A fine settembre il Consiglio di Europa ha votato una risoluzione che ha fatto il punto sulla situazione umanitaria nel Nagorno Karabakh. Una panoramica
Il 27 settembre scorso in Armenia, Azerbaijan e Nagorno Karabakh si è commemorato il primo anniversario della guerra dei 44 giorni che ha riportato buona parte dei territori conquistati dagli armeni nella prima guerra del Karabakh sotto il controllo azero.
Lo stesso giorno dall’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa è stata adottata la Risoluzione 2391 , “Conseguenze Umanitarie del conflitto fra l’Armenia e l’Azerbaijan / Conflitto del Nagorno Karabakh”. La Risoluzione è stata approvata con 80 voti a favore, 18 contrari, e 3 astensioni. Hanno votato a favore i parlamentari armeni, contro invece quelli dell’Azerbaijan.
Nel giorno in cui quindi si è ricordato l’inizio della guerra, al Consiglio d’Europa si è riflettuto su quanto è accaduto, e quanto a distanza di un anno la situazione rimanga difficile. Il punto di partenza di questa riflessione è stato un report preparato per mesi, che ha implicato anche visite dirette nella regione da parte di Paul Gavan, responsabile della sua redazione, membro irlandese dell’Assemblea Parlamentare. Il report è un unicum, perché a distanza di un anno l’area del conflitto rimane sigillata a presenze esterne. Lo stesso Gavan non si è potuto recare nel Karabakh rimasto armeno, e se ne rammarica nel report.
Il secondo conflitto del Nagorno Karabakh dalla sua sospensione non è stato internazionalizzato. L’unica presenza a parte quella Croce Rossa Internazionale che lavora con la consueta discrezione è quella russa. Il concordato intervento dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati e dell’UNESCO non si è, ad oggi, materializzato.
La situazione umanitaria
Il Report fornisce il quadro aggiornato all’estate 2021 delle conseguenze umanitarie del conflitto, ma riprende anche i lasciti del conflitto precedente. Dalla prima guerra del Karabakh rimangono ignote le sorti di 3890 azeri e un migliaio di armeni, dalla seconda di 243 armeni e 7 azeri. I resti che vengono man mano ritrovati sono scambiati dalle parti. Più problematico lo scambio dei prigionieri di guerra. Fra gli armeni attualmente detenuti in Azerbaijan alcuni sono stati processati, e condannati per episodi risalenti all’ultimo conflitto e a quello precedente.
Sono stati scambiati entro l’estate 103 armeni e 21 azeri. In luglio due gruppi di quindici armeni sono stati scambiati in cambio di mappe di campi minati, anche grazie alla mediazione georgiana . Rimane prioritaria per l’Azerbaijan la questione dello sminamento di quella che è stata una delle aree più minate del mondo. Le mine e gli ordigni inesplosi hanno ucciso più di 150 armeni e di 350 azeri fra le due guerre, e l’Azerbaijan continua a fare i conti con incidenti ricorrenti mentre procede nella riqualificazione e la ricostruzione delle zone riconquistate. Sono già quasi 150 i feriti e almeno 27 i morti a causa delle mine in questo ultimo dopoguerra.
Il patrimonio artistico
Proprio la ricostruzione ha aperto una nuova ferita. L’ingresso azero nelle aree contese fra le due guerre è avvenuto in un mare di macerie. Una tabula rasa di insediamenti, i cui proprietari sono stati sfollati e ora vorrebbero (almeno il 65% ha così dichiarato) rientrare. Paul Gavan ha visitato Ağdam, così come molti rappresentanti della comunità internazionale, e ne ha constatato l’avanzato stato di degrado. Di fatto la scomparsa della città.
