In fila per ricevere aiuti alimentari (foto Francesco Brusa)

In Moldavia negli ultimi anni gli indicatori mostrano un calo della povertà. Ma sono dati che non poggiano su uno sviluppo solido dell'economia e società moldava

03/10/2016 -  Francesco Brusa Chişinau

“Come ti chiami?”

“Ivan. Fotografa, fotografa pure. Anzi dimmi dove mi devo mettere, qua va bene?”

È lui che viene incontro per discutere. Ci tiene a parlare con qualcuno, a raccontare la propria storia. Ivan si allontana dalla coda di pensionati che affolla piazza Sergei Lazo, nella capitale moldava Chişinau e incalza: “Sono un veterano di guerra. Ho combattuto per questo paese e vengo ripagato con 600 lei al mese. È ovvio che non posso sopravvivere così, è una vergogna”.

Come lui tanti altri si affidano alla mensa sociale gestita dall'associazione Diaconia – l'unica per ora a fornire un servizio simile nella città di Chişinau - per garantirsi un pasto caldo, o comunque per risparmiare qualcosa sul bilancio mensile. Non si tratta di senzatetto, quasi tutti infatti hanno un'abitazione di proprietà dal periodo sovietico, ma di anziani che hanno visto via via assottigliarsi il supporto economico da parte dello stato e che per questo si sentono abbandonati.

Alcuni segnali positivi

Eppure, stando alle statistiche, la situazione non sembra essere così critica. Anzi. Conosciuta come “la nazione più povera d'Europa”, la Moldavia dal 1999 al 2007 ha in realtà visto la percentuale di persone al di sotto della soglia di povertà scendere drasticamente, dal 73% al 26% (un dato che ora si aggira attorno al 12%, confermando la tendenza degli anni precedenti). Anche le pensioni – che certamente per alcuni si rivelano insufficienti – sono state aumentate dal governo e, secondo il recente rapporto della Banca Mondiale, “costituiscono il fattore principale nella riduzione della povertà e nella redistribuzione delle risorse”.

“Non possiamo dire che la situazione sia migliorata, ma è comunque rimasta più o meno stabile nel corso del tempo”, ci dicono i volontari di Diaconia. “Per ora copriamo due-tre zone della città e di solito non abbiamo grandi problemi. Riusciamo a fornire il nostro servizio a tutti quelli che lo richiedono, sia che si tratti di pensionati che di senzatetto”.

Tuttavia, nonostante i dati mettano in luce dei segnali positivi, la società moldava pare essere di fronte a un bivio.

I fattori che hanno consentito i miglioramenti finora raggiunti, infatti, difficilmente potranno resistere in futuro. La piccola repubblica est-europea ha una popolazione che sta invecchiando in modo rapido, complice la forte emigrazione (quasi la metà dei suoi cittadini vive e lavora all'estero): se 15 anni fa il numero di contribuenti al sistema pensionistico si aggirava attorno al milione e mezzo di persone, oggi si è ridotto di almeno la metà. In più i benefici prodotti dalle rimesse, uno dei “pilastri” delle entrate moldave (rappresentano infatti circa il 26% del PIL), si sono assottigliati date anche le crisi in corso in alcuni dei paesi da cui esse provengono (Russia in particolar modo).

È chiaro allora che il sistema economico è sì in crescita, ma quest'ultima è estremamente volatile e priva di solide basi. E vi è poi un problema cronico: la mancanza di infrastrutture e la sostanziale assenza di un concreto piano di sviluppo di queste ultime. Fin dall'indipendenza, la Moldavia ha beneficiato di aiuti internazionali, non riuscendo però a costruire una strategia a lungo termine vera e propria. Le stesse ricette economiche sostenute da enti esterni (come l'European Bank for Reconstruction and Development o il programma americano di privatizzazione delle terra “Pamant”) sono state applicate in maniera scrupolosa ma hanno finito spesso per non tenere conto delle specificità territoriali e sociali, favorendo magari l'ascesa di un'oligarchia economica che rappresenta all'oggi uno dei maggiori ostacoli alla crescita.

Il grande latifondo

Se si allarga lo sguardo al di fuori delle aree urbane, infatti, la situazione inizia ad apparire molto meno rosea. Qui i servizi e la mobilità lavorativa della capitale o di Balţi, seppur modesti, sembrano un'eco lontana.

