Dalla memoria dei szilvás gombóc transilvani ai tappeti di amicizie greco-romene. Nonna Eva (Evamama) racconta storie di vita quotidiana nella Romania di confine negli anni Cinquanta del secolo scorso
Eva prepara le migliori szilvás gombóc che io abbia mai assaggiato. Gnocchi di prugne. Un dessert casalingo che si trova facilmente sulle tavole degli ungheresi di Transilvania. Se ne possono assaggiare delle varianti in Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia, in Slovenia, Croazia, Repubblica Ceca e Slovacchia; la ricetta deve aver viaggiato attraverso i territori di quello che era l’Impero austro-ungarico. Le szilvás gombóc di Eva sono più buone di quelle che prepara la mia famiglia di Sovata. Il suo impasto è più leggero, più morbido.
Passo a trovare Eva ed il marito, Leontin, ogni volta che sono ad Oradea. Sono una coppia mista, lei ungherese, lui romeno, entrambi bilingue. Entro le loro mura domestiche lei si rivolge a lui in ungherese, lui le risponde in romeno. Vivono al terzo piano di un basso bloc comunista. Un minuscolo appartamento con spazi ben divisi. Una cucina che odora sempre di cucinato che Eva ha voluto ristrutturata alcuni anni fa, oggi manifestazione di tutte le sfumature del suo colore preferito, il rosa.
Entrando in casa loro mi rendo conto che nelle case romene, anche le più piccole, si trova sempre lo spazio per disporre di una cămară in ungherese kamara, l’immancabile dispensa. Questa stanzetta ha di solito solo una minuscola finestra in alto, perché la temperatura deve rimanere fresca e asciutta; l’ambiente è destinato ad accogliere le conserve, le farine, lo zucchero, l’olio, le patate, le verze, le mele. Ma anche le buste di plastica per andare a fare la spesa ed i grandi tegami per la stagione delle marmellate.
Un legame d’affetto semplice mi lega ad Eva, la suocera di mia zia. Anche se non mi è nonna, per me è sempre stata Evamama, nonna Eva. Del resto, Eva appartiene alla generazione delle donne a cui apparteneva anche mia nonna. Rintraccio in lei le maniere determinate che mi pare di scorgere in tutte le donne transilvane, quelle nate in condizioni umili e società patriarcali, ma che poi si son fatte da sé, prendendosi il posto che spettava loro, distinguendosi professionalmente, ed a guida della famiglia.
Quando rivelo ad Eva che vorrei scrivere un contributo su di lei, mi risponde con imbarazzo che non c’è nulla da scrivere. Allora le chiedo delle cose semplici. Quando la prego di spiegarmi come prepara le szilvás gombóc, comincia ad illustrarmi passo-passo gli ingredienti, le dosi ed i passaggi. Mi spiega che il segreto dei suoi gnocchi sta nell’aggiungere una tazza di semolino all’impasto e di immergere gli gnocchi in una ciotola di acqua gelata dopo averli lessati. La prima accortezza li rende morbidissimi. La seconda evita che si sfaldino.
Torno a chiederle della sua vita. Sorride e mi risponde che non c’è nulla da raccontare. È nata in una famiglia indigente, la violenza domestica era di casa, questo è tutto. Faccio qualche domanda, insisto un poco, e decide che forse qualcosa da raccontarmi ce l’ha, un ricordo di adolescenza che le è caro. Siamo ad Oradea, nella Transilvania occidentale, città che dista pochi chilometri dal confine ungherese. L’architettura art nouveau del centro storico è eredità di una comunità ebraica che quasi non c'è più, ha lasciato la città, ed il paese, negli anni della guerra fredda. Eva è nata in una casa a ridosso di quello che negli anni Quaranta era il margine della città.
Racconta. Da ragazzina prediligeva l’arte, il disegno, le sarebbe piaciuto fare l’accademia. Molto più prosaicamente a 13 anni cominciò a lavorare presso la cooperativa statale Zorile Rosii, Alba Rossa, una fabbrica di tappeti. Per i successivi 12 anni riuscì in quel lavoro operaio, intessendo tappeti colorati, a fare spazio alla propria creatività. Così mi dice che era il 1951, o forse era il 1952 quando, appena entrata in fabbrica, le fu incaricato di filare Il Tappeto dell’Amicizia insieme ad altre due ragazze pressoché della sua stessa età: una ragazza romena ed un’altra greca. Eva descrive la sua quotidianità di allora, di una Romania multietnica, di giovanissime donne che lavoravano, di giovanissime donne migranti, che quasi sembra di essere nel mezzo di un racconto di Mircea Eliade.
Insieme alle altre due ragazze filarono un tappeto lungo otto metri e largo tre e mezzo. Bello, così bello, mi dice, che portato ad una esposizione a Bucarest, vinse il premio del tappeto dell’anno. Un premio accordato alle tre ragazze, e all’amicizia tra i partiti comunisti romeno e greco dell’epoca.
Infatti, alla fine degli anni Quaranta, a conclusione della guerra civile greca, avevano trovato rifugio in Romania, i rifugiati politici comunisti greci e le loro famiglie , ed alcune migliaia di bambini evacuati dalla Grecia per motivi umanitari.
Eva mi spiega che il premio non rimase a lungo nelle loro mani. Fu un’altra donna, la caporeparto, a portarselo a casa. Tornate ad Oradea, la donna, che per campare arrotondava informando la Securitate, temibile e onnipresente polizia segreta romena, aveva provato a reclutare Eva, così che potesse informarla delle inclinazioni della sua collega greca. In fondo, dando voce ai limiti della solidarietà internazionale comunista. Opponendosi all’offerta dell’informatrice, Eva si guadagnò anni di inconvenienti professionali, ma di quel rifiuto è tutt’oggi orgogliosa. Così, mentre Eva racconta, mi dimentico che all'epoca dei fatti era poco più che una ragazzina, mentre io la penso già donna.
I szilvás gombóc di Eva
1 chilo e mezzo di patate bianche farinose
1 tazza di semolino
Circa mezzo chilo di farina bianca
Prugne coscia di monaca (se siete ad Oradea, besztercei szilva)
Pelate le patate, tagliatele a fette e immergetele in una pentola con acqua salata bollente. Quando sono morbide, scolatele.
Lasciate raffreddare le patate. Una volta raffreddate, sulla spianatoia schiacciatele bene. Aggiungete una tazza di semolino. Dopo aggiungete tanta farina quanto ne richiede l’impasto, ovvero finché questo non vi si appiccica più alle mani (indicativamente circa mezzo chilo). Prendete un poco di impasto, allargatelo con le mani ponete al centro una prugna denocciolata al cui centro avete aggiunto un cucchiaio di zucchero e una spolverata di cannella. Chiudete l’impasto formando una sfera regolare: l’eccesso di impasto, toglietelo e formate un piccolo gnocco allungato.
Mettete una pentola di acqua sul fuoco, aggiungete un pizzico di sale e un cucchiaio di olio di semi e portatela a bollore. Quando l’acqua bolle, lasciate cadere delicatamente gli gnocchi nell’acqua. Quando vengono a galla, toglieteli gentilmente dall’acqua con una schiumarola ed immergeteli in una ciotola con acqua gelata.
In una padella, scaldate un poco di olio di semi, aggiungete il pangrattato, tostatelo portandolo a doratura, senza farlo bruciare. Passate gli gnocchi di prugne nel pangrattato. Servite lasciando a disposizione degli ospiti zucchero semolato per chi lo desidera.