Petar Petrović Njegoš

Petar II Petrović Njegoš

A 200 anni dalla nascita di Petar II Petrović Njegoš (1 novembre 1813 – 31 ottobre 1851), poeta, vescovo e sovrano del Montenegro, uno sguardo su uno dei protagonisti della letteratura slavo meridionale

19/11/2013 -  Božidar Stanišić

Per avvicinarsi alla complessa figura di Njegoš bisognerebbe allontanarsi da tutte le versioni sulla “verità” del suo ruolo politico, militare ed ecclesiastico, soprattutto da quelle proposte nell’ultimo ventennio. Innanzitutto, ci vorrebbe una lettura attenta de Il serto della montagna e de Il raggio del microcosmo, due lunghi poemi entrambi disponibili in lingua italiana.

Il primo esprime il dramma di un piccolo popolo che, stretto tra le grandi potenze – in primis l’Impero Ottomano, per il quale quella piccola isola di terra libera rappresentava un disturbo continuo, poi l’Austria e la Russia - e i problemi tribali interni, lottava per la propria sopravvivenza.

Il secondo poema è una riflessione filosofica, religiosa e poetica sull’esistenza terrena e su Dio, in particolare sulle complesse relazioni fra il male e il bene e sul senso della poesia.

Poi, si potrebbero visitare quelle parti del Montenegro antico che, guidato dai sovrani della stirpe dei Petrović, faticosamente ma con incredibile tenacia militare e saggezza politica riuscì a navigare libero nelle acque dominate dalle grandi potenze di allora.

Infine, bisognerebbe andare là dove ancora ci sono dei montenegrini che conoscono a memoria Il serto della montagna, poema tanto glorificato da parte serba e montenegrina (spesso al di fuori di ogni realistica considerazione sulla storia e la letteratura), quanto negato e accusato dai musulmani bosniaci in quanto fonte del nazionalismo panserbo e invito alla pulizia etnica e al genocidio degli anni novanta.

significa anzitutto la cittadina di Cetinje e i suoi dintorni, il lago di Scutari, la montagna Lovćen.

La vita di Njegoš

Sono passati molti anni dall’estate del 1978, l’anno del mio primo viaggio in Montenegro. Le poesie riflessive di Njegoš erano uno degli argomenti della mia tesi di laurea sul romanticismo serbo. Božidar Pejović (1940-1979), il mio professore alla Facoltà di filosofia di Sarajevo, originario del Montenegro – ancor oggi mi sembra che questa persona mite, dallo sguardo profondo sulla letteratura, sapesse tutto su Njegoš - una volta mi disse che è vero, anzi verissimo, che il poeta sta soprattutto nella sua opera. È là che dobbiamo cercarlo. Però, diceva il professore, c’è qualcosa che si respira anche nell’ambiente in cui l’opera è nata. Quel respiro, nel caso di Njegoš, è paragonabile a quello di Weimar, della casa di Goethe. Con una differenza: è difficile trovare un tedesco che conosca il Faust a memoria!

A Njeguši, villaggio nativo di Njegoš, poi a Cetinje, antica capitale del Montenegro, a Rijeka Crnojevića e in altri paesini sul lago di Scutari, incontrando persone per cui Njegoš è semplicemente Vladika (il vescovo) oppure Rade Tomov (Rade, figlio di Tomo) mi accorgevo di quanto fosse vivo il poeta Njegoš e quanto la sua vita fosse incisa nella memoria della gente.

Da un'osteria nelle vicinanze della casa natale di Vladika, a Njeguši, dove il prosciutto che porta il nome del villaggio viene tagliato a fette spesse come un dito e viene servito un vino denso come sciroppo, a Cetinje e Lovćen, dove la vetta Jezersko (1660 m) è dominata dal Mausoleo del poeta, il viaggiatore, non importa quanto informato sulla vita di questo grande personaggio, può ascoltare un unico racconto dal titolo “La vita di Njegoš”.

