La tappa al lago Trnovačko, in Montenegro, da un racconto di viaggio lungo la Via Dinarica. Più di mille chilometri di cammino sulla dorsale montuosa che attraversa l’ex Jugoslavia
Ci troviamo nel Parco regionale del Piva ed attraversiamo una zona che pare essere umida anche in giornate più soleggiate. A testimoniarlo la presenza di numerosi ruscelli e la natura verdeggiante di muschi e felci che accompagnano il nostro incedere. Ad un lungo tratto su sterrata seguono alcuni strappi nel fitto del bosco, dove la gocce che cadono dagli alberi aumentano di intensità fino a convincerci ad indossare la mantella. Saliamo velocemente di quota e gli abeti sostituiscono presto i latifoglie. Quando usciamo da questa incantevole foresta, ci troviamo in un pianoro erboso. Tutto intorno a noi si ergono montagne rocciose le cui cime rimangono però nascoste dalle ultime e capricciose nubi residue. Il sole sembra tuttavia destinato a spuntarla e la temperatura incomincia a farsi più gradevole, tanto che abbandoniamo la divisa anti pioggia. Procediamo agevolmente in questo scenario senza dislivelli facendo occasionali slalom tra massi erratici trascinati qui chissà quando, da qualche ghiacciaio o da qualche Obelix balcanico.
Una bandiera nazionale montenegrina ed un minaccioso cartello in inglese che recita “entry fee” preannunciano l’arrivo al lago Trnovačko del quale riusciamo ad intravvedere solo un angolino. Avanzando, piano piano, lo specchio d’acqua ci appare in tutta la sua interezza. Quando arriviamo il clima è finalmente estivo sebbene ci sia una leggera brezza, ultimo ricordo della pioggia intensa di ieri. Ci sono dei ragazzi asiatici accampati qui. Dai tratti somatici si direbbero Filippini. Prendono il sole perché l’acqua è forse troppo fredda, o magari hanno già fatto il bagno. Noi ci sediamo sulla sponda, poco lontani da loro, per riposarci e pranzare. Dobbiamo fare il pieno di energie perché ci aspettano una salita molto dura ed ancora tante ore di cammino.
Proprio alle nostre spalle si trova il rifugio, una struttura decisamente gradevole e ben tenuta. L’area è recintata, forse per proteggere il rigoglioso orticello dalle scorribande degli animali selvatici, l’edificio principale sembra solido ed adatto anche ad altitudini ed intemperie himalayane. Le pareti ed il tetto sono rivestiti di quello che dalla lucentezza sembrerebbe essere acciaio zincato. Apprezzabile il fatto che in una terra lacerata da odi etnici e divisioni, sopra l’ingresso facciano bella mostra le bandiere di tutte le nazioni che componevano un tempo la Jugoslavia. Un camino in pietra sale esternamente verso il cielo, adornando l’angolo a sud-est. Di fronte all’ingresso ci sono vasi con fiori, regolarmente annaffiati e manutenuti. Accanto al rifugio si trovano due costruzioni
aperte sui lati e con i tetti rivestiti nuovamente di metallo zincato. Quella più piccola ospita un angolo cottura con braciere, il sač ed una fonte. Quella più grande, con tavoli e panche è destinata ai momenti conviviali. Dalle informazioni raccolte pare che, avvisandolo in anticipo, il ranger prepari succulente grigliate di carne, pesce e verdure per i golosi di passaggio. Non possiamo verificarlo perché costui non apparirà mai durante la nostra sosta e la porta del rifugio resterà perennemente chiusa. Poco male, sembra che ci siamo risparmiati il pagamento per l’accesso a questo angolo di paradiso.
Sono le dodici e trenta quando ci rimettiamo in marcia. Come al solito ci tocca affrontare il tratto più duro di cammino durante le ore più calde. Per fortuna però le temperature sono ben lontane da quelle roventi ed afose dei primi giorni di cammino. Inizialmente costeggiamo il lago, procediamo in piano fino ad un punto in cui accanto all’invaso principale notiamo la presenza di due laghi minori, sono quasi degli stagni. Passato il secondo, improvvisamente il sentiero si impenna ed il fondo da un confortevole sterrato passa ad essere scivoloso e sassoso. Si fa parecchia fatica, il peso degli zaini ci schiaccia il busto fino a renderlo parallelo al terreno, basta però guardarsi intorno che la stanchezza svanisce.
Il lago, a forma di cuore, visto dall’alto è un miracolo della natura: la brezza lo increspa ma non cancella le sfumature di azzurro e verde che lo caratterizzano, i due stagni appaiono come smeraldi. A fare da cornice il verde intenso dei boschi di abeti che sfuma poi nel verde più sbiadito ed ingiallito dei pascoli, fino a che, in questo anfiteatro naturale, non rimangono che la candida roccia calcarea ed il celeste del cielo.
Quando raggiungiamo il valico tira un vento forte e freddo, le nuvole tornano improvvisamente a farsi minacciose ed il mio termometro indica che ci sono solamente dieci gradi. Siamo obbligati a fermarci ed estrarre dai nostri zaini qualcosa di più consono alla temperatura ed allo sferzare del vento. Dal passo abbiamo modo di scrutare quello che dovrebbe essere il cammino nei prossimi giorni e la gola del fiume Piva già si preannuncia minacciosa. Altra minaccia che compare in lontananza sono parecchie colonne di fumo che si alzano dei boschi: l’idea di andare incontro a dei possibili incendi non è proprio stimolante.
