Il 2010 ha segnato nuovi passi d'arresto per la Macedonia. Il paese, che nel 2001 era nelle posizioni di testa nel processo di allargamento europeo, è rimasto al palo a causa del conflitto identitario con la vicina Grecia. Per Skopje, Ue e Nato sono obiettivi sempre più lontani
La Macedonia ha visto finire un altro anno senza progressi in termini di integrazione euro-atlantica. Nel 2010 il paese non ha mosso un passo verso i suoi principali obiettivi di politica estera, l'entrata nella NATO e nell'Unione europea. È un risultato triste e in gran parte fuori dal controllo del governo di Skopje.
Tutto il resto della regione ha fatto passi avanti, tranne la Macedonia. Il Montenegro ad esempio ha ottenuto lo status di paese candidato e spera di cominciare presto i colloqui. Con ogni probabilità prima della stessa Skopje, nonostante quest'ultima abbia ottenuto lo status di candidato nel lontano 2005, quando il Montenegro non era nemmeno uno stato indipendente. La Serbia ha già ricevuto il suo questionario Ue. La Croazia sta completando i negoziati e spera di diventare membro entro l'inizio del 2012. Albania e Bosnia-Erzegovina hanno ottenuto la sospirata liberalizzazione dei visti, un incoraggiamento secondo solo all'entrata nell'Unione. Skopje, causa il noto veto greco sulla questione del nome, non ha ottenuto niente. L'isolamento continua.
Alcuni ricorderanno che la Macedonia fu il primo paese della regione a firmare l'Accordo di stabilizzazione e associazione (SAA) con l'Ue, il primo passo del processo di integrazione dopo la presentazione della domanda, nell'aprile del 2001, diversi mesi prima della Croazia che firmò solo ad ottobre dello stesso anno. Il Montenegro firmò ad ottobre 2007 e la Serbia firmò solo ad aprile 2008. Nel 2001, quindi, la Macedonia era vista come paese leader nei Balcani. Ironico a dirsi, ora.
Porta in faccia dalla NATO
In merito all'altro processo di integrazione che sta a cuore al paese, la NATO, la situazione è tristemente la stessa. Sono passati quasi due anni da quando l'Alleanza ha chiuso la porta in faccia a Skopje al summit di Bucarest, agli inizi del 2008. Atene l'ebbe vinta nonostante le forti pressioni dell'amministrazione USA e dello stesso presidente Bush. Nonostante pochi lo ricordino, quello fu anche un punto di svolta nella politica dell'attuale governo macedone. Il primo ministro Nikola Gruevski, che fino a quel momento era stato al gioco dell'Unione, decise di voltare pagina.
Al di là dell'ormai trito motto di Bruxelles “tutto è nelle mani dei candidati”, la verità è che la Macedonia sconta colpe non sue. La disputa con la Grecia è una complessa diatriba simbolico-nazionalista nella quale, in tutta onestà, anche Skopje nasconde scheletri nell'armadio. L'Alessandro Magno gigante in costruzione nella piazza centrale di Skopje ne è un esempio.
Tuttavia, chiedere a un popolo di cambiare nome, lingua e identità sembra un po' troppo. Nel 2001, il paese era sull'orlo di un conflitto etnico sulla base di simili questioni identitarie, fra cui lo status del macedone come unica lingua ufficiale nel paese, e non riuscì a fare concessioni a riguardo, preferendo la guerra (i diplomatici alle prese con questo tema farebbero bene a studiare gli eventi e i tesi negoziati dell'estate 2001, sarebbe parecchio istruttivo).
Per analogia, è improbabile che accetterebbero la stessa condizione per entrare in un club, per quanto invitante. Diplomatici ben intenzionati argomentano spesso che l'identità è una questione sacra e privata, e nessun accordo formale farebbe mai sentire i macedoni meno macedoni. Per quanto razionale questo possa sembrare, non è vero.
