Il parlamento dell'Artsakh a Stepanakert - © Karsten Jung/Shutterstock

Il parlamento dell'Artsakh a Stepanakert - © Karsten Jung/Shutterstock

Dopo la guerra lampo di settembre, che ha decretato la fine del Nagorno Karabakh armeno e secessionista, l'amministrazione di uno stato che oggi non esiste si è spostata in massa in Armenia. Il futuro di questa struttura politica resta oggi senza prospettive certe

06/12/2023 -  Marilisa Lorusso

Un'istantanea del Nagorno Karabakh al momento dell’attacco del 19 settembre 2023: eroso territorialmente, con ancora poco più di 100mila residenti, sotto blocco da circa dieci mesi, con le truppe azere che andavano ammassandosi lungo i confini. Il 2 settembre si era celebrato l’anniversario dell’indipendenza da Baku, e in quella occasione il primo ministro armeno Nikol Pashinyan aveva mandato le sue congratulazioni, cosa che ora Baku ricorda sistematicamente a dimostrazione della mancata buona fede negoziale di Yerevan. Fra le cause dichiarate da Baku per giustificare l'intervento contro i secessionisti del Nagorno Karabakh vengono enumerate le numerose controversie politiche e territoriali, e il sostegno di Yerevan a Stepanakert affinché rimanessero irrisolte.

Il 9 settembre 22 deputati karabakhi avevano votato a favore di un nuovo presidente, Samvel Shahramanyan, con elezioni anticipate. Nel suo discorso inaugurale, Shahramanyan si era ripromesso di rinforzare la statualità del Karabakh, realizzare il diritto all’autodeterminazione, e cercare di far garantire un certo status alla regione secessionista, e che riteneva un imperativo preservare l’Artsakh armeno e passarlo alle future generazioni . A Yerevan Pashinyan veniva criticato per non aver mandato le congratulazioni al nuovo presidente karabakho. In un'intervista a una settimana dall’attacco, Pashinyan aveva commentato : “Penso che la situazione sia tale per cui non c'è molto da congratularsi. Su Shahramanyan grava una grande responsabilità".

Il 20 settembre toccherà proprio a Shahramanyan accettare la resa, e di fatto decretare la scomparsa del Nagorno Karabakh come entità politico territoriale. I protagonisti politici di questi trenta anni di vita secessionista del paese avranno poi sorti differenti: qualcuno verrà intercettato ed arrestato durante la fuga dal Karabakh, altri, come Shahramanyan raggiungeranno Yerevan e si insedieranno con quanto rimasto dell’amministrazione pubblica karabakha nella capitale armena. È Yerevan a farsi carico dei bisogni di questi esuli, nella misura in cui riesce, incluso il pagamento delle pensioni.

Un governo non riconosciuto internazionalmente, e senza più un territorio, con i più di 100mila karabakhi in via di integrazione nel tessuto sociale, economico e previdenziale armeno: questa la nuova istantanea del Karabakh come entità politica post-settembre 2023.

Che fare?

Cosa fare quindi di questa struttura statuale, ora che oltre alla mancata legittimità internazionale si svuota sempre più anche di una legittimità amministrativa, funzionale, e certo territoriale? La questione del Karabakh politico, sopravvissuto a quello territoriale, rischia di diventare un grosso grattacapo per Yerevan, che lo ospita, senza incontrarlo né riconoscerlo, con la spada di Damocle dell’accusa di Baku di legittimare posizioni irredentiste.