Si tratta però di ostacoli ed imprevisti che affronteremo nei prossimi giorni, ora meglio concentrarsi sulle difficoltà in essere. La discesa dal passo infatti si rivela estremamente lunga e su un fondo particolarmente sconnesso che sollecita ogni nostra articolazione. Dapprima si procede su una pietraia, dove non sempre è facile individuare il sentiero. Infatti in alcune circostanze seguendo l’istinto ce ne allontaniamo, affrontando pendenze e difficoltà maggiori, ma percorrendo meno strada, per poi ricongiungerci più a valle al percorso dinarico. In questo tratto si scende lungo un ampio canalone e quindi le possibilità di sbagliare direzione, pur sviando dal tracciato ufficiale, sono decisamente ridotte.
Scesi di quota la pietraia lascia gradualmente spazio a boschi di abeti, ma il transito resta comunque piuttosto difficile anche per la presenza di insidiose radici affioranti. La situazione migliora quando, scendendo ulteriormente di quota, inizia anche il bosco di latifoglie. Sembra ben tenuto e questo ci fa sperare di essere vicini a qualche forma di civiltà, visto che sono quasi le cinque di pomeriggio e che dal cielo cade qualche goccia di pioggia.
I segni di presenza e lavoro umano si fanno sempre più tangibili. Inizia a comparire qualche catasta di legna, qualche capanno ed infine le prime abitazioni. Il sentiero si fa stradello ed in breve raggiungiamo un piccolo borgo di case sparse. Ignoriamo il nome della località, ma proprio sulla strada principale si trova una struttura in legno con panche e con una tettoia. Accanto ad essa una sorgente dal getto impetuoso e costante. Ci fanno l’occhiolino ed ammiccando con forza seduttiva ci convincono facilmente che questo sia il posto adatto per cenare e magari anche dormire.
Sembra che questa specie di capanna sia usata anche per momenti conviviali dalla comunità o da viandanti in quanto ci sono alcune stoviglie, un barattolo di sale, uno di zucchero e del caffè.
Consumata la solita cena a base di porcherie assortite, iniziamo a studiare le mosse per la notte. Tavolo e panche non sono abbastanza larghi e lunghi per essere usati come giaciglio, in più la sorgente è proprio a due passi e porterà di sicuro umidità, sempre che non si metta anche a piovere. Poco distante si trova un bel pianoro con erba bassa appena tagliata. Sembra l’ideale per piazzare le tende e ci mettiamo all’opera.
In pochi minuti la tenda del Barsani prende forma, mentre di mio a prendere forme, peraltro assurde e degne di un museo di arte contemporanea, sono solo i picchetti in alluminio. Lo strato di erba e terra è profondo solo pochi centimetri e poi lascia spazio a sassi e pietre che, deformando gli ancoraggi, rendono inutile ogni mio tentativo di montare la tenda. Dopo aver cercato di raddrizzare il più possibile i picchetti, giungo alla conclusione che in futuro porterò quelli in acciaio e che magari la prossima tenda sarà autoportante. A dieci metri da noi si trova un fienile in legno e muratura. Il portone è chiuso ma noto il classico segno a vernice con cerchi concentrici biancorossi e lo prendo come un segnale.
La porta è chiusa ma senza l’ausilio di lucchetti o catenacci ed all’interno c’è una montagna di fieno. Sperando di non essere svegliato da qualche contadino urlante e brandente un forcone, decido che questo sarà il mio bivacco per la notte.
Mirko ormai ha piazzato la tenda. Provo a convincerlo che in tenda sarà più freddo ed umido e che domattina dovrà asciugare i teli. Indomito, non cede al mio consiglio di smontarla e dormire anche lui nel fienile. Per una forma di pigrizia io non amo dormire in tenda, e se solo trovo un bivacco un minimo funzionale preferisco lasciarla nello zaino ed utilizzarla solo in caso manchino alternative.
Di fronte alle nostre postazioni per la notte, proprio in quella che sembra la direzione da prendere domattina, vediamo ormai vicine alcune di quelle colonne di fumo viste in lontananza qualche ora prima. Speriamo non si tratti di incendi fuori controllo, ma nel frattempo la temperatura scesa velocemente ci farebbe desiderare un bel falò dove riscaldarci. Preferiamo non attirare l’attenzione se non addirittura l’inimicizia degli abitanti del borgo e rinunciamo ad accendere un fuoco. Per ripararci dal freddo ci ritiriamo così nei nostri giacigli quando quasi non è neppure ancora buio.
Mi sistemo sul soffice manto di fieno. Il suo profumo, unito a quello di polvere, impregna l’aria. Inutile dire che sono asmatico ed allergico alla polvere. Così come non sono amante dei topi che sicuramente non mancheranno dentro questo ricovero. Nascondo bene il cibo per evitare di trovarlo rosicchiato l’indomani mattina e metto a portata di mano il mio broncodilatatore per affrontare tempestivamente eventuali attacchi d’asma. Spengo la frontale, tenendola al collo in caso mi debba alzare durante la notte. Velocemente il calore del mio corpo riscalda il sacco a pelo estivo e forse troppo leggero per queste temperature. Altrettanto rapidamente mi addormento con la speranza di non essere disturbato da crisi respiratorie o da roditori incuriositi dalla mia presenza.