Pietro Kuciukian nel suo “Giardino di Tenebra – Viaggio in Nagorno Karabakh ” definiva Ağdam una città fantasma “la vergogna segreta” dell’Armenia e Fizüli “la città che non c’è più”. Nei 30 anni fra le due guerre le aree contese sono state saccheggiate e gli insediamenti e il patrimonio artistico danneggiati, a volte in modo irreversibile. Secondo il ministero della Cultura dell’Azerbaijan – che sta ancora facendo una stima dei danni – sarebbero 706 i monumenti di carattere storico e culturale distrutti, fra cui 6 artefatti di architettura di interesse mondiale, cinque beni archeologici pure di interesse mondiale, 119 di importanza nazionale e altri 121 reperti archeologici di valore nazionale. Inoltre l’Azerbaijan accusa di essere stato depredato di beni risalenti al XIII secolo, che si trovavano nel monastero Khudavang/Dadivank e altrove e che sono stati traslati in Armenia.
Dall’altra parte del confine, l’Armenia accusa l’Azerbaijan di avere operato un analogo ma contrario processo di annichilimento della memoria della presenza – questa volta armena – in Nakhchivan. Secondo gli armeni sono 89 le chiese medievali armene distrutte, 5.840 khachkars, le tipiche croci di pietra incise armene, e 22.000 lapidi funebri.
Ovunque non sono stati risparmiati i cimiteri, né nei loro monumenti, né i sepolti.
A questa distruzione che si è perpetrata negli anni fra le due guerre si aggiungono ora i danni dovuti agli aspri combattimenti del 2020. In particolare a Shusha è stata colpita la Cattedrale del Santo Salvatore Ghazanchetsots, episodio che ha avuto una certa risonanza per la scelta che è parsa deliberata di colpire un obiettivo civile e luogo di culto.
La tutela del patrimonio artistico e religioso desta preoccupazione anche in questo secondo dopoguerra. Sono molti i beni archeologici e culturali che sono passati di mano, trovandosi nelle aree ritornate sotto il controllo azero. Secondo quanto riportato del rapporto del CoE redatto da Paul Gavan sarebbero 161 le chiese e i monasteri che ora sono sotto il controllo di Baku, 591 khachkars, 345 pietre tombali di interesse storico o artistico o archeologico, 108 cimiteri e insegne religiose, 43 fortezze e palazzi, e un paio di centinaia di altri monumenti.
L’Albania caucasica cristiana
Desta preoccupazione in Armenia anche l’applicazione di un possibile revisionismo storico di cui viene accusata Baku, una nuova lettura di beni artistici, archeologici, storici, religiosi non come manufatti e tracce della presenza armena della regione, ma come prodotti della cultura dell’antica Albania caucasica.
In epoca preistorica nei territori dell’odierno Azerbaijan emerse un regno, posteriormente chiamato Albania caucasica, che risentiva dell’influenza della dinastia iraniana dei Sassanidi. Gli scavi archeologici, gli ornamenti ritrovati, la letteratura e il folklore confermano la forte influenza della cultura iranica in tutto il Caucaso meridionale. Come l’Armenia, con l’avvento del cristianesimo anche l’Albania caucasica si cristianizzò. Oggi il presidente Ilham Aliev chiama albane alcune delle sedi di culto negli ex territori contesti, che periodicamente visita. Parlando ad Hadrut di quella che è per gli armeni la Chiesa della Madre di Dio, parte del Monastero di Tsaghkavank, ha dichiarato : “Questo è un nostro antico monumento storico, il tempio dei nostri fratelli Udi.[…] Proprio come hanno violato le nostre moschee gli armeni hanno violato anche questo antico tempio dell’Albania caucasica. Ma lo ripristineremo. Tutti gli articoli che hanno scritto a riguardo sono falsi, sono stati scritti solo di recente. Hanno creato una falsa storia per se stessi nelle nostre antiche terre.”
Una storia antica di convivenza, integrazione, assimilazione che rischia di divenire una narrazione negazionista della presenza dell’altro. Questo rifiuto di riconoscimento reciproco così ostile e radicato ha determinato non solo la barbarie di cui sopra, ma si proietta ora fino alla preistoria. Gavan ricorda nel report la risoluzione ONU 2347/2017 la quale sottolinea come: “La distruzione illegale del patrimonio culturale, il saccheggio e il contrabbando di beni culturali durante un conflitto, anche perpetrato da gruppi terroristi, e i tentativi di negare le radici culturale e la diversità culturale possono alimentare ed esacerbare conflitti e impedire una riconciliazione post-bellica”.