Il lavoro a maglia - e non solo - per conoscersi, confrontarsi e favorire lo scambio culturale. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Sono partita diretta il 29 luglio da Roma. Nella macchina uno zaino pieno di abiti, libri e diari e un pacco di tela blu lungo 2 metri che occupa in lunghezza il vano destro della mia c1. Destinazione Skopje. Il pacco contiene la struttura di una tenda fatta di una ventina di canaline di plastica grigia. E’ la struttura della “La Casa Ricamata”, una casa nomade con cui sto girando per le terre balcaniche da circa tre anni. Una tenda sui cui ho ricamato i proverbi che mi sono stati dati dagli amici incontrati nei viaggi in tutte le lingue e dialetti del mondo. Una casa che accoglie le diverse culture e si fa accumulatore e trasmettitore di memorie tra i paesi in cui è approdata e quelli in cui metterà temporanee radici.
Il telo ricamato, impacchettato bene dall’ultimo viaggio fatto in Transilvania (Romania), viaggia accanto a me sul sedile destro assieme alla custodia della tromba. Viaggia dietro di me, questa volta sul sedile sinistro, una lunga fascia di corda colorata lavorata a maglia. Diventerà una grande amaca su cui le persone potranno sdraiarsi ed ascoltare i canti raccolti durante i miei viaggi. L’idea è nata quando ho pensato ad un parco per far divertire e riposare gli avventori che avrei incontrato nelle mie peregrinazioni. Un parco fatto di altalene ed amache realizzate con il contributo delle persone che avrei incontrato. Amache per dondolarsi, guardare il cielo ed ascoltare il mio raccolto narrativo fatto di parole cantate, saggezze popolari e modi diversi per celebrare le emozioni (a questo sono sempre serviti i canti antichi che sono volati da generazioni a generazione ed arrivati sino a noi).
Sono stata selezionata dal Brashnar artist in residence project di Skopje proprio per proseguire questo mio ultimo progetto, coinvolgere le persone della città, apprendere da loro nuovi modi di lavorare a maglia e conoscere la loro cultura a partire dal fare qualcosa di concreto, legato alle pratiche artigianali in una terra ricca di tradizioni e tecniche legate alle tradizioni popolari e al costume.
Un altro pensiero andava verso il confine di questa terra. Il confine chiuso da un mese ai migranti, fermati in campi diffusi nelle terre del nord della Grecia e a sud della Macedonia. Ho pensato che “La Casa Ricamata” sarebbe potuta essere utile se installata in un luogo sensibile, per poter accogliere un gruppo di operatori impegnati nelle diverse attività di emergenza nei campi. Infatti a seconda dei luoghi e dei contesti la “Casa Ricamata” accoglie persone che hanno il desiderio di raccontare qualcosa: poeti, performer, intellettuali impegnati, artisti, scrittori. L’incontro del gruppo di operatori e attivisti nella tenda avrebbe potuto far nascere momenti di riflessione rispetto alla complessità della situazione. Un tempo per registrare quanto fatto e quanto ancora da fare. La tenda come luogo attorno a cui raccogliersi per poter osservare da un punto di vista diverso questo fenomeno così complesso. Discutere su questioni pratiche o ascoltare esperti in materia di diritto di asilo o di normative in fase di cambiamento capaci di rispondere alle istanze delle persone.
Prima di partire e con questo pensiero in testa ho scritto a Osservatorio Balcani e Caucaso proponendo la mia idea. L’Osservatorio mi ha fornito alcuni nomi di associazioni operative in Grecia e Macedonia. Ho provato a scrivere ma non ho ricevuto risposta nell’immediato. Certe cose hanno bisogno di tempo non me la sono sentita di forzare. Mi sono fermata lì, era arrivato il momento di partire.
In viaggio
Mentre percorrevo la Durazzo-Tirana pensavo tra me e me che qualcosa sarebbe accaduto ed anche senza nessun contatto avrei trovato qualcuno interessato alla possibilità di installare la tenda al confine. A proposito di confini sono stata bloccata alla frontiera con l’Albania. Portata io con la mia macchina carica di progetti per un’ispezione in un hangar. Mi hanno perquisita facendomi scaricare tutto, dalla struttura della tenda, il suo telo ricamato, la tappezzeria costituita di tappeti realizzati apposta in Romania, la tromba, lo zaino, le salsicce e il ratafià di Letto Manoppello che avrei portato agli organizzatori della residenza come regalo culinario da condividere. Dopo una mezz’ora di accertamenti mi lasciano andare, carico tutto in macchina e riparto.