A metà ottobre, una volta che praticamente l’intera popolazione karabakha si trovava già in Armenia, i rappresentanti eletti del Karabakh hanno cominciato a interrogarsi ed avanzare proposte sul futuro e sul loro ruolo. Il 28 settembre Shahramanyan ha firmato un decreto che prevede lo scioglimento di tutti gli organi di governo e le istituzioni del Nagorno Karabakh , ma secondo alcuni deputati il provvedimento è anticostituzionale, poiché nessuno può sciogliere il parlamento, solo il parlamento può sciogliere se stesso, cosa che non è accaduta. Quindi sarebbe dovuta essere convocata un'assemblea straordinaria per stabilire come dare continuità alla Repubblica dell’Artsakh

È stata avanzata la proposta di dar vita a un governo provvisorio in esilio. La proposta è stata subito identificata da Yerevan e da alcuni deputati come altamente destabilizzante. Da parte karabakha è stato fatto notare che tale misura rischia di far saltare ogni accordo con Baku, mentre sarebbe necessario dare nuovo slancio ai negoziati, cercare di recuperare al tavolo diplomatico dei punti che si sono persi nel campo di battaglia.

Anche Yerevan ha alzato gli scudi contro l’ipotesi della nascita di un governo provvisorio. Il presidente dell’Assemblea Nazionale armena si è così espresso : “Abbiamo un grosso problema con gli armeni dell'Artsakh. Non vedo quale potrebbe essere l'obiettivo […] nel preservare e sviluppare istituzioni statali qui: questo rappresenterebbe una minaccia diretta e un colpo alla sicurezza nazionale della Repubblica di Armenia.”

L’agonia

È una agonia turbolenta e sofferta quella dell’autoproclamata Repubblica del Nagorno Karabakh. Di fronte alle accuse di brogli e illeciti,  il 19 ottobre Shahramanyan ha sciolto anticipatamente tutta la pubblica amministrazione. Il giorno seguente decine di manifestanti si sono presentati davanti all’ex sede della rappresentanza del Nagorno Karabakh in Armenia, divenuta sede del governo in esilio in attesa di scioglimento. Ci sono stati scontri, e Shahramanyan ha incontrato i manifestanti che ha così apostrofato : “Sono responsabile di tutti i miei passi e decisioni di fronte a tutti voi. Ma abbiamo un'altra patria, l’Armenia, il cui destino non abbiamo il diritto di mettere in pericolo. Ciò che sta accadendo qui rende la nostra situazione ancora peggiore. Ho molte cose da dirvi, ma ciò che devo dire è carico di una grande minaccia per il futuro destino sia dell'Armenia che dell'Artsakh.”

Ci sono stati degli arresti, e Shahramanyan si è impegnato a fare chiarezza. Ha quindi rilasciato una complessa intervista , nella quale ha raccontato i retroscena dell’agonia del Karabakh: i negoziati con l’Azerbaijan il giorno dell’attacco sono durati dodici ore, con uno scambio di documenti che sono stati discussi in un gabinetto di sicurezza allargato, inclusi gli ex presidenti karabakhi, che peraltro ora si trovano nelle carceri di Baku. 

Shahramanyan ha chiarito che il riferimento nel documento di resa alla presenza di forze armate dell’Armenia in Karabakh è stato inserito da Baku e non approvato da Stepanakert. La scelta di consegnare le armi, invece di cederle all’Armenia, era senza alternative, perché la creazione del checkpoint a Lachin avrebbe reso il trasferimento impossibile. L’accordo prevede che le armi consegnate ai russi vengano poi distrutte, mentre al personale militare secessionista è stato consentito di evacuare il Karabakh.

Questo spiegherebbe l’approccio selettivo esercitato da Baku negli arresti a conflitto finito. Shahramanyan ha chiarito di aver abbandonato il Karabakh in elicottero con il ministro della Difesa e altro personale delle forze di sicurezza.

La priorità per questa amministrazione in esilio sarebbe comunque tenere aperto uno spiraglio negoziale per garantire i rientri, forte del fatto che anche la comunità internazionale non pare rassegnata a questa sinistra “alternanza etnica” nel territorio del Karabakh. Per trent'anni ci sono stati gli armeni ma non gli azeri, ora vice versa. I rientri e la coabitazione pacifica sarebbero la vera parola fine a una catena ad oggi infinita di sanguinosi contenziosi.