Paula Petričević, attivista dell’associazione “Anima” di Kotor e ombudswoman del quotidiano Vijesti di Podgorica, è una delle poche femministe in Montenegro a lottare da anni per i diritti delle donne e per l’uguaglianza sociale
(Originariamente pubblicato dal portale Kosovo 2.0 , il 16 ottobre 2018)
Quale connotazione ha oggi la parola femminismo per i cittadini montenegrini? È ancora considerata una parola scomoda, da cui prendere le distanze?
Al femminismo viene spesso affibbiata l’etichetta, alquanto banale, di spaventapasseri di turno. Sono profondamente convinta che le persone che prendono le distanze dal femminismo nella maggior parte dei casi non sappiano nemmeno per che cosa si batta il femminismo.
Questo ovviamente non significa che non esistano autentici antifemministi e antifemministe, che considerano il femminismo “un’ideologia di genere”, finalizzata a distruggere i rapporti, la famiglia e i valori tradizionali. Al contrario. Negli ultimi tempi, in Montenegro gli antifemministi stanno facendo sentire la loro voce in maniera sempre più articolata, aprendo tutta una serie di questioni riguardanti i diritti sessuali e riproduttivi, i diritti delle persone LGBT, e così via.
Direi che oggi la ricezione del femminismo è più positiva rispetto a dieci anni fa. Sono sempre di più le donne, soprattutto giovani, che non esitano a identificarsi come femministe. Tuttavia, la prontezza a identificarsi come femministe non vale molto se non si è disposti ad assumersi la responsabilità del cambiamento e a impegnarsi affinché esso avvenga, ed è un lavoro lungo, impegnativo e non di rado frustrante.
Per me il femminismo non ha mai rappresentato solo una rivendicazione della parità di genere, bensì una lotta contro tutte le forme di oppressione, un modo per diventare persone migliori che hanno il coraggio di immaginare un mondo più giusto e di impegnarsi per realizzarlo, sempre e ovunque – nel costruire le relazioni interpersonali, nel ripensare e cambiare certe prassi, nel difendere ed estendere i diritti umani, nel produrre e diffondere il sapere.
Il femminismo non può essere ridotto a un atteggiamento meramente dichiarativo, uno “stile di vita” o una questione di immagine. Il femminismo è una lotta, e le lotte non sono quasi mai facili né piacevoli, anche se a volte portano una gioia incredibile.
Quanto è forte oggi il patriarcato in Montenegro?
Pur non essendo più lodato e glorificato all’unisono, in Montenegro il patriarcato è ancora vivo e vegeto. Basti pensare che la percentuale di donne sul totale dei proprietari di beni immobili è pari a poco più del 25%, mentre la percentuale di donne titolari di un’impresa è pari al 9,6%.
Le donne sono discriminate ancora prima di nascere. Ne è prova lo squilibrio dei sessi alla nascita (110 maschi ogni 100 femmine), venutosi a creare come conseguenza del massiccio ricorso all’aborto selettivo. La questione è stata sollevata anche dal Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, e l’anno scorso il Centro per i diritti delle donne di Podgorica ha lanciato una campagna con l’hashtag #Neželjena [Indesiderata] per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica locale su questo problema.
Non vi è dubbio che il patriarcato continua a plasmare la vita delle donne in Montenegro. I cambiamenti positivi avvengono gradualmente, a dire il vero con una lentezza irritante, e di solito coinvolgono gruppi sociali privilegiati. Per questo motivo è di cruciale importanza tenere sempre presente l’intrecciarsi di diversi assi di discriminazione e applicare un approccio intersezionale al fine di comprendere il fenomeno dell’oppressione nella moltitudine dei suoi volti, un fenomeno che contribuisce ad aggravare le condizioni di deprivazione in cui vivono i gruppi più vulnerabili, emarginati su diversi piani, dove le violazioni dei diritti sono più frequenti e meno visibili.
Dei diritti umani delle donne si discute poco o nulla, mentre si parla con insistenza della necessità di preservare “i valori tradizionali della famiglia”, e sempre più spesso anche della necessità di limitare il diritto all’aborto e di “proteggere la vita del feto”. Chi è responsabile di garantire la tutela dei pochi diritti di cui godono le donne in Montenegro?
Non sono d’accordo che le donne in Montenegro abbiano pochi diritti. Alle donne sono riconosciuti dalla legge, ad esempio, pari diritti in eredità. Il fatto che le donne ricevano una quota misera di eredità significa che ancora non possono esercitare appieno i propri diritti, e i dati lo confermano.
