Scontri armati tra polizia e miliziani albanesi al confine con il Kosovo riaccendono la tensione in Macedonia. Una replica fin troppo esatta degli episodi scatenanti della guerra del 2001. Chi ha interesse a tenere Skopje col fiato sospeso?
Tutto è cominciato lo scorso 28 aprile. Le forze speciali della polizia macedone in pattuglia sui monti di Skopska Crna Gora, a nord della capitale Skopje, intercettano alcuni uomini armati. Lo scambio di tiri d’arma da fuoco mette in fuga il gruppo, ma uno dei componenti resta ferito nella sparatoria, riferiscono poche ore dopo i media, mentre non ci sono conseguenze per i poliziotti.
A partire da questo scontro a fuoco, la polizia indaga e individua nell’area diversi bunker ben protetti, stipati di armi. Secondo resoconti degli investigatori, il gruppo armato era nell’area a guardia dei bunkers almeno da alcuni mesi. Lo testimonierebbero le tracce trovate sulla scena del crimine. Nelle casematte nascoste sulla montagna non mancavano uniformi del KLA (Kosovo Liberation Army, l’esercito di liberazione del Kosovo). La notizia non sembra eclatante per i macedoni. Di tanto in tanto non è insolito che vengano ritrovate armi.
Ma poi arriva la sorpresa. Diversi giorni dopo, ai media viene recapitato un documento intitolato “Kominike No. 1” (Comunicato n.1) firmato dall’NLA, l’Esercito di liberazione nazionale. Il kominike, spedito via email alla tv satellitare albanese Alsat-M, informa così l’opinione pubblica del vicino Paese delle aquile sul recente incidente armato, riferendo tra l’altro la notizia falsa dell’uccisione di un poliziotto nell’episodio, e rivendicando l’azione. “L’NLA continuerà ad agire – prosegue il kominike - in tutta la Fyrom (Macedonia, ndr) là dove vivono albanesi”.
Il Comunicato numero 1 evoca memorie precise. E in Macedonia mette i brividi. Perché è esattamente così che nel 2001 si accese nel Paese la guerra etnica. Il vecchio NLA, la formazione armata che scatenò il conflitto, anche allora annunciò la sua esistenza attraverso i kominikes che mandava ai media. E la Macedonia per un soffio evitò il conflitto su larga scala.
A poche ore dal comunicato, il Dui (Unione democratica per l’integrazione) di Ali Ahmeti, ha reagito con un appello ai cittadini a non cedere alle provocazioni. L’ex leader della guerriglia – riconvertitosi in politica, ed oggi membro del governo di coalizione - era proprio l’Ahmeti autore dei comunicati del 2001. La presa di posizione del Dui fa sapere dunque che Ahmeti era e resta l’unico leader legittimo dell’NLA. Lui stesso ha condannato l’azione armata come una minaccia all’integrazione euro-atlantica della Macedonia.
L’ambasciatore Usa a Skopje, Philip Reeker, si è unito alla condanna della violenza politicamente motivata, esprimendo soddisfazione per la secca replica di Ahmeti.
Il passato che non passa
Naturale che l’episodio riaccenda la memoria. Più inatteso è tuttavia che scateni così scarso entusiasmo. “Un comunicato dell’NLA?... Passiamo allo sport” è stata più o meno questa la reazione iniziale dei media. Nessuno vi ha dato eccessivo risalto. Notizie vecchie, cose già viste. E tuttavia non ancora archiviate.
Tanto è vero che c’è stato un secondo episodio, due settimane dopo. Nella tarda notte del 12 maggio, una pattuglia di polizia ha fermato un furgone nei pressi del passaggio illegale di confine col Kosovo, a pochi chilometri dal villaggio di Radusa. Secondo i notiziari, il mezzo non si è fermato all’alt degli agenti, ha proseguito la sua corsa e quelli a bordo hanno aperto il fuoco contro la polizia.
Nella sparatoria i quattro passeggeri del pulmino, tutti di etnia albanese, sono stati uccisi. Sul loro mezzo la polizia ha rinvenuto un arsenale: armi automatiche, fucili di precisione, granate, mine antiuomo e altro equipaggiamento militare. Tre degli uccisi, le cui identità sono state confermate dall’autopsia, erano ben noti alle autorità.
