Nisporeni (foto F. Brusa)

Nisporeni (foto F. Brusa)

Dopo il crollo dell'Unione Sovietica anche la Moldavia ha dovuto affrontare la questione della privatizzazione. E quello dei terreni agricoli si è rivelato uno degli ambiti maggiormente problematici

14/08/2018 -  Francesco Brusa

Spostandosi appena fuori dalla capitale moldava Chişinău, la città lascia presto spazio alla campagna e a numerosi appezzamenti agricoli. Un terreno costantemente modificato dal lavoro umano e che, soprattutto, sembra essere ancora di difficile organizzazione da parte dello stato e della collettività.

Non è raro infatti imbattersi in campi abbandonati a se stessi. Così come non è raro, chiedendo un po’ in giro, intuire che le curve del paesaggio agricolo nascondono storie, conflitti, polemiche. «La privatizzazione dei campi era un’operazione necessaria», ci dice un ex-direttore di kolchoz, «ma andava condotta in un’altra maniera. Almeno metà delle persone coinvolte in questo processo si dice insoddisfatta. Nel mio villaggio, ci sono contenziosi aperti: c’è chi ancora non ha ricevuto la quota di terreno che gli spetta».

Privatizzare tutto

Con il collasso dell’Unione Sovietica, come tutte le neonate repubbliche anche la Moldavia si è dotata di una costituzione che tutelasse la proprietà privata. Si poneva dunque il problema di come riconvertire ampi settori dell’economia, in passato totalmente o quasi collettivizzati, verso un regime di mercato. E quello dei terreni agricoli, in particolare, si è rivelato essere uno degli ambiti maggiormente problematici.

«Dal 1991 al 1996 c’è stato un periodo di sviluppo nella situazione delle proprietà dei campi sostanzialmente incontrollato» ci racconta Alexandru Muravschi, ex-ministro dell’Economia nonché direttore di alcuni programmi di privatizzazione del terreno agricolo. «Era stato promulgato un codice agrario, il quale stabiliva che tutto il terreno relativo a kolchoz e sovchoz sarebbe dovuto essere redistribuito fra gli ex-lavoratori, i pensionati e in generale fra tutta la popolazione del villaggio e stabiliva anche una formula per calcolare la quantità di terreno. Ma non indicava alcun meccanismo concreto su come condurre il processo. Erano gli agricoltori stessi ad andare insieme per i campi, tracciare linee di divisione, dismettere aziende e vigneti, riassegnare i mezzi e i materiali per la coltivazione, etc. Questo non andava a beneficio della produttività agricola».

Il settore delle coltivazioni era e resta un fattore chiave dell’economia moldava, rappresentando ancora oggi circa il 40% de PIL. La questione, nel momento in cui si va a privatizzare una voce così importante della produttività generale, sta non solo nel capire quanto e a chi redistribuire la terra ma anche come mettere gli eventuali nuovi proprietari nelle condizioni di lavorarla in maniera proficua. Una questione che ha a che fare dunque con le tecnologie impiegate, un adeguato controllo sui fertilizzanti, la garanzia di avere sufficienti ettari per effettuare rotazione delle colture, etc. E che, soprattutto, rimette comunque in discussione la relazione fra stato e pianificazione economica, fra esigenze collettive e iniziativa privata. «Al tempo dell’Unione Sovietica i kolchoz non erano soltanto delle imprese che producevano generi alimentari», prosegue Muravschi, «ma erano al contrario imprese che sostenevano l’intero villaggio per quanto riguardava tutta la sfera sociale: costruivano scuole, strade, ospedali, rivendite, biblioteche… Concluso quel periodo, terminata l’erogazione di sussidi, gli agricoltori sono rimasti praticamente senza soldi e senza mezzi. Anche per quello si era iniziato a bruciare i terreni per fertilizzare, ad esempio.

Bisognava capire come migliorare tutto il meccanismo di redistribuzione. Ci siamo allora recati a Niznij Novgrod, in Russia, dove un simile processo era iniziato ed era stato studiato per la vicina federazione. Abbiamo parlato con il governatore dell’area e ci siamo consultati con degli specialisti. Eravamo pronti per cominciare anche in Moldavia».

Il programma “pamint”

Nel 1995 il kolchoz “Maiak” di Nisporeni (cittadina di circa 12.000 abitanti a 70 km da Chişinău verso la frontiera con la Romania) viene scelto come sperimentazione pilota per implementare un nuovo programma nazionale di redistribuzione. Viene istituita una Commissione per la Privatizzazione, arrivano gli aiuti finanziari e il supporto tecnico di USAID (l’agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale) e viene così messo a punto il Programma “Pamint” (“terra” in moldavo). Le elezioni presidenziali dell’anno successivo, con la vittoria di Petru Lucinschi (legato al Partito Agrario), sanciscono questo stato di cose e danno ufficialmente il via al progetto.