Ovviamente, i diritti non sono mai garantiti una volta per tutte e sono spesso minacciati. Mi riferisco innanzitutto a una sempre maggiore restrizione dei diritti delle lavoratrici, alla femminilizzazione dei lavori mal pagati e della povertà, ma anche alle sporadiche iniziative per limitare i diritti riproduttivi delle donne, che non devono mai essere sottovalutate.
L’insistenza sui “valori tradizionali della famiglia” non è una novità e di solito va di pari passo con la clericalizzazione della società. In questo senso la situazione del Montenegro è diversa da quella di altri paesi dell’ex Jugoslavia, perché la confessione più diffusa nel paese, quella cristiana ortodossa, non ha una posizione unita sulla questione.
Penso che abbiamo avuto fortuna nella sfortuna, perché le innumerevoli e ridicole divisioni che affliggono il nostro paese in questo caso, ironicamente, ci hanno salvato, ostacolando l’introduzione dell’insegnamento della religione nelle scuole. Quello che invece rappresenta la novità è il fatto che la lotta contro “l’ideologia di genere” costituisce l’ossatura del programma di nuovi soggetti politici, giovani forze che si impongono sulla scena politica montenegrina presentandosi come un’alternativa emancipatrice alle élite politiche corrotte che hanno impoverito e indebitato il paese.
Ricorrendo a una retorica infiammatoria, propugnano i valori della “famiglia montenegrina comune” e forti misure pro-natali che, oltre a limitare il diritto all’aborto, dovrebbero fornire “un sostegno alle coppie per coprire le spese del processo di inseminazione artificiale”.
Si tratta di misure contraddittorie, che si escludono a vicenda, dal momento che interpretano in modo diverso il presupposto di base della politica pro-life, ovvero la sacralità della vita dal concepimento. Resta aperta la domanda in quale misura potrà essere protetto l’embrione durante il processo di fecondazione assistita. Queste e simili incongruenze logiche non preoccupano affatto i fervidi difensori dei valori tradizionali in Montenegro, purché portino facili punti politici.
È ipocrita ritenere che spetti agli attivisti “sempre all’erta” vigilare sulle fragili libertà conquistate, perché è responsabilità di tutti coloro che non condividono la visione patriarcale del mondo adoperarsi per evitare che le aspirazioni della destra clericale diventino un incubo per l’intera società.
Sembra che l’uso di un linguaggio attento al genere e le quote rosa – di cui si parla ma non vengono applicate – rappresentino i principali progressi compiuti sul fronte della parità di genere. Pensa che in un prossimo futuro assisteremo a una svolta concreta? Cosa deve accadere affinché la società montenegrina divenga più consapevole di questa problematica?
Non dobbiamo aspettare che “accada qualcosa” per cominciare ad agire. Potrebbe accadere anche una guerra.
Paradossalmente, le guerre hanno sempre rappresentato un punto di svolta per quanto riguarda i diritti delle donne. Chissà quanto tempo ancora avremmo dovuto aspettare per vederci riconosciuto il diritto di voto se non ci fosse stata la Lotta popolare di liberazione (NOB) durante la Seconda guerra mondiale.
Tuttavia, le guerre degli anni Novanta hanno portato a una ritradizionalizzazione e ripatriarcalizzazione della società. Non abbiamo imparato niente, non ci siamo assunti le nostre responsabilità, non ci siamo confrontati col passato. Il nostro meccanismo di difesa è l’oblio, un meccanismo primitivo e temporaneo, un deposito di traumi mai affrontati, che continueranno ad accumularsi finché una scintilla non farà saltare in aria tutto.
La libertà non va aspettata e non accade spontaneamente. La libertà si conquista, senza aspettare cataclismi. In questo senso, l’educazione gioca un ruolo fondamentale, anche se attualmente è attraversata dalla più grave crisi di sempre. La professione (educativa) è umiliata e svalutata, e le conseguenze di questo stato di cose si fanno già sentire. Eppure, l’unica via d’uscita è un’educazione continua, che non deve limitarsi all’educazione formale. Ma questo non significa che il sistema di educazione formale debba essere lasciato nelle mani dei burocrati che conducono esperimenti sociali sulle nuove generazioni. Ribadisco, ci vuole responsabilità, sia individuale che collettiva.
Dopo l’introduzione del suffragio femminile, in Montenegro non c’è stata nessuna svolta radicale, nessun grande passo avanti nella lotta per i diritti delle donne. Le donne sono ancora discriminate in tutti gli ambiti della vita, soprattutto nel mondo del lavoro e nell’accesso ai diritti sociali. Come commenta questa situazione?
Abbiamo avuto l’occasione di cambiare le cose, ma ci siamo dimostrati incapaci di farlo. Prendiamo l’esempio delle cosiddette proteste delle madri, iniziate sul finire del 2016 e tuttora in corso.
