1989 Proteste in Romania (wikimedia)

1989 Proteste in Romania (wikimedia )

Dicembre 1989, la Romania esplode in una rivoluzione popolare. Azra, prima donna giornalista a far parte della redazione esteri di Radio Belgrado, parte per Bucarest per raccontare la caduta di Ceaușescu

23/12/2016 -  Azra Nuhefendić

Il primo giorno, nel nuovo ufficio, poggiai le gambe sulla scrivania, come avevo visto fare nei film agli investigatori e ai giornalisti importanti. Volevo lanciare un chiaro messaggio ai miei colleghi: anche se donna, sono uguale a voi.

Nessuno si mostrò interessato o rimase colpito dalla mia dimostrazione. Tempo dopo, i colleghi, con i quali ero ormai in rapporti di amicizia, mi dissero che il mio comportamento era parso a loro inutile e naïve. Anch’io, “da grande”, ho capito che era stata una dimostrazione da bambini. Mi ero mostrata ridicola anziché autorevole come volevo.

Radio Belgrado

La redazione per gli esteri di Radio Belgrado era composta di soli uomini. Si riusciva a entrare quando qualcuno di loro andava in pensione o moriva. Io fui la prima donna a far parte di quella redazione in 60 anni dall’esistenza dell’emittente statale.

Non si trattava di maschilismo, ma di competizione e criteri rigorosi. La redazione per gli esteri era molto ambita, ed era una fortuna e un prestigio far parte di essa.

I media in Jugoslavia erano controllati dallo stato. Sulla politica e sui politici locali non ci si poteva sbilanciare troppo, mentre sugli altri paesi e sui politici stranieri c’era più libertà, non bisognava stare attenti a ogni singola parola, si poteva essere creativi e più obiettivi, ad eccezione di casi particolari. Inoltre, lavorando in quella redazione, si poteva viaggiare all’estero e, come scrive il celebre giornalista italiano Tiziano Terzani in uno dei suoi racconti, essere anche pagati.

I miei colleghi mi trattavano alla pari, vuol dire che non mi risparmiavano dal lavoro talvolta duro, impegnativo, rischioso. C’era solo un’eccezione: i viaggi all’estero, ma non c’entravano nulla con il sesso. I colleghi, come inviati speciali, viaggiavano più spesso perché avevano più esperienza, o conoscevano meglio l’argomento, oppure erano più combattivi o più furbi di me.

Per questo rimasi sorpresa quando il mio capo, un tale Milorad, mi chiese se ero interessata a partire per Bucarest.

La rivoluzione

Era il pomeriggio del 19 dicembre 1989. Da due giorni, in redazione, seguivamo le immagini che arrivavano dalla Romania. Davanti alle telecamere, letteralmente, scorreva una rivoluzione popolare. I romeni, per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale, si ribellavano contro il regime del presidente Nicolae Ceaușescu.

L’offerta, inaspettata, mi disorienta. In un attimo faccio i miei calcoli: se rifiuto di partire per paura, resterò per tutta la vita solo una donna. Perciò dico di sì. Ma un attimo dopo mi pento. Da quanto si vedeva in TV, in Romania regnava l’anarchia, c’erano fucilazioni, linciaggi, rapine, cadaveri, la gente arrabbiata spaccava e saccheggiava tutto.

In quell’occasione i miei colleghi non fecero a gara per accaparrarsi il servizio, né per aggiudicarsi l’opportunità di viaggiare all’estero. Avevano più esperienza, sapevano che andare là poteva essere pericoloso. Quella volta diedero a me la precedenza. Avrei potuto dire anch’io di no, ma pensavo che sarebbe stata una “condanna” fino alla fine della mia carriera lavorativa, perché sarei stata trattata come una donna anziché come una giornalista.

Dopo aver accettato l’incarico, cominciai a ragionare su come e cosa fare. Per prima cosa dovevo pensare a come arrivare in Romania. I treni circolavano regolarmente ma non me la sentivo di andare là da sola. Feci alcune telefonate per vedere se c’erano altri colleghi di altre testate in procinto di partire. Nulla. Scopro, per caso, che un diplomatico jugoslavo stava per partire per Bucarest la notte stessa. Lo trovo e cerco di convincerlo di partire insieme. Quello esita, tira fuori un po’ di scuse, mi dice cose che già sapevo e avevo visto anch’io in TV, che la situazione era estrema e pericolosa.

Come ultimo appello gli dico che sono una persona indipendente, capace di arrangiarmi da sola, che non gli sarei stata di alcun peso, che non chiedevo la sua protezione e che anche per lui viaggiare in compagnia sarebbe stato più sicuro. Malvolentieri, accetta. Ci diamo appuntamento alla stazione dei treni di Belgrado.

Spazzolino e due-tre mutande

Era tardo pomeriggio, mancavano alcune ore alla partenza per Bucarest. Cerco di sbrigarmi e di raccogliere l’indispensabile per il viaggio. I soldi e il cibo, almeno per le prime 24 ore. In redazione mi dicono di organizzarmi da sola per i soldi, perché le banche erano chiuse. Non ho contanti. Allora faccio alcune telefonate e trovo un’amica disposta a prestarmi duecento marchi tedeschi. Nello zainetto metto lo spazzolino da denti, il dentifricio, due-tre mutande, una sciarpa calda, il registratore audio, due tavolette di cioccolata (nelle situazioni estreme la cioccolata ti può salvare la vita).

