La lotta per il riconoscimento internazionale e le prospettive per una soluzione del conflitto in Nagorno-Karabakh. Intervista a Bako Sahakyan

07/12/2015 -  Simone Zoppellaro Stepanakert

Bako Sahakyan è il presidente della repubblica del Nagorno Karabakh, uno Stato de facto non riconosciuto da alcun paese membro delle Nazioni Unite. Il Nagorno Karabakh è una regione contesa tra Armenia e Azerbaijan. Al termine di un lungo conflitto seguito alla dissoluzione dell'Unione Sovietica, nel 1994 è stato proclamato un cessate il fuoco e sono stati avviati negoziati diretti dal cosiddetto Gruppo di Minsk

Incontriamo Bako Sahakyan, presidente della Repubblica de facto del Nagorno-Karabakh, nel suo ufficio nel centro di Stepanakert. Durante l’intervista, il presidente fuma una Marlboro dopo l’altra, mentre a voce bassa scandisce lentamente le parole. Sulla sua scrivania, alcuni volumi sull’arte e la cultura armena.

Signor presidente, nel 2015 hanno avuto luogo le elezioni parlamentari in Nagorno-Karabakh. Monitorate da più di 120 osservatori internazionali, sono state ritenute trasparenti e in linea con gli standard internazionali. Un segno importante, se si considera come questo stato non sia riconosciuto da alcun paese al mondo. È così?

La democrazia svolge un ruolo importante nelle nostre vite. Abbiamo predisposto molti tipi di elezioni: locali, parlamentari e presidenziali. Per tutte queste elezioni, gli osservatori elettorali internazionali hanno dato una valutazione positiva, definendole trasparenti, democratiche, libere e giuste. Ciò rappresenta per noi un traguardo importante. Vorrei aggiungere però che se abbiamo creato istituzioni democratiche ed elezioni trasparenti, non è per dimostrare al mondo che siamo democratici. Tutto questo è parte della nostra filosofia e delle nostre vite. Su questo punto, il popolo del Nagorno-Karabakh e le autorità condividono una visione comune: non spetta solo a noi il merito dello sviluppo democratico.

Nonostante questi risultati, il Nagorno-Karabakh non è riuscito ad ottenere per più di due decenni alcun riconoscimento internazionale. Qual è il suo punto di vista rispetto alla posizione dell’Europa e degli Stati Uniti a questo riguardo? Vi aspettate che un riconoscimento ufficiale possa in futuro avere luogo?

Per come vediamo le cose, non riteniamo giusto criticare nessuno, né la comunità internazionale né l’Occidente. Riteniamo che il conflitto con l’Azerbaijan sia una delle questioni più complicate da trattare. Il riconoscimento del Nagorno-Karabakh passa inevitabilmente per una risoluzione del conflitto, e si tratta probabilmente – fra i tanti in corso – del più difficile da dirimere nel mondo di oggi. E tuttavia, riponiamo le nostre speranze nel fatto che una soluzione si trovi. Abbiamo una grande fiducia nel ruolo di mediazione svolto dal Gruppo di Minsk, e auspichiamo che si possa trovare presto una soluzione pacifica per il conflitto. Speriamo che un giorno la Repubblica del Nagorno-Karabakh verrà riconosciuta dalla comunità internazionale, grazie anche al fatto che viviamo in una società democratica. Dobbiamo aggiungere però che il maggior ostacolo a una soluzione del conflitto è rappresentato oggi dalla posizione dell’Azerbaijan. Non è per colpa dell’Occidente o di altri paesi se questa non si è ancora trovata, ma solo a causa di Baku.

Oltre all’Occidente e alla Russia, un altro attore fondamentale nel Caucaso del Sud è l’Iran. A suo avviso l’accordo sul nucleare e il conseguente rilancio diplomatico di Teheran possono rappresentare un’occasione per trovare una soluzione al conflitto del Nagorno-Karabakh?

La diplomazia del caviale e la rete di corruzione portate avanti da Baku hanno prodotto risultati significativi all’estero. Confidiamo però che la comunità internazionale, scavando più a fondo, possa comprendere che cosa rappresenta l’Azerbaijan. Prima o poi la realtà sulla corruzione portata avanti da Baku dovrà venire a galla e quel giorno, crediamo, la comunità internazionale rivedrà le sue relazioni con l’Azerbaijan.

Per quanto riguarda l’Iran, ci rallegriamo dei cambiamenti in corso, sebbene non ci sia una relazione diretta fra il riavvicinamento con gli USA e una possibile soluzione al conflitto del Nagorno-Karabakh. E tuttavia, è nel nostro interesse che ci sia pace nella regione, dati i tanti conflitti che pesano su di noi e sui nostri vicini. Speriamo quindi che si prosegua nel riavvicinamento fra USA e Iran e si giunga alla definitiva rimozione delle sanzioni. Ciò potrebbe rappresentare un’opportunità per tutti.

Dall’Abkhazia all’Ossezia del Sud, dalla Transnistria alla Crimea, vi è oggi un buon numero di territori contesi in Europa la cui situazione potrebbe ricordare quella del Nagorno-Karabakh. Vede una somiglianza tra questi casi e il vostro? Crede che sia possibile sviluppare una strategia comune per trovare una soluzione riguardo allo status di questi territori?

Questa è una domanda che ci fanno spesso. La nostra posizione è la seguente: se i casi da lei ricordati potranno in futuro rappresentare un precedente da far valere anche per il Nagorno-Karabakh, ben venga. E tuttavia, non li mettiamo in relazione diretta con il nostro caso, perché pensiamo che ogni conflitto abbia la propria storia, e che sia fondamentale tenerla presente. Riteniamo che nella politica internazionale ci siano doppi standard – purtroppo è così – ma noi tiriamo dritti per la nostra strada, che è quella della democrazia, senza guardare a quello che fanno gli altri.

Il fondamentalismo islamico è in crescita anche nel Caucaso, dove lo Stato Islamico ha iniziato di recente ad avere una presenza piccola ma significativa. Pensa che ciò possa costituire una minaccia per il Nagorno-Karabakh e l’Armenia, una piccola nazione cristiana quasi completamente circondata da paesi musulmani? Ritiene che la religione possa avere un ruolo importante nel futuro del conflitto del Nagorno-Karabakh?

Il conflitto che ci riguarda non ha alcun retroterra religioso. È stato così in passato e crediamo che ciò possa valere anche per il futuro. Ci sono moltissimi armeni che vivono in pace in paesi musulmani, come ad esempio in Iran, in Libano, e fino a tempo recenti in Siria. Non si sono mai verificate persecuzioni su base religiosa contro i cristiani, e noi condividiamo lo stesso spirito di tolleranza nei confronti dei musulmani. La vera religione – e ciò vale tanto per il cristianesimo quanto per l’islam – non predica la guerra, ma la pace.