Immagini trasmesse all'epoca dalla RTCG

A dieci anni dall'intervento della Nato contro la Repubblica federale di Jugoslavia (Serbia e Montenegro), il Montenegro si trova ora sull'uscio di quest'organizzazione politico militare. Delle 49 persone rimaste uccise nella primavera del 1999 se ne ricordano solo i familiari

01/04/2009 -  Mustafa Canka Ulcinj

Sono in pochi in Montenegro a dare rilievo al tragico anniversario dell'inizio della campagna Nato. Le elezioni parlamentari anticipate e la crisi economica che sta scuotendo il paese occupano completamente la vita politica e sociale del più giovane membro dell'Onu.

Dalla coalizione di governo guidata dal premier Đukanović si afferma che la pace mantenuta all'epoca in Montenegro rappresenta, oggi, la sostanza fisiologica ed economica del paese, mentre il capo della diplomazia montenegrina Milan Roćen ritiene che la Nato non sia colpevole per le vittime che allora vi furono.

Allo stesso tempo in Montenegro i partiti filo-serbi credono che a Podgorica debba essere eretto un monumento per ricordare le vittime dei bombardamenti. "La colpa è del regime che fa di tutto per cancellare il ricordo del passato e per convincerci che ci hanno bombardato per il nostro bene", si afferma tra le file della "Nuova democrazia serba" di Andrija Mandić.

Imprigionato dai suoi miti e dalle leggende, dietro cui è stata nascosta la verità, senza forti tradizioni democratiche e istituzioni, il paese alla fine degli anni Novanta del secolo scorso era in preda ad una "silenziosa guerra civile". Molti temevano che avrebbe potuto trasformarsi in un vero conflitto.

Una popolazione ben armata, profondamente e uniformemente divisa sulla questione dell'identità politica e culturale si raccolse da un lato attorno al carismatico presidente Milo Đukanović - all'epoca era sostenuto dall'occidente - e dall'altro attorno all'ex presidente del Montenegro nonché leader del più forte partito d'opposizione, Partito socialista popolare (SNP), Momir Bulatović, che invece godeva del sostengo della Serbia di Milošević.

In quel periodo in Montenegro le forze erano ben bilanciate: Đukanović poteva disporre di una polizia ben addestrata, e Bulatović dell'esercito federale. Decine di migliaia di persone, su un totale di 630 mila abitanti, si guardavano attraverso il mirino. In molti pensavano che sarebbe giunto il momento della resa dei conti. Fu l'equilibrio della paura il fattore decisivo che impedì un conflitto tra fratelli.

Anche se un notevole contributo a contenere il conflitto fu dovuto anche la "Dichiarazione sul mantenimento della pace civile", approvata all'unanimità dal Parlamento montenegrino pochi giorni dopo l'inizio dell'intervento della Nato.

D'altra parte il Kosovo è sempre stato un tema ben utilizzato quando c'era bisogno di scaldare gli animi dei montenegrini a favore di un attacco armato. Il vecchio "eroico" Montenegro si basa proprio sul "mito kosovaro", sviluppato in proporzioni smisurate dal più grande poeta e re montenegrino, Petar Petrović Njegoš (1813-1851). Per questo l'intervento della Nato mise Đukanović in una posizione molto difficile. In modo tacito Đukanović si era posizionato a fianco degli alleati occidentali, e nel paese fu accusato di tradimento.

Gli stretti rapporti tra il premier montenegrino e Washington erano già iniziati alla fine del 1995, quando Đukanović e il vicepresidente del Partito democratico socialista, Svetozar Marović (l'ultimo presidente dell'Unione Serbia e Montenegro), fecero visita allo State Department e al Pentagono, proprio nel momento in cui stavano per concludersi i negoziati a Dayton sull'accordo di pace per la Bosnia Erzegovina.

Sapendo che i funzionari montenegrini a Washington avevano "cambiato l'abito", e che al Montenegro era stato attribuito il ruolo di "portaerei americana per destabilizzare la Serbia", il presidente serbo Slobodan Milošević voleva abbandonare i negoziati, ma alla base Wright-Patterson cedette alle pressioni dell'allora inviato speciale americano per i Balcani Richard Holbrooke.

Con ciò si spiega ogni tipo di appoggio offerto da Washington al Montenegro quando versava in situazioni di crisi e durante le sfide della fine degli anni Novanta. Misurato finanziariamente, l'aiuto ha superato il valore di 300 milioni di dollari, vale a dire che il Montenegro, dopo Israele, è il paese che ha ricevuto il più grande sostegno americano pro capite.

Anche durante gli attacchi, Đukanović veniva ricevuto nei centri delle capitali occidentali, motivo per cui il Montenegro fu poco esposto ai bombardamenti. Gli aerei dell'Alleanza partivano dalla base di "Aviano", sorvolavano sopra il territorio del Montenegro per andare verso la Serbia e il Kosovo, e soltanto sporadicamente i loro obbiettivi erano l'Esercito jugoslavo di stanza in Montenegro.

Anche se spesso provocati dalla base militare nel porto di Bar, questo obbiettivo non fu mai bombardato. All'epoca i media scrivevano che il bombardamento non c'era stato perché Đukanović era continuamente in collegamento con l'allora presidente francese Jacques Chirac.

Sul fronte delle vittime, la tragedia più grande accadde il 30 aprile a Murino, nel nord est del Montenegro, quando morirono sei civili, di cui tre bambini. Durante i bombardamenti a Murino non c'era nemmeno una unità militare e non c'era nemmeno un obiettivo militare che potesse essere meta della Nato. In seguito, sul ponte dove sono morte quelle persone innocenti è stato eretto un monumento.

Nel 1999 decine di migliaia di profughi albanesi si rifugiarono in Montenegro. Una decina di giorni prima della tragedia di Murino, i soldati dell'esercito jugoslavo al nord del Montenegro, a Rožaj, avevano ucciso sei profughi albanesi del Kosovo. Il processo per questo crimine di guerra è da poco iniziato nel comune di Berane.

A dieci anni di distanza, pare che soltanto le famiglie delle persone morte ricordino l'intervento dell'Alleanza atlantica. Anche se un certo sapore amaro è rimasto nella bocca di molti. Motivo per cui soltanto il 40 percento dei cittadini del Montenegro è a favore dell'ingresso nella Nato.