Il programma Pamint si basava sostanzialmente sull’assunto che non ci fossero in Moldavia le condizioni per un pieno sviluppo dell’iniziativa privata in agricoltura. Il sistema di redistribuzione, pur dividendo fra le persone coinvolte varie quote di proprietà, incoraggiava quindi a mantenere strutture di lavoro larghe e associate, come cooperative, società per azioni etc. In particolare, prevedeva l’elezione di leader, figure “forti” e riconosciute dalla comunità, che potessero facilitare il processo e assumersi la guida delle realtà agricole così costituite.

«Non è chiaro cosa significasse questo ruolo di leader», sostiene l’ex-direttore di kolchoz, «chiunque poteva essere eletto, ma il programma non specificava in alcun modo funzioni, compiti e scadenze da rispettare per tale figura. Una volta che la individuavano, le commissioni tecniche che giravano di villaggio in villaggio facevano firmare dei documenti, rimettevano a lui la responsabilità della divisione del terreno e se ne andavano. Come a dire che non c’era più niente di cui occuparsi in quell’area!». La realtà, evidenziata anche dai report della Banca Mondiale, è che il programma si andava innestando su dinamiche e relazioni sociali preesistenti, difficili da scalfire o da mettere in discussione. La maggior parte degli agricoltori tendeva a eleggere le stesse persone che già risultavano a capo delle entità collettive di stampo sovietico, le quali dal canto loro vedevano questa investitura come un modo per preservare il proprio potere o per acquisirne di nuovo.

In generale, sembrerebbe che gli abitanti dei villaggi non fossero sufficientemente informati sulla portata del progetto, sui suoi meccanismi e su eventuali garanzie e diritti che ne derivavano. «A mio modo di vedere, il sistema di redistribuzione è stato attuato in maniera corretta», prosegue l’ex-direttore.» È il passo successivo, relativo all’uso che si sarebbe dovuto fare delle nuove proprietà privatizzate, a risultare deficitario. Non è stata sviluppata alcuna legislazione su questo punto. Inoltre, in alcuni casi il programma Pamint entrava in contraddizione con il Codice Civile e di Procedura Civile, generando rallentamenti burocratici. Da qui derivano problemi con cui ci confrontiamo ancora oggi, dopo 25 anni: mezzi di coltivazione abbandonati, terre ed edifici di cui non ci si può legalmente servire».

Col senno di poi

Fatto sta che ora la quasi totalità del terreno agricolo moldavo è stata privatizzata, con eccezioni nella regione autonoma della Gagauzia e nello stato de facto indipendente della Transnistria che meriterebbero un discorso a parte. Oltre alle criticità evidenziate in precedenza, uno dei lasciti più problematici del processo riguarda proprio l’eccessiva frammentazione dei campi: la partizione in tanti appezzamenti che non sempre rimandano alla stessa autorità rende a volte difficoltoso organizzare le colture in maniera ottimale.

Viene da chiedersi se una tale “frammentazione” sia anche il riflesso di divisioni sociali e politiche, che sono magari andate di pari passo con i cambiamenti del territorio. Nel suo What was socialism and what comes next, osservando il contesto post-socialista in Romania, l’antropologa Katherine Verdery afferma che nel processo di de-collettivizzazione dei campi «le implicazioni delle contese locali fra agricoltori sui terreni si ramificano ben oltre i confini dei villaggi in cui avvengono: esse influenzano non solo l’immagine che i contadini hanno di sé e le loro relazioni interpersonali, ma anche il modo e la forza con cui lo Stato li “dominerà” in futuro. “Ricostituire la proprietà”, diceva un topografo, è come provare a riprodurre un intero dipinto quando si possiede solo una metà di esso».

Certo è che, in Moldavia, quello della privatizzazione agricola costituisce un episodio ancora controverso, sebbene non troppo dibattuto. Tracciarne le evoluzioni significa andare alle radici di tanti problemi che la repubblica est-europea si trova ad affrontare oggi, imbattendosi in differenti modelli e concezioni di sviluppo in contrasto fra loro. Con l’impressione che, forse, sia impossibile stabilire se ne esista uno migliore dell’altro:«Ogni volta che si compie una rivoluzione, arriva il pensiero che le cose sarebbero potute andare in altro modo. Col senno di poi, vorresti sempre aver agito diversamente» conclude l’ex-direttore.