Alle dieci di sera, nella stazione ferroviaria di Belgrado, sul primo binario, c’era un lungo treno composto da una decina di vagoni, due ferrovieri e noi due, gli unici passeggeri. I ferrovieri ci ispezionavano da lontano, parlavano tra di loro, scuotevano la testa. Fino alla partenza del treno valutavano se fossimo là solo per dare un’occhiata e curiosare.

Il diplomatico, serio, di mezza età, era vestito in modo sportivo ma elegante. Io, più che un’inviata speciale di guerra potevo sembrare un boy scout, oppure un contrabbandiere mal mascherato, con un minuscolo zaino sulle spalle, gli scarponi e la giacca da sci.

Fu il più strano viaggio in treno mai fatto. Due soli passeggeri, in un treno lungo che andava verso il paese vicino, ma per me così sconosciuto, che poteva trovarsi anche lontano, su un altro continente o pianeta.

Quello che io “sapevo” della Romania era comune a molti jugoslavi, si trattava soprattutto di pregiudizi e stereotipi. Come paese non ci interessava molto, sapevamo che era povero, con un regime comunista duro. Ci recavamo subito oltre il confine per comprare cose da mangiare, che per noi costavano poco. I romeni venivano in Jugoslavia per fare i lavori stagionali, oppure vendevano nei nostri mercati la crema per il viso “Gerovital”, un prodotto romeno che aveva la fama di essere miracoloso contro la vecchiaia.

Treno giusto?

Il controllore si presentò subito. Più che verificare i nostri biglietti, gli interessava capire chi erano i due pazzi che andavano in Romania mentre i romeni tentavano di scappare altrove. Infatti ci dice che mentre ci osservava sul binario si chiedeva quale persona normale potrebbe partire verso quel caos.

Ci chiedeva il motivo del nostro viaggio, se eravamo sicuri di essere sul treno giusto. Ero io a dargli le risposte. Il diplomatico taceva, sempre, anche la maggior parte della notte quando tentavo di conversare.

Dopo due-tre parole di cortesia, il diplomatico ed io ci ritirammo ognuno nel proprio scompartimento. Mi sdraiai sul letto, completamente vestita, ansiosa, piena di pensieri e preoccupazioni. Sapevo che era inutile tentare di addormentarsi. Cercavo di immaginare cosa e come fare a Bucarest. Non sapevo neanche cosa avrei potuto aspettarmi là, a chi rivolgermi.

Poi sento il rumore della porta dello scompartimento accanto. Chiaro, anche il diplomatico non riesce a dormire, concludo, e in fretta esco nel corridoio. Lui fuma e guarda attraverso il finestrino, nel buio. Si gira verso di me con un mezzo sorriso sulle labbra, non dice nulla, poi si gira di nuovo e continua a fissare il buio.

Con le persone che conosciamo bene si può stare zitti senza sentirsi a disagio. Il silenzio non è necessariamente un vuoto se siamo con chi amiamo. Anzi, può significare una profonda intesa.

Invece, stare zitti per lungo tempo con degli sconosciuti, è insopportabile. Soli, nel lungo corridoio del treno, io e il diplomatico non potevamo far finta che l’altro non ci fosse. Mi sentivo scomoda, cercavo un qualche argomento per conversare, sparavo i commenti, facevo domande retoriche. Il diplomatico rispondeva seccamente, e quando poteva con un semplice “sì” o “no”.

Anni dopo, con l’esperienza acquisita, ho capito che quel tale era probabilmente un poliziotto, un addetto allo spionaggio. Quelli ti ascoltano anche quando, come me in quella situazione, dici stupidaggini, cose senza importanza, o parli di argomenti che non conosci.

Lui mi chiede, penso più per gentilezza che per interesse, dove penso di accomodarmi una volta giunti a Bucarest. “In albergo”, gli rispondo stupita, come se fosse una cosa ovvia. “Hmm”, mormora quello non convinto e dice: “Visto che c’è la rivoluzione, può darsi che nell’albergo non si possa stare”. Gli chiedo dov’è l’ambasciata jugoslava, mi dà l’indirizzo che per me non dice nulla, non conoscendo Bucarest.

La notte passava in lunghi silenzi. Il treno si fermava nelle stazioni vuote e buie, nessuno scendeva né saliva, tranne il conducente che lanciava un fischio a ogni partenza, inutilmente. “Ci manca solo il conte Dracula”, dico, e rido da sola per quella che doveva essere una battuta. Il diplomatico, impassibile, mi dà un’occhiata, di quelle che significano “cosa c’è da ridere”, e continua a fissare nel buio.

Un controllo di routine al confine, i poliziotti romeni ci salutano amichevolmente e strizzano l’occhio per dirci che siamo dalla stessa parte.