Harun Aliu detto "Kushtrim", ex comandante NLA, politico fallito, con un passato di condanne penali in contumacia, era ritenuto figura chiave del ‘nuovo NLA’.
Harun Aliu pochi anni fa era stato condannato all’ergastolo in contumacia quale autore di un attacco ad una pattuglia di agenti nella capitale Skopje nel 2008, in cui un poliziotto era rimasto ucciso. Era inoltre sospettato per l’attacco ad un altro gruppo di agenti, anche in questo caso con una vittima tra i militari.
Xhafer Salja detto "Xhafa", cittadino kosovaro, era infine ricercato anche lui per l’attacco ad un poliziotto, ed era noto alla giustizia macedone per una sparatoria a Tetovo nel 2004, quando era stato complice della fuga di un altro ricercato, Lirim Jakupi detto “Nazi”.
L'ultimo uomo infine, Shaban Zenua, era incriminato con l’accusa di tortura su diversi civili durante il conflitto del 2001. Il caso era comparso addirittura di fronte alla Corte internazionale dell’Aja, per poi essere reinviato davanti alla giustizia macedone, dove il processo era appena cominciato.
Il secondo incidente armato in pochi giorni
Il secondo scontro a fuoco ha ovviamente alzato la tensione. Si sono susseguite dichiarazioni di solidarietà. Funzionari di Bruxelles in veste non ufficiale confermavano che la situazione era sotto stretta osservazione, pur ribadendo che non c’era ragione di timori imminenti, e che gli incidenti armati andavano rubricati come crimini, non come tensioni etniche.
I paragoni con la guerra del 2001 non reggono, secondo l'opinione più diffusa, in Macedonia e all’estero, la situazione è concordemente ritenuta stabile. E il reato di traffico d’armi non va confuso con un rischio escalation. Chi è di diverso avviso, è rimasto in minoranza.
Il tema della storia che non si può ripetere è un argomento valido. Per molte ragioni. L’accordo allora fu firmato da tutti i leaders albanesi e garantito dalla comunità internazionale. E dunque, un nuovo conflitto significherebbe fare un passo indietro rispetto a quell'impegno.
In più, il contesto regionale è del tutto cambiato, rispetto a quando il conflitto del 2001 si scatenò come espansione della guerra del Kosovo. Ma l’opinione pubblica ha ragione di chiedersi che cosa sta succedendo a questo punto. Sfortunatamente non è infondata la generale preoccupazione per le relazioni etniche all’interno del Paese. Occasioni come queste alimentano il radicalismo, e potrebbero incoraggiare chi vede interessi potenziali e profitti dall’escalation della tensione.
Cercando un passato monoetnico
Ultimamente la Macedonia è rimasta invischiata in un aspro e polarizzato dibattito culturale innescato dal mega-progetto governativo di ‘rivalutazione del passato’, di ritorno alle radici gloriose dell’identità macedone. Un progetto sostenuto da investimenti imponenti: monumenti, chiese, musei, in larga misura monoetnici e largamente inosservanti della realtà multiculturale del Paese.
La componente musulmana del Paese (non solo albanesi, ma anche turchi, in parte rom, alcuni slavi macedoni) ha reagito aspramente al progetto di costruire una chiesa nella piazza centrale e ha chiesto di affiancarvi anche una moschea.
La pragmatica coalizione albanese-macedone al governo (VMRO-DUI) funziona, ma è visibile la polarizzazione tra le due componenti nazionali. E di recente la compagine al potere è stata anch'essa scossa. Non c’è dubbio che le relazioni etniche si siano deteriorate.
Ma non significa automaticamente una deriva nella violenza armata. Negli anni ’90 il conflitto impiegò un decennio a scatenarsi. E oggi c’è un ampio margine per abbassare la tensione. Molto è in mano ai partiti, e al governo in particolare, che può fare molto rivedendo le sue recenti scelte politiche. Ma l’aggravamento sul fronte etnico lascia comunque terreno fertile agli estremisti e a chi è pronto a fare affari con la guerra.
Dal referendum territoriale del 2004, la Macedonia ha potuto contare su diversi anni di tranquillità. Il peggio dovrebbe essere davvero alle spalle.