Con le modifiche alla Legge sulla tutela sociale e dell’infanzia del 2015, a tutte le madri di tre o più figli, con 15, ovvero 25 anni di servizio o di iscrizione al centro per l’impiego, è stato concesso un assegno a vita di importo mensile non inferiore a 70 euro, ovvero al 40% dello stipendio medio in Montenegro. Molte donne hanno rinunciato al loro lavoro, pur di poter beneficiare di questo sostegno, vedendone una possibile via d’uscita dalla grave situazione economica in cui versavano.
Questa legge era sbagliata per diverse ragioni, rinsaldando il ruolo della donna come genitore primario e “premiandola”, post festum, con una pensione nazionale. Le proteste delle organizzazioni non governative per la difesa dei diritti delle donne contro l’emendamento di questa legge non hanno sortito alcun effetto, se non quello di spingere le donne a distanziarsi ulteriormente dal movimento femminista. Nel 2017, poco dopo l’entrata in vigore della legge, l’importo del sostegno è stato ridotto del 25%, e nel corso dello stesso anno l’assegno è stato abolito, mentre il diritto delle donne a beneficiarne è stato dichiarato incostituzionale.
Le organizzazioni delle donne e pochi attivisti sinceri hanno appoggiato le richieste delle madri e la loro lotta per difendere i diritti conquistati. Nessun altro si è fatto sentire, oltre naturalmente a qualche politico a caccia dei consensi.
Questa saga ha contribuito a rinsaldare gli stereotipi più velenosi sulla “donna montenegrina”, che sarebbe potuta diventare un emblema dell’emancipazione dell’intera società.
Forse dovremmo accettare il fatto che non è ancora giunto il momento per una vera emancipazione. Ma io non riesco ad accettarlo.
È ormai un luogo comune giudicare le donne non sposate o senza figli, ma in Montenegro vengono giudicate anche le donne che non allattano, che sono troppo, o troppo poco, coinvolte nella vita dei propri figli, che nutrono qualsiasi ambizione non legata alla vita familiare, ecc. Alcuni di questi atteggiamenti derivano da un modo di pensare piccolo-borghese, ma si tratta solo di questo?
È proprio questo che intendevo prima. Invece di fungere da motore del cambiamento, la summenzionata legge e il modo in cui è stata abrogata hanno rinsaldato l’immagine della madre perfetta, generatrice della vita, un ruolo nel quale ogni donna dovrebbe trovare la sua piena realizzazione, e questa immagine viene accettata e glorificata dalla società. Questo non è un atteggiamento piccolo-borghese, è un’oppressione.
La maternità è una scelta, deve essere una libera scelta della donna. Io ho avuto una madre rivoluzionaria che si era allontanata a grandi passi dal modello di famiglia con cui era cresciuta. Con i suoi successi e insuccessi, mia madre mi ha insegnato a lottare, anche per cause per le quali lei non ha lottato, oppure ha lottato dalla parte opposta a quella che avrei scelto io. Sto ancora imparando da mia madre, anche se non c’è più.
Se le nostre madri non ci insegnano la passione per la vita e per la libertà, non ci hanno insegnato molto. Io ho ricevuto una ricca eredità che sto ancora scoprendo, cercando di rendere il mondo un posto migliore per tutte le madri e le figlie.
Quando sui media si discute della condizione della donna, di solito lo si fa con riferimento alla violenza domestica. Tuttavia, l’omicidio di donne da parte di partner ancora oggi molto spesso viene considerato un delitto passionale. Come cambiare l’atteggiamento della società nei confronti di questo problema?
L’attenzione che ultimamente viene prestata al tema della violenza sulle donne ha spianato la strada a tutta una serie di cambiamenti positivi sul fronte dei diritti delle donne. Ho l’impressione che si sia imparato qualcosa sulla responsabilità della cosiddetta violenza domestica e su quanto sia superfluo giustificarla.
La vita delle donne non può più essere svalutata. Non possiamo più nutrire con i propri corpi il mostro del patriarcato, che usa la gelosia o il rifiuto di certe regole sociali e di ruoli tradizionali di genere come alibi per lo sfruttamento e la violenza sulle donne. Il femminicidio è il vero nome della violenza che si arroga il diritto di decidere della vita delle donne che si rifiutano di obbedire e accondiscendere alla volontà altrui.
I media sono lo strumento più potente per plasmare l’opinione pubblica, e in questo senso hanno una grande responsabilità nel trattare il tema delle violenza di genere. Eppure,tendono a giustificare e romaniticizzare i crimini contro le donne.
I media devono smettere di trovare giustificazioni e usare eufemismi quando parlano di violenza sulle donne, una violenza troppo a lungo tollerata e normalizzata.