La prima città che incontro dopo il confine è Struga la conosco perché è citata in un canto popolare macedone dal titolo “Sto mi e milo milo” mi fermo un giorno per visitarla. So che è la città natale dei fratelli Miladinov, i due poeti a cui è stato dedicato uno dei festival di poesia più importanti d’Europa. Entro nella casa dei Miladinov, ora museo, nel centro storico di Struga in tipico stile ottomano. Una giovane donna mi accompagna. Mi indica le tappe salienti della vita di Konstantin, le foto degli amici e dei colleghi poeti e scrittori, le foto della prigionia a Istanbul e il testo originale di “Taga za jug” la poesia più famosa di Konstantin “Nostalgia del sud” che si insegna e studia in tutte le scuole della Macedonia e che apre il festival di Struga accompagnata dall’esplosione dei fuochi d’artificio che si riflettono sul lago.
Il giorno dopo mi sposto a Ohrid e lì compro il libro originale dei fratelli “Bulgarian Folk song”. Perché bulgarian se loro sono macedoni? Scopro che al tempo la forma della Macedonia non era quella di adesso, l’area era sotto il dominio bulgaro ed in seguito ottomano. Poi scoprirò che i canti popolari raccolti dai Miladinov scritti in bulgaro raccontano con delle immagini suggestive la storia di questo popolo, dominato per secoli e ricco di sfumature culturali che solo i luoghi di confine possiedono. Decido che è venuto il momento di partire, Skopje mi aspetta.
Residenza per artisti
Arrivo in via Panko Brashnarov il 2 di agosto. Mi accoglie Ankica una giovane artista macedone e Kennet un collega americano. I due si sono conosciuti nel Kansas dove insieme hanno frequentato un master in linguaggi artistici contemporanei. E’ lì che è nato il loro progetto: “Brashnar creative project”. Nel 2010, Ankica, dopo dieci anni di studi in America ha voglia di tornare nella sua terra, a casa, ma non di tornarci e basta, di tornarci in modo attivo, di fare qualcosa per la sua città, per il suo quartiere. Prende accordi con i suoi genitori che nel frattempo si sono trasferiti nella campagna vicino Skopje. Ankica propone ai suoi di riadattare la casa in cui abitavano un tempo, quella in via Panko Brashnarov appunto, ormai vuota, a residenza per artisti. Decidono di sì e si mettono a lavorare.
Con Kennet impiegano un anno a ristrutturare, ripulire e riadattare gli spazi. Le stanze del 1 piano diventano le future camere per gli artisti, la cucina e il salotto mantengono la funzione originaria e saranno i luoghi in cui gli artisti si incontreranno per condividere il tempo dei pasti e del relax. Gli spazi del piano seminterrato diventano 4 studi per artisti, gli spazi di disimpegno come corridoi e stanzini, giardini e garage si trasformano in spazi di condivisione, luoghi per preparare tisane, ripostigli per materiale artistico da condividere.
L’idea è quella di ospitare 4 artisti al mese. Metterli in condizione di proseguire i propri progetti individuali dando inoltre spazio anche ai momenti di condivisione quali gestione degli spazi aperti, gestione delle pulizie quotidiane degli spazi comuni, attenzione nella gestione degli scarti alimentari, riuso e riciclo di materiali, compostaggio, cura e lavoro nell’orto e nel frutteto in Volkovo.