La campagna moldava è dominata da un'agricoltura di sussistenza, spesso informale (per cui, quindi, non si riceverà alcuna pensione), e le poche strutture che fanno capolino nei villaggi coprono principalmente i bisogni essenziali dei residenti.

Il tasso di povertà delle zone rurali è infatti al 19% contro il 5% delle città, e il problema dello spopolamento si fa sentire in maniera lancinante (il 43% degli emigranti moldavi era precedentemente impiegato nel settore agricolo). Ma non si tratta semplicemente di salari e di spese, la dimensione più significativa della povertà delle campagne si trova nella difficoltà di accesso ai servizi: la popolazione rurale della Moldavia riceve circa un quarto delle forniture di acqua e gas rispetto alla popolazione urbana. Non solo, le stesse associazioni che si occupano di assistenza sociale incontrano maggiori problemi nei villaggi.

“Generalmente sussiste uno stigma sociale più forte” ci dice Andrei Bolocan, neo-direttore di Caritas Moldova che ha all'attivo alcuni progetti anche al di fuori delle città principali. “Aprire un servizio come quello della mensa comunitaria nei piccoli centri è poco efficace, perché gli utenti spesso si vergognano di usufruire di aiuti esterni. È chiaro che gli interventi vadano diversificati: il nostro obiettivo è di stimolare la creazione di piccole imprese agricole per sostenere un uso della terra che non sia orientato al puro mantenimento”.

Una chiave di lettura dei fenomeni in atto nelle campagne si trova ancora nel processo di privatizzazione citato in precedenza. Fra le repubbliche post-sovietiche, la Moldavia è stata la nazione dove il programma è stato portato a compimento più velocemente ma il quadro che ne è scaturito è quello di un “moderno latifondo”. Il 60% dei terreni coltivabili infatti è gestito da grandi aziende, mentre il resto è diviso in appezzamenti troppo poco estesi per uno sfruttamento commerciale. Viene dunque il dubbio che gli sforzi individuali e quelli delle associazioni che cercano di arginare la povertà nelle aree rurali debbano essere per forza accompagnati da una riorganizzazione del sistema su larga scala. Riorganizzazione che però sembra ben lontana dal verificarsi.

Coesione sociale e contesto politico

“I soldi sono un problema relativo”, afferma Igor Belei, direttore di Diaconia. “Quello che sta venendo a mancare in Moldavia è la comunità. L'emigrazione, la perdita di etica lavorativa dovuta alla crisi economica, la disillusione verso le istituzioni stanno lacerando il tessuto sociale. Lo scopo allora non è avere più fondi, ma sensibilizzare e costruire contesti di solidarietà. Si tratta di un processo lento e difficile, anche se qualche segnale positivo già c'è”. Ciò che potrebbe dare una spinta al terzo settore è una maggiore integrazione con l'apparato assistenziale dello stato, in modo da creare sinergia fra i vari servizi. A quanto pare però non si intravede dall'alto la volontà di compiere un passo di questo tipo. Le organizzazioni di volontariato sono considerate sostanzialmente dei “tappabuchi” per i casi che non riescono ad essere coperti a livello ufficiale.

Ma – forse in Moldavia più che altrove – i cambiamenti in piccolo sono strettamente collegati a scelte e condizioni internazionali. Lo status incerto sullo scenario geopolitico continua a creare spaccature e divisioni nella popolazione e rende l'economia fortemente influenzata da decisioni esterne. Nel corso degli anni si sono ad esempio succeduti vari embarghi sulle esportazioni moldave da parte della Russia, che sta sempre più utilizzando il commercio come strumento di ricatto politico. Allo stesso tempo, se gli accordi del 2014 con l'UE per una “zona di libero scambio” facevano sperare in una crescita più rapida, lo scandalo del furto di un miliardo di dollari dalle casse dello stato e l'instabilità governativa hanno subito dato un freno alle aspettative di integrazione, nonché agli scambi verso ovest. Certamente non esistono panacee o ricette già pronte da applicare. Eppure, ridefinire in modo più netto la propria posizione geopolitica sembra essere un passaggio obbligato per riguadagnare coesione interna, base imprescindibile per qualsiasi sviluppo futuro.