Il femminismo e i diritti delle minoranze sessuali come strada per prestare attenzione alle categorie vulnerabili e marginalizzate della Moldova. Una sfida ancora tutta da costruire e non priva di ostacoli importanti. Nostro reportage
“Sembra paradossale, ma la nostra comunità è stata lasciata sola durante queste elezioni”. Lorelei Grigoriță, attivista presso il Queer Cafè di Chișinău, non si mostra entusiasta per la tornata elettorale nella repubblica moldava.
Il luogo da cui ci parla, una struttura a più sale che funge da spazio d’incontro e di discussione per persone Lgbt e per chi si sente parte di un più ampio movimento femminista, “guarda” dall’alto il Palazzo del Governo, trovandosi quasi arroccato nella parte più elevata del centro storico della capitale, in strada Mateevici, a fianco della lunga scalinata che conduce al laghetto urbano di Valea Morilor. “È proprio un tasto dolente: il massimo che si propongono di fare i partiti “filo-europei” è contrastare la propaganda anti-Lgbt, ma non ci sono rassicurazioni chiare in termini di diritti e di prevenzione alla violenza di genere. I partiti più filo-russi, invece, sono esplicitamente contro la comunità omosessuale e queer e contro le donne”.
Racconta che durante il periodo pre-elettorale gli attacchi al Queer Cafè si sono intensificati, sia in senso virtuale (con numerosi commenti d’odio sotto alle comunicazioni social che riguardano gli eventi organizzati dall’associazione) che in senso fisico (con almeno una finestra spaccata e delle manifestazioni “a favore dei valori tradizionali” che si sono svolte di tanto in tanto davanti alla struttura).
Non è, purtroppo, la prima volta in cui Grigoriță e il suo gruppo di riferimento non si sentono perfettamente accettati a livello pubblico: con Moldox, associazione da cui sostanzialmente è nato il Queer Cafè, sono state organizzate diverse edizioni di un festival di cinema documentario a Cahul, estremo sud della Moldova, senza però riuscire a ottenere una sostanziale collaborazione da parte della giunta locale, anzi più una sorta di diffidenza basata spesso su pregiudizi omofobici e sessisti.
Anche Costanta Dohotaru, attivista del centro comunitario 151 , compie una valutazione simile: “Nei discorsi di Maia Sandu la parola 'donne' sarà stata pronunciata sì e no solo due volte. E mi riferisco solo a lei perché in termini di rispetto e promozione dei diritti delle donne e Lgbt non credo ci sia alcuna alternativa, tutto il resto delle forze politiche è solo peggio”. Il nome del centro, 151, deriva dal numero civico in cui si trova situato, nella strada 31 August 1989 di Chișinău, giusto al termine di un’infilata di palazzi istituzionali, hotel, qualche scuola e una chiesa ortodossa. Si tratta di una novità abbastanza significativa nel contesto moldavo: la struttura, che si sviluppa sui due lati di un ampio giardino interno, arriva a ospitare decine di persone in stato di bisogno e ha altre cinque sedi sul territorio oltre alla capitale, grazie anche a finanziamenti da parte dell’Unhcr.
“Femminismo per noi significa sostanzialmente prestare attenzione alle categorie più vulnerabili e marginalizzate nella nostra società”, afferma Dohotaru, raccontando di come l’esperienza del centro sia nata nella primavera del 2022 grazie alla collaborazione di persone che inizialmente non si conoscevano fra loro, ma che si sono impegnate in senso umanitario prima durante la pandemia di Covid-19 e poi con la crisi dei rifugiati causata dall’invasione russa in Ucraina. “In quel periodo ho capito quanto fosse problematica la situazione a livello pubblico: i registri dei soggetti bisognosi di assistenza che ci sono stati forniti non erano in alcun modo aggiornati. Alcune persone erano morte da dieci anni, altre non sapevano il motivo per cui erano state inserite in questa lista, e via dicendo. Insomma, c’è proprio una mancanza di strumenti per affrontare le emergenze”.
Consapevolezza in aumento
Secondo le statistiche collezionate dalle istituzioni europee, il problema della violenza domestica “è più grave che nel resto del continente”: tre donne su quattro hanno subito qualche tipo di abuso da parte del proprio compagno (con una media europea del 43%) mentre il 20,9% è stata vittima di violenza sessuale (con una media europea del 7%). I dati della polizia mostrano un costante aumento delle denunce nell’ultimo decennio, dalle quasi 7mila del 2013 alle oltre 15mila dell’anno scorso, segno probabilmente che esiste una maggiore consapevolezza del problema e una maggiore propensione a rivolgersi alle autorità o cercare aiuto. Non senza controversie, la Convenzione di Istanbul è stata ratificata nel 2017 ed è entrata in funzione due anni fa.