Oltre a beneficiare degli ottimi prodotti del raccolto estivo questi momenti di collaborazione sono ottimi momenti per socializzare e per permettere agli artisti di conoscersi e magari trovare delle strade per possibili progetti da sviluppare insieme che saranno attivatori di legami che proseguiranno anche dopo il tempo di residenza. A me è successo così. Ho conosciuto un’artista brasiliana anche lei in residenza a Panko Brashnarov nel mese di agosto. Entrambe interessate ai canti popolari macedoni e dell’ex Jugoslavia abbiamo iniziato a chiedere alle persone del quartiere che conoscevamo durante i nostri giorni di permanenza i canti che si ricordavano; dai canti popolari a quelli più moderni. Abbiamo trovato un patrimonio prezioso, custodito nella memoria di queste genti. Abbiamo selezionato alcuni canti: due macedoni, uno albanese, uno armeno, due canti croati ed uno serbo. La scelta è venuta naturalmente dalle provenienze diverse degli abitanti. La Macedonia è una terra in cui esiste un intreccio di culture interessantissimo. Uno si aspetta di parlare con un macedone ed invece scopre che è macedone di prima generazione ma di radici albanesi o turche o aramene o rom etc…
Identità
Invece il centro di Skopje sembra cercare invano un’identità. E sembra trovarla forzatamente solo nel sogno del passato mitico, quello dell’impero di Alessandro il Grande mettendo il dito sulla piaga di una diatriba relativa alle origini del condottiero che è tutt’ora aperta e foriera di conflitti tra i greci ed i macedoni. Ma questa illusione che sembra interessare solo i politici al governo molto conservatori e nostalgici di qualcosa di scomparso da tempo, sarebbe buona cosa che rimanesse un’idea nelle teste di chi governa. La cosa sconcertante è che si tenta a tutti i costi di far diventare realtà quest’idea, distruggendo la città a suon di statue equestri, di altari della patria, archi di trionfo, sculture di guerrieri conquistatori dalle mosse aggressive. Vere e proprie scenografie che di classico hanno solo la modalità postmoderna di costruzioni scenografiche che simulano gli antichi fasti e prestigiosi materiali ma che nascondono un ammasso di acciaio e cemento armato. Un danno all’ambiente e ad uno spazio urbano generatosi con altre logiche e in tempi molto diversi.
Una statua equestre alta circa 40 metri di “Alexander The Greath” domina una delle piazze fastose del centro, gli fa da basamento un gruppo scultoreo bronzeo di donne incinte a rimarcare una società dai ruoli ben precisi, una società fatta di regole ben definite a cui non si sfugge facilmente.
Ankica, nel 2012 dopo dieci anni di assenza ha visto per prima cosa questo scempio. Una trasformazione posticcia alla quale ha voluto rispondere con un’azione molto diversa. Un’azione che si pone con un approccio analitico del territorio, non invasivo, ma fatto di un'osservazione attenta e di studio. Ankica in questo suo progetto ci dimostra che non si deve forzare un’identità ma che si può osservare le diverse identità della sua terra senza far prevalere l’una sull’altra anzi accogliendo altre identità in arrivo. Un ruolo materno, di cura e attenzione nei confronti di una comunità sociale in trasformazione.
Se le persone che governano questo piccolo stato luogo di incontro di culture diversissime i cui legami e incroci producono quanto di più buono e più interessante può esistere dal cibo ai ritmi musicali, dai linguaggi ai volti delle genti lo capissero e facessero i conti con quanto di più bello gli viene offerto da questa diversità, le cosa potrebbero cambiare molto. L’intreccio degli usi, dei riti, delle abitudini, dei profumi, dei libri che per un mese non ho smesso di amare e di seguire curiosa come fossi un cane in cerca di tartufi prelibati, sono la caratteristica dominante di questa terra.
La corda di canapa
I primi giorni di permanenza a Brashnar creative project ho parlato ad Ankica del mio desiderio di installare la Casa Ricamata nelle vicinanze di qualche campo profughi, ma capisco presto che è troppo complicato e desisto. Capisco che non è il luogo né il tempo e che se ci sarà un tempo che verrà.
Ho pensato che lavorare nel quartiere, conoscere le persone da coinvolgere nella realizzazione dell’amaca che mi sono portata dietro, sarebbe stata la cosa più giusta per creare un legame con quel territorio. Per conoscerlo, per raccontarlo una volta tornata al mio paese.