Spari

Verso le nove di mattina arriviamo alla stazione di Bucarest. Dai finestrini del treno non si vede nessuno sui binari. La stazione pare vuota e tranquilla. Io e il mio compagno di viaggio ci salutiamo, convinti di non vederci mai più, e ci dirigiamo in fretta, ognuno per conto proprio, verso l’uscita.

Ma prima di arrivare alla portiera del treno, da fuori si sentono gli spari e le urla delle persone nascoste chissà dove. Presi dal panico ci buttiamo sul pavimento e, trascinandoci, ci ritiriamo nel corridoio del treno. “Questo non ci voleva”, dice lui. Seduti sul pavimento con le teste chinate in giù per proteggerci meglio, restiamo per circa mezz’ora. Poi il silenzio, che a me pareva minaccioso e pesante. Temevo che qualcuno entrasse nel treno e sparasse prima di chiederci chi eravamo. Infine si sente la voce di un controllore. Cammina per il binario e ci invita a uscire. Con cautela ci alziamo, incerti se il pericolo è davvero passato.

Uno sguardo a sinistra e a destra, poi giù veloci dal treno, e di corsa “verso il pericolo o la salvezza”, penso tra me e me, ma comunque verso il palazzo della stazione.

Per altre due ore gli spari ci inchiodano nella sala vuota della stazione. Poi passa un romeno, ci vede, e gesticolando ci fa capire che il pericolo è passato e che possiamo uscire.

Davanti alla stazione siamo gli unici ad attraversare la strada alberata. Seguo il diplomatico senza dire niente, non so dove va, tanto neanch’io saprei come orientarmi, non c’è nessuno a cui chiedere informazioni.

A piedi impiegammo due ore per arrivare all’ambasciata jugoslava. Camminavamo con prudenza e a qualsiasi rumore o mossa ci nascondevamo dietro un qualsiasi riparo.

Nella sala centrale dell’ambasciata c’erano alcuni giornalisti mischiati agli impiegati, tanta agitazione, movimento, discussioni ad alta voce, tutto era avvolto nel fumo. I diplomatici uscivano da una porta e sparivano dietro un’altra con delle carte tra le mani e il viso preoccupato. Il “mio” diplomatico sparì subito dopo il nostro arrivo, e non lo rividi più.

Nel gruppo vedo uno che conosco, mi sorride e saluta con una stretta di mano. Non ci posso credere. Dragan M., il mio vicino di Sarajevo, uno che da piccolo era già adulto, non giocava con i bambini del vicinato, tantomeno da adolescente con le ragazze-maschiaccio come me. Era sempre serio, ci salutava e passava oltre. Non mi ricordavo di aver mai, prima, parlato con lui. Ed eccolo qui, mi riconosce mi saluta con un sorriso grande e amichevole. Era in servizio diplomatico presso l’ambasciata.

Per me fu come incontrare il mio amico più caro.

Dragan è gentile e disponibile, si offre di aiutarmi, caso mai avessi bisogno. Chiedo se posso utilizzare il telefono per mandare il primo rapporto per la radio. Mi prende sottobraccio, mi fa strada nel sotterraneo, in un stanza con tutte le apparecchiature per la trasmissione.

In albergo

Tutto il pomeriggio da fuori si sentono spari, voci agitate, movimenti e rumori inquietanti. Verso sera ci dicono che noi giornalisti dobbiamo lasciare l’ambasciata, per una questione d’immunità. “L’albergo è a dieci minuti da qui, avanti dritto per la strada”, ci indicano la direzione. Protestiamo, ma invano, ci buttano fuori, sulla strada buia, vuota e pericolosa.

Il nostro tragitto dura un’ora. Ci muovevamo piano nascondendoci dietro ogni albero. A un certo punto ci ferma un gruppo semi-armato di ragazzi. Ci chiedono i documenti, sotto la luce di una torcia controllano i documenti, specialmente i portafogli. Gesticolano e maneggiano i fucili da inesperti. Rivivrò tutto questo appena tre anni dopo, a Sarajevo, con le prime barricate erette all’inizio della guerra.

In ogni conflitto un albergo diventa famoso perché ospita i giornalisti, inviati di guerra. Quello di Bucarest era un grattacielo moderno, di cemento, brutto, cupo, con un’enorme sala d’ingresso. Le stanze non erano riscaldate, l’acqua gocciolava dai rubinetti, non c’era da mangiare a parte il tè a colazione con un pezzo di pane e, stranamente, grandi dolci che, dopo averne mangiati un bel po’, perché non c’era nient’altro, mi provocavano la nausea.

Dopo due giorni ho cominciato a soffrire la fame. I pochi soldi che avevo se n’erano andati quasi subito, la cioccolata pure. Non riuscivo a dormire per il freddo. Il quarto giorno, la mattina presto, mi sveglia il suono del telefono in camera. Il mio collega Dragan Petrović, mandato dalla redazione come rinforzo, dice di essere arrivato e di stare nello stesso albergo.

Non so se chiunque altro avrebbe potuto rallegrarmi tanto in quel momento. Ci troviamo subito nella sala, e dopo le prime parole e gli abbracci esagerati (per la mia disperazione) Dragan tira fuori un panino: il più gustoso mai mangiato in tutta la mia vita.