Alcune domande fatte dai paesani si incidono nella memoria: “Sapete che Rade Tomov, nipote di Petar I Petrović, aveva solo diciassette anni compiuti quando, nel 1830, dovette prendere il trono del sovrano e la tonaca di vescovo, in tempi difficili per il nostro paese?”; “Sapete quanto era colto, che conoscenza aveva della filosofia greca?”; “Sapete che non era facile governare un paese come il nostro, diviso in tribù litigiose, e che una volta disse: 'Io sono sovrano fra i barbari, e barbaro fra i sovrani'?”; “Sapete quanto ci voleva bene, tanto da vendere a Trieste la medaglia con cui era stato decorato da Metternich, principe austriaco, per comprare del grano per il popolo affamato?”; “Sapete che a Roma, nella chiesa che custodisce le catene di San Pietro, a proposito dell’usanza di baciarle disse: 'I montenegrini non baciano catene'?”; “Sapete che, costruita la cappella sulla vetta Jezersko, disse ad alcuni collaboratori: 'Mi seppellirete qui', e loro, perplessi, gli dissero che la vetta più alta era lo Štirovnik (1749 m), ma Vladika rispose che là avrebbero potuto seppellire qualcuno più grande di lui?”.

Una vecchia di Cetinje, toccandosi con le dita la fronte, mi disse infine: “Era più grande di tutti noi, e non solo per la sua statura di gigante…”

I funerali di Njegoš

All’inizio degli anni settanta, in Jugoslavia, si era acceso il dibattito sulla costruzione del Mausoleo. Il potere comunista montenegrino, appoggiato da Tito in persona, voleva l’abbattimento della chiesa sulla vetta Jezersko, certamente troppo cristiana. Fra i contrari c’erano nomi celebri come Miroslav Krleža e Meša Selimović. Il secondo, in particolare, rifiutò seccamente anche di partecipare al comitato per la costruzione del Mausoleo, basato sul progetto del grande scultore croato Ivan Meštrović. Secondo Selimović si trattava di un’opera inutilmente faraonica e offensiva nei riguardi dell’ultimo desiderio del grande poeta. Viene ancora ricordato il gesto di un uomo di Bijelo Polje, di nome Iso Mahmutović, capocantiere di una ditta edile di Titograd (l'attuale Podgorica), che rifiutò l’ordine di abbattere la chiesetta dicendo: “Io non distruggo le cose sante di nessuno”. Si era licenziato, poi era andato a lavorare in Germania. E con lui rifiutò gli ordini un intero gruppo di operai, tutti musulmani, fra cui c'erano anche alcuni albanesi originari di Plav e Gusinje.

Beato colui che vive per sempre /

aveva ragione di essere nato

I versi di Njegoš de Il serto della montagna, inseriti nel contesto della sua ultima sepoltura, in realtà la settima, risuonano a questo punto ironicamente e potrebbero essere riletti. Qualcuno vive davvero per sempre, ma le sue ossa di tanto in tanto vengono disturbate.

Nel lontano 1851, Vladika fu sepolto a tempo determinato nel Monastero di Cetinje, vicino a Biljarda, la sua residenza. Nel 1854 fu trasferito nella antica cappella sulla cima Jezersko. Nel 1916 il comando dell’esercito austriaco ne ordinò la riesumazione e il segreto trasferimento nel Monastero di Cetinje. Nel 1925 le ossa di Njegoš (la cui salvezza si deve ad un soldato serbo al servizio dell’esercito austriaco) vengono nuovamente sepolte in una nuova chiesa, edificata al posto di quella vecchia distrutta durante la guerra dai cannoni austriaci delle Bocche di Cattaro. Nelle cronache ritorna un luogo comune: la nuova chiesa di Lovćen era stata costruita perché voluta dal re Aksandar Karadjordjević, ma in realtà il re avrebbe voluto anche il Mausoleo, quindi l’opera dello stesso Meštrović da tempo avrebbe goduto anche dell’appoggio della corte serba. L’arcivescovo Gavrilo Dožić, però, si era opposto alla volontà del re minacciando le dimissioni. Nel 1972 infine, nel momento dell’abbattimento della chiesa, quelle ossa furono nuovamente esumate e nel 1974 di nuovo seppellite. Se il viaggiatore si fermasse a Ivanova Korita, non lontano da Cetinje, potrebbe notare un mucchio di pietre lavorate coperte di erba e terra: sono di quella chiesa del 1925.