Lessico e diplomazia
L'ultimo progress report della Commissione Europea, diffuso ai primi di novembre, è stato benevolo al punto da dimenticare l'obiettività, concludendo che il paese continua a fare progressi (sebbene irregolari) e quindi "continua a soddisfare le condizioni" per l'apertura dei negoziati. Molti analisti indipendenti dissentirebbero da questa valutazione nell'anno in cui la Macedonia ha sofferto gravi scivoloni dal punto di vista democratico.
Tuttavia, nel presentare il report, l'ambasciatore europeo nel paese Erwan Fouere ha dovuto spiegare ai parlamentari macedoni il riferimento al macedone, definito nel documento con la definizione neutra di “lingua ufficiale dell'ex repubblica jugoslava". Colto impreparato, Fouere ha fatto riferimento ad una consuetudine dei report della Commissione, il che non è vero. Fino a diversi anni fa, i report parlavano davvero di “macedone”. Nel frattempo, la retorica è però implicitamente cambiata.
Si tratta quindi di una gaffe sia per l'ambasciatore Fouere che per la diplomazia di Bruxelles. Si parla della questione più importante nel rapporto fra Macedonia e UE, e l'ambasciatore non è consapevole dei dettagli. Ma il punto è un altro: se la disputa non è identitaria, perché (e come) i funzionari greci della Commissione hanno voluto cambiare la formulazione dei documenti UE?
Con questo incidente, l'opinione pubblica macedone si è resa conto che il fronte greco era riuscito ad ottenere lo stesso risultato alle Nazioni Unite. La lista degli attributi dei paesi membri sul sito ONU riportava “macedone” come lingua e nazionalità di chi vive nel paese denominato “ex repubblica jugoslava di Macedonia”.
Mentre nessuno faceva attenzione, il nome è sparito senza alcuna risoluzione ufficiale e la sezione è rimasta vuota. Sembra che Atene abbia congiurato anche con gli informatici ONU. Dopo una furiosa reazione di Skopje, l'ONU è intervenuta a ristabilire il termine. Questo a dimostrazione che l'identità è un sentimento sacro immune alla buona, vecchia realpolitik.
La natura crudele dell'allargamento
Inoltre, ci sono altri due temi di dibattito. Uno è relativo alla celebre retorica secondo cui la speranza d'integrazione europea è l'unica cosa che tiene insieme la Macedonia. Secondo questa tesi, senza la coesione prodotta dal processo d'integrazione, il paese cadrebbe a pezzi. Il ragionamento è piuttosto pigro. Paragonata alla Grecia attuale, la Macedonia è una stabile comunità politica. Tuttavia, se invertito, il ragionamento ha un suo valore analitico: è la costante pressione nevrotica e irrazionale ad accettare condizioni incomprensibili che genera una costante crisi politica. In altre parole, è la natura crudele dell'allargamento a produrre crisi politiche interne nei paesi candidati (ricordate la Croazia?).
E perché dei paesi dovrebbero danzare sull'orlo del baratro politico nel tentativo di soddisfare condizioni impensabili? A questo proposito, Bruxelles si porta dietro un altro peccato, avendo mancato di riconoscere il genuino modello di multiculturalismo che il paese ha costruito a partire dal 2001. L'Unione avrebbe dovuto sostenere e far tesoro di questa rara conquista, invece di testarne la fragilità fino al punto di rottura.
Infine, di per sé rimanere fuori da un club non è la fine del mondo. Anche i club con il tempo cambiano, e cambiano anche idea. Nel 1992, questo specifico club disse nella Dichiarazione di Lisbona che non avrebbe potuto riconoscere un paese il cui nome contenesse il termine “Macedonia”, ma alla fine cambiò idea. Sarebbe stato piuttosto irrazionale fare il contrario. Tuttavia, è vero che il processo d'integrazione può dare grande sostegno alle riforme, soprattutto, mantenendo i leader impegnati in processi basati sulla trasparenza. È la mancanza di trasparenza a suscitare il risentimento di cui il nazionalismo non è che una delle forme più primitive.