Rozaje

Una regione a cavallo tra Serbia e Montenegro. E' lì che si è forse giocato il destino del recente referendum. Un approfondimento a cura di Fabio Dalla Piazza

31/05/2006 -  Anonymous User

Di Fabio Dalla Piazza

Nella casa di Mujevic Hamda, pittoresco bosgnacco del villaggio di Negus nei pressi di Rozaje, uno dei centri del Sangiaccato montenegrino, si respira un'aria internazionale. Questa kuca, abitazione privata sperduta fra pascoli in disuso e trasformata in seggio elettorale, ospita la commissione di seggio composta da sei membri, 3 indipendentisti e 3 unionisti, tutti comodamente seduti su pelli di pecora e assorti in discussioni che poco sembrano avere a che fare con il referendum indipendentista. Si parla soprattutto di Germania, Italia e lavoro all'estero, sullo sfondo dell'azzurra urna elettorale che si staglia sui variopinti tappeti appesi alle pareti.

Dei sei membri solo 2 risiedono nei pressi di Njegus, gli altri sono tutti ritornati dalle loro patrie d'adozione per quello che unanimemente definiscono uno storico giorno per il loro paese. E questo destino è condiviso da buona parte della popolazione di Njegus, dove dei 100 votanti almeno 30 sembrano essere rientrati appositamente dall'estero.

Qui, come in tutta la regione di Rozaje e Plav, parte nord-orientale del Sangiaccato montenegrino, fare previsioni sui risultati del referendum sembra davvero scontato. E i dati provvisori pubblicati dalla Commissione Elettorale Centrale sembrano confermare che ci sia poco spazio per ogni tipo d'azzardo. A Rozaje più del 90% della popolazione ha votato in massa per il si, per un Montenegro indipendente. Un plebiscito? Non esattamente.

A Rozaje l'82 % della popolazione si è dichiarato bosgnacco nel censimento del 2003, un 6.7% mussulmano (probabilmente bosgnacchi che ancora prediligono la dicitura di epoca jugoslava), 4.4% si dicono albanesi, mentre i serbi e montenegrini sono rispettivamente il 4 e il 2%. Ovvero, i bosgnacchi e verosimilmente gran parte degli albanesi sembrano aver votato in massa per l'indipendenza, nonostante alcuni partiti minori bosgnacchi avessero dichiarato il loro appoggio al blocco unionista. Ed è probabilmente anche sullo schieramento di queste minoranze che si è giocata la tornata referendaria del 21 maggio scorso. Con poco più di 2000 voti a determinare il superamento della fatidica soglia del 55%, è evidente che anche i voti delle minoranze etniche che ammontano a più del 15% della popolazione finiscono con l'avere un peso determinante. E, parafrasando lo slogan unionista che ha imperversato la campagna elettorale, è chiaro che non vi è stato un sufficiente numero di elettori per bloccare il fronte del sì e probabilmente all'appello sono mancati proprio i voti delle minoranze albanesi e bosgnacche ed in particolare i voti mussulmani del Sangiaccato.

Guardando alla situazione di queste minoranze nelle due parti del Sangiaccato, quella settentrionale serba e quella meridionale montenegrina, il militantismo indipendentista delle minoranze montenegrine che popolano il Sangiaccato non è poi così stupefacente. Questa fascia di territorio divideva Serbia e Montenegro fino al 1912 e rimase sotto diretto controllo ottomano fino a questa data, venendo spesso utilizzata come tassello geopolitico di scambio nelle varie conferenze internazionali di fine '800 e inizio '900 che hanno deciso le sorti della penisola balcanica. Ancor oggi l'eredità di quel periodo è ben visibile, per lo meno dal punto di vista della composizione etnica della regione, popolata in gran parte da bosgnacchi nella parte orientale e da serbi e, in minor misura, da montenegrini ad occidente.

Ma negli ultimi 10 anni, a tale divisione se n'è aggiunta un'altra, prettamente amministrativa, che ha probabilmente finito per avere un ruolo di tutto rispetto per l'esito finale del referendum. Infatti, se da un lato il Sangiaccato serbo è rimasto un'area fortemente depressa dal punto di vista economico e in cui la popolazione serba continua a godere di una sovrarappresentazione nelle istituzioni statali e regionali, la parte montenegrina del Sangiaccato pare condividere solo in parte tale destino. A parità di situazione economica di crisi, il livello d'integrazione della popolazione musulmana del nord del Montenegro è indubbiamente migliore, nonostante l'eredità di scontri armati e tentativi di pulizia etnica che risalgono agli inizi degli anni '90 e che accomunano le comunità di Pljevljia e Priboj, rispettivamente nel Sangiaccato montenegrino e serbo.

Più in generale, Podgorica sembra essere riuscita a scalfire il muro di diffidenza e sospetto reciproco che separava le comunità ortodosse e mussulmane fino a qualche anno fa. In quest'ottica, la recente approvazione di una legge montenegrina sui diritti delle minoranze etniche del paese, pur avendo un'indubbia natura propagandistica in chiave referendaria, non rappresenta un caso isolato ma piuttosto un elemento di una strategia più ampia d'integrazione delle varie comunità minoritarie montenegrine.

E benché i frutti di tale scelta politica siano ancora lontani dal realizzarsi, sono probabilmente stati sufficienti questi segnali per convincere i bosgnacchi di Montenegro a puntare sull'indipendenza piuttosto che sul sogno di un Sangiaccato unito, quale entità autonoma all'interno di un'Unione serbo-montenegrina propriamente federale, la cui credibilità ed efficacia restava tutta da dimostrare.

In ultima analisi, è lecito quindi credere che la fine dell'Unione sia da attribuirsi anche all'incapacità della leadership serba di formulare una vera politica di decentralizzazione e garanzia di diritti politici e culturali a una delle sue più consistenti minoranze. Aldilà della retorica di chi il 22 maggio scorso si affrettava a proclamare la fine del sogno della Grande Serbia, la necessità per Belgrado di porre in essere una politica di sviluppo regionale attenta all'inclusione delle varie comunità non serbe resta una delle priorità politiche per il paese, che, indipendentemente dalle sorti di Montenegro e Kosovo, è destinato a restare uno stato multietnico.