Ma, a cambiare il contesto generale, c’è anche se non soprattutto quella che sembra essere una crescita dell’impegno e dell’attivismo da parte della società civile, sia attraverso forme più istituzionali come la fondazione di Ong e associazioni che in maniera più spontanea grazie a proteste, manifestazioni e iniziative di diverso tipo. “Pure all’interno degli ambienti attivi politicamente, c’è ancora una certa resistenza di stampo patriarcale e sessista”, spiega Dohotaru.
“Ma finalmente il termine femminismo non è più un tabù e inizia a essere associato esplicitamente a tanti eventi e a tante occasioni e numerose figure pubbliche lo utilizzano senza reticenza. In particolare, il problema della violenza domestica sta scuotendo le coscienze: ci sono periodi in cui casi di abuso e di femminicidio arrivano quotidianamente sui media e si è creata una reazione importante da parte della popolazione”.
Oltre alla marcia per i diritti delle donne dell’8 marzo (che, pur restando piccola, è andata crescendo in termini di partecipazione e di percorso nello spazio cittadino), da circa un anno a questa parte sono nate infatti proteste auto-organizzate che si legano a singoli casi di abuso e violenza per manifestare pubblicamente la negligenza delle diverse istituzioni, dal parlamento alla procura fino alle stazioni della polizia o alle sedi dei media. Per la seconda volta in assoluto, inoltre, il prossimo 25 novembre (giornata internazionale contro la violenza sulle donne) inizierà anche una due settimane di marce notturne per porre l’attenzione sulla sicurezza nelle strade della capitale.
“Avere anche solo 50 persone che però ogni settimana decidono di protestare presso la sede di una qualche istituzione è una novità assoluta per il nostro paese”, argomenta Grigoriță. “A volte ho l’impressione che in Moldova ci sono state occupazioni e oppressioni per periodi di tempo così lunghi che la cultura dell’impegno in prima persona è poco sviluppata. È vero: abbiamo avuto manifestazioni molto grandi di natura soprattutto civica, che riguardavano la corruzione o questioni simili. Ma in questo momento trovo molto più efficace provare ad agire su scala più piccola: una cosa è contestare genericamente ‘il potere’ affinché risolva tutti i problemi, un’altra è invece identificare con precisione il proprio obiettivo e articolare con chiarezza le proprie richieste”. Non è un caso, forse, che proprio tre mesi fa è stato introdotto nel codice legislativo moldavo il concetto di femminicidio.
Dilemmi d’approccio
Poche speranze sembrano arrivare per ora dalla classe politica, che continua a vedere i diritti delle donne e Lgbt come una questione troppo divisiva. “Credo che oramai nel paese si sia creato un senso comune di rifiuto della violenza di genere e una consapevolezza generale su fatto che sia un fenomeno endemico”, commenta Dohotaru. “Trovo davvero strano allora che le forze politiche che dicono di ispirarsi ai valori europei evitino di parlarne, probabilmente per timore di perdere consenso. Al contrario, io credo che potrebbe essere un elemento di coesione e di avanzamento della partecipazione pubblica”.
Il dilemma, però, da un certo punto di vista si pone. “Sono d’accordo con chi critica Maia Sandu perché non menziona a sufficienza il problema della violenza di genere”, osserva per esempio Paula Erizanu, giornalista e scrittrice molto in vista soprattutto a livello internazionale che con i suoi lavori ha contribuito a creare una nuova coscienza femminista in campo culturale: ha co-curato un’antologia di poesie in lingua romena composta da donne negli ultimi cent’anni e il suo romanzo Ard padurile (“Le foreste bruciano”) è incentrato sulle figure rivoluzionarie di Alexandra Kollontai e Inessa Armand.
“Tuttavia a volte penso anche che un approccio diretto e netto da parte della politica rappresentativa rischi di rivelarsi controproducente e possa alimentare un clima di maggiore odio. Dobbiamo considerare che, soprattutto per quanto riguarda la comunità Lgbt, una buona fetta di persone non è ancora uscita allo scoperto e che, se non cambia in maniera significativa la società, forse un orientamento gradualistico in politica è più efficace. D’altronde, anche “a ovest”, il movimento di emancipazione omosessuale e quello femminista sono nati come movimenti, non come partiti”.
Quello che è certo – con il referendum per l’ingresso in Europa che ha ottenuto un risicatissimo “sì”, con la vicina aggressione russa in Ucraina e un’insistenza delle politiche putiniane in senso anti-femminista e anti-Lgbt così come con la crescita di movimenti conservatori e antiabortisti dagli Usa alla Polonia fino alla Georgia – è che i fronti d’impegno, in Moldova come altrove, andranno moltiplicandosi.