Il Njegoš di Ivo Andrić

Sulla vita e l’opera di Njegoš sono stati scritti numerosi libri, frutto di profonde ricerche storiche, biografiche e letterarie. Nessuno come Ivo Andrić, però, è riuscito a realizzare una sintesi degli sguardi sulla molteplice figura di Petar II Petrović Njegoš, sul suo dramma personale vissuto fra le diverse vocazioni governative, religiose e poetiche. Fra i nove saggi di Andrić scritti sul grande poeta nell’arco di quattro decenni, spicca quello del 1935, Njegoš come eroe tragico del pensiero del Kosovo (il testo non è tradotto in italiano).

Scritta nel periodo in cui il mito romantico del Kosovo, che per la generazione di Andrić era una delle basi dell’idea di liberazione e indipendenza degli slavi meridionali, veniva deviato dai nazionalisti serbi di allora, l'opera sembra attuale anche oggi. Questo saggio non è apoteosi, né conferma dei luoghi comuni della leggenda del Kosovo; è un prodotto dello sguardo di Andrić su Njegoš e sulla sua figura di poeta diviso fra l’impegno politico e militare da un lato e la poesia dall’altro. Pure qui Andrić è Andrić – spietato nelle rivelazioni dei fatti dell’epoca e decisivo nella scelta delle fonti, tra le quali spicca la corrispondenza diplomatica di Vladika, i viaggi in Europa e i ricordi delle persone a lui più vicine.

Dio e Kosovo

Cosciente delle difficoltà di avvicinarsi a Njegoš, Andrić ricorda che ne Il serto della montagna sono due le parole più frequenti: Dio e Kosovo. Njegoš spesso incominciava con questa frase la sua corrispondenza con i russi e con i turchi: “Dal crollo del nostro regno”. Quel regno è serbo, un ramo del quale, secondo Njegoš, “non abbattuto allora dai turchi ha lasciato le terre dei propri avi e alla fine della fuga ha trovato rifugio in queste montagne”.

“Nessuno”, scrive Andrić “ha capito meglio di Alipaša Stočević, visir di Erzegovina, uomo saggio e sfortunato, chi è Njegoš, quando ha detto una verità semplice e profonda: ‘Giuro sulla fede, lui è il vero principe serbo del Kosovo’. Questo ritratto di Njegoš, però, è fatto anche di sfumature che rivelano il suo dramma individuale, non privo di dubbi e debolezze. Innanzitutto, la vocazione ecclesiastica non era mai entrata nel suo spirito. Una volta disse: “E’ più facile essere vescovo che uomo.

Nel saggio di Andrić viene citata anche l’opera Lettere dall’Italia, dello scrittore serbo Ljuba Nenadović (1826-1895), in cui è descritto il secondo viaggio di Njegoš in Italia, già gravemente ammalato dalla tubercolosi e “fosco come Byron”. In un dettaglio di straordinaria bellezza viene descritto Njegoš davanti al ritratto di Gesù dipinto da Raffaello, in un altro la sua passeggiata fino all’ultimo livello del Colosseo, “dove si era fermato finché il sole non tramontò e aspettammo le stelle”.

E’ vero: il Njegoš di Andrić è soprattutto l’uomo combattente, cosciente sia della propria posizione nei confronti della potenza da sempre minacciosa, l’Impero Ottomano, che delle relazioni complesse con l’Austria e la Russia. Il suo aut aut, drammaticamente sottolineato nei versi de Il serto della montagna: “La croce e la mezzaluna, due simboli terribili / sopra le tombe regnano”, proviene dall’uomo cosciente della dolorosa questione della sopravvivenza di fronte al pericolo ottomano. Nella sua esclamazione “che accada ciò che non può essere” ha sintetizzato ciò che da Andrić viene collegato alla storia antica di un piccolo popolo da secoli allontanato dalle correnti culturali europee.

Purtroppo, però, Njegoš è da anni “spiegato” prevalentemente da coloro che strumentalizzano la sua figura, che proiettano il suo impegno politico e militare nei tempi odierni non rendendo conto né delle circostanze del passato, né della sostanza del suo messaggio umano e poetico.

 

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