Tutti i giorni con un sacco pieno di corda e di amaca già tessuta camminavo per le strade del quartiere, mi fermavo negli spazi pubblici e lavoravo a maglia una corda di canapa profumata comprata in una ferramenta nelle vicinanze del mercato rionale. Molte persone si fermavano incuriosite e mi chiedevano se potevano aiutarmi a farne un pezzo. Senza che io chiedessi nulla. Ho conosciuto così Veriza, Spasja, Makedonka, Violetta, Samir, Lidia e Zuhir. Ho appreso diverse modalità di lavoro a maglia, e, mentre questo scambio di saperi avveniva sotto gli occhi di tutti i passanti si intrecciavano discorsi in diverse lingue fatti di domande sul da dove provenissi, che tipo di progetto fosse, cosa ne avrei fatto di quella fascia lunga di canapa color sabbia. Così io, in un inglese non molto forbito, ma aiutata a volte da Ankica con il suo sciolto macedone, spiegavo loro il mio progetto. Qualcuno, una volta appresa la storia dell’amaca intonava anche qualche canzone o la poesia dei Miladinov. Al mercato, alcune donne mi portavano la frutta, fichi, pesche, il fioraio mi ha regalato una piantina, c’era chi solamente mi ascoltava e trovava bella questa idea.
Casa Ricamata
Ho installato la “Casa Ricamata” solo l’ultimo giorno della mia permanenza in Panko Brashnarov. Con un invito scritto in macedone io, Ankica, Raluca e Karen siamo andate in cerca degli abitanti del quartiere, siamo entrate nelle loro case, ci siamo affacciate nei loro giardini per invitarle alla presentazione dei nostri progetti. Alla fine della via c’è un prato voluto e curato dagli abitanti, ci arriva il profumo delle piante lungo il Vardar, il fiume più importante della Macedonia presente in tanti canti e poesie popolari che scorre a pochi metri.
Con Ankica scegliamo il parco per presentare le nostre ricerche. Un luogo pubblico dove non solo i bambini possono giocare e gli adulti ritrovarsi al tavolo sotto il salice, ma dove possa avvenire anche qualcosa di speciale, dove l’arte come corto circuito possa mettere insieme per una serata bambini, adulti, giovani e anziani che solitamente vivono una quotidianità fatta di abitudini molto ben definite, che non lascia spazio a modi alternativi di vivere la socialità. Così installo la mia tenda e le amache appena ultimate alle piante di mele e prugne. Davanti ed intorno alla tenda si creano gruppetti di persone e si va avanti tutta la serata a cantare canti macedoni ed ad intonare melodie arrangiandone di nuove.
Mimoza, una giovane ragazza che abbiamo conosciuto giorni prima al parco, di origini albanesi, si unisce a noi ed insieme cantiamo il canto albanese da lei suggerito “Stacioni dunjas”. E poi Zarfina intona “Makedonce devojce” e “Jano mori”, arriva Jana la zia di Ankica con cui pochi giorni prima ci eravamo unite in un canto di gruppo e canta insieme a noi “More sokol” e “Blaguno dejce mori pozarance”. A pochi metri l’amaca è circondata dai bambini che salgono e scendono di continuo, aspettando il loro turno per dondolarcisi un po’ sopra.
Karen parla con gli abitanti del suo progetto. Lei ha ancora tempo, resterà sino alla fine di ottobre. Infatti a Panko Brashnarov si può decidere di restare anche più di un mese. Se si ritiene che la propria ricerca ha bisogno di più tempo. Reluca mostra i disegni che ha prodotto nel corso della residenza. Una serie di acquerelli fatti al centro di Skopje, nel quartiere turco e un video realizzato in stop motion: un alternarsi delle infinite statue equestri disseminate in tutta la città. Gli abitanti del quartiere guardano e ascoltano colpiti, emozionati nel sentire che persone provenienti da altre terre hanno imparato la loro lingua, i loro canti, hanno osservato in maniera attenta la loro cultura. Se ne vanno a notte tarda a casa contenti. Anche Ankica è contenta. Ci dice che non è mai successo che tutti gli abitanti del quartiere siano rimasti così numerosi sino a tardi ad ascoltare, osservare, provare a capire cosa stesse succedendo.
Il giorno dopo alle 7 del mattino parto. Mi aspettano circa sette ore di viaggio per arrivare a Durazzo. Il giorno successivo mi imbarcherò per l’Italia. Mentre la mia c1 di nuovo carica di roba passa il confine ho una strana sensazione. Come di aver lasciato qualcosa in quella casa, in quel quartiere, un pezzo di qualcosa dentro di me che inizia con la c.
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