Macedonia e Unione europea sempre più lontane. Per il terzo anno consecutivo la Commissione europea raccomanda il via ai negoziati d’accesso per il Paese, ma questi restano bloccati dalla Grecia per la disputa sul nome. E il governo Gruevski sembra voler cavalcare la delusione anti-europea, mentre arrivano segnali preoccupanti sullo stato della democrazia interna

25/11/2011 -  Risto Karajkov Skopje

La Macedonia e l’Unione europea sono sempre più lontane. Questa tendenza, visibile ormai da qualche tempo, si è intensificata dopo la pubblicazione dell’ultimo progress report della Commissione europea, ai primi di ottobre. Al momento, il governo di Nikola Gruevski sembra avere poche speranze di cambiare le cose. E anche poca volontà di farlo. Al contrario, sembra voler cavalcare il crescente euro-scetticismo del Paese.

Per il terzo anno consecutivo, il rapporto raccomanda che venga dato il via ai negoziati d’accesso. Nel 2009 e nel 2010, il Consiglio europeo aveva deciso di sospendere l’avvio dei negoziati fino alla risoluzione della questione del nome ancora aperta fra Grecia e Macedonia. Niente fa pensare che al prossimo incontro del Consiglio succederà qualcosa di diverso. E come è noto, l’ingresso della Macedonia nell’Unione è bloccato proprio dalla Grecia. Skopje vorrebbe aprire i negoziati e allo stesso tempo cercare una soluzione alla disputa (il cosiddetto modello croato, con riferimento alla disputa sui confini tra Slovenia e Croazia), ma Atene non ne vuole sapere.

Atmosfera cupa a Skopje

Nel 2009, peraltro, la raccomandazione dell’avvio dei negoziati era stata ampiamente celebrata in Macedonia. Quest’anno, l’atmosfera è di cupa delusione. I funzionari di Bruxelles non si stancano di ripetere che la raccomandazione di iniziare i negoziati non è scolpita nella pietra. Secondo gli esperti, si tratta di un monito da prendere sul serio. Nel report in merito alla Macedonia si riscontrano progressi limitati e si esprime seria preoccupazione in merito a diverse aree, come la libertà di espressione. Gli osservatori non sono certo sorpresi. Ultimamente il governo è entrato in aperto conflitto con la magistratura e una serie di media d’opposizione, ONG e in generale voci critiche. È sensato aspettarsi che, se le cose non cambieranno, la Macedonia potrebbe non vedersi rinnovata la raccomandazione all'inizio dei negoziati il prossimo anno. Si tratterebbe di un fiasco politico colossale, destinato ad acuire l’isolamento internazionale del Paese. Ed è già da qualche tempo che Skopje perde alleati. I rapporti con Washington non sono quelli di una volta e i funzionari statunitensi hanno ripetutamente espresso preoccupazione per il deficit democratico della Macedonia. Ad evitare critiche più aspre sono solo i report annuali di Bruxelles.

Questione di aggettivi

Ma il problema è che il governo macedone non vuole vedere il problema. Gruevski ha criticato UE e Commissione europea in termini alquanto diretti, interpretando il report come deliberatamente iper-critico e un tentativo di costringere Skopje a cedere nella disputa con la Grecia. Gli eurocrati hanno definito “insolite” le sue osservazioni. Invece di un dibattito onesto sui reali problemi del Paese, il governo ha stimolato l’opinione pubblica ad accanirsi contro la Commissione che vorrebbe negare l’identità del popolo macedone. Non ha aiutato in tal senso l'atteggiamento ambiguo di Bruxelles. Negli anni, l’aggettivo “macedone”, prima usato regolarmente in riferimento alla lingua, alle istituzioni e perfino alle squadre sportive, è gradualmente scomparso dai report annuali. È come se i lobbisti greci fossero rintanati in ogni corridoio e toilette della Commissione, pronti a scongiurare ogni uso dell’aggettivo.

Nei giorni successivi alla pubblicazione del report, il governo ha concentrato tutti gli sforzi sulla "guerra dell’aggettivo". Hanno reagito il presidente, il ministro degli Esteri, innumerevoli organizzazioni e associazioni di intellettuali, artisti, scrittori, studenti e così via. Hanno scritto lettere al Commissario Štefan Füle e organizzato dibattiti, proteste e conferenze stampa. E le reazioni non sembrano scemare, anzi.

È giusto che la società civile reagisca al comportamento della Commissione. Il problema è che sembra farlo su incitazione del governo. L’aggettivo era già sparito nel 2009, ma la gioia per la raccomandazione dell’avvio dei negoziati non aveva lasciato spazio a proteste. I veri problemi sono però altrove. Anche se il governo ha attribuito i toni tiepidi del report alla disputa sul nome, si tratta di due questioni separate. L’arretramento democratico della Macedonia è una cosa. Il comportamento non democratico dell’Europa sul diritto fondamentale all’autodeterminazione è un’altra. In realtà, poco è cambiato nella posizione UE dalla famigerata Dichiarazione di Lisbona del 1991, che dichiarava che Bruxelles non avrebbe riconosciuto un Paese il cui nome comprendesse la parola “Macedonia”. Quindi, forse, governo e società civile dovrebbero concentrarsi di più sul precario stato della democrazia interna.

Segnali preoccupanti sul fronte interno

Le voci d’opposizione sui media macedoni sono state messe a tacere. Il quotidiano Dnevnik, in passato roccaforte del pensiero indipendente, si è bruscamente trasformato in servile bollettino governativo, anche se non ad opera del governo stesso, ma della proprietà WAZ. L’ex primo ministro e presidente Branko Crvenkovski, ora leader dell’opposizione, ha denunciato intercettazioni illegali. Con gli oppositori si usa la mano pesante.

L’ex ministro degli Esteri Ljube Boskovski, ora esponente del partito d’opposizione di destra “Uniti per la Macedonia”, che ha passato buona parte dell’ultimo decennio come detenuto prima in Croazia e poi all’Aja per accuse di crimini di guerra (poi cadute), è in carcere dai primi di giugno per finanziamento illecito alla campagna elettorale. Si tratta di un reato grave, ma la sua reclusione sembra figlia di una buona dose di giustizia selettiva, viste le enormi somme non dichiarate che i partiti macedoni spendono per le elezioni. Nemmeno Boskovski era un democratico modello quando era al potere e si è creato una reputazione ambigua con arresti a favore di telecamera, ma questa è un’altra storia. Le detenzioni prolungate sembrano essere diventate strumenti di battaglia politica.

Con tutti i suoi difetti, la Macedonia ha lottato per costruire un regime democratico ed è in questa direzione che gli sforzi di governo e opinione pubblica dovrebbero andare. Non per l’Unione europea, ma per il bene del Paese.