei giorni scorsi. Molto dipenderà ovviamente da come Unione europea, Stati uniti e Russia, si porranno di fronte all’evolvere degli eventi e quanto vorranno impegnarsi nella soluzione della crisi sostenendo l’esecutivo Sandu.
Secondo l’analista romeno Dan Dungaciu , direttore dell’Istituto di scienze politiche dell’Accademia delle scienze romena, da sempre attento alle questioni moldave, la nascita del governo Sandu, descritto come un ottimo segnale nella lotta alla corruzione e all’oligarchia, è segno in realtà di obiettivi più ampi perseguiti dalle grandi potenze. Il contrasto a Plahotniuc sarebbe a suo avviso soltanto un pretesto per ridisegnare la situazione geopolitica del confine sud-orientale d’Europa, dal momento che “si dovrà discutere a un certo punto sia della soluzione del conflitto congelato in Transnistria sia di una soluzione di quello in Ucraina, e pertanto tutta la zona acquista un’importanza strategica fondamentale, sul futuro della quale tutti dovranno trovarsi d’accordo”.
Questo articolo viene pubblicato in contemporanea anche su EastJournal