"Armi e bagagli" verso la Romania?

La delocalizzazione è nel contempo il risultato di tendenze innescate a livello mondiale, ma anche strettamente legato alle peculiarità del Paese promotore e di quello destinatario. Le variabili economiche rumene interessano all'Europa non solo in vista del nuovo allargamento dell'Unione.

17/03/2005 -  Anonymous User

Di Cristian Roner*

Con quest'articolo concludiamo la serie di tre interventi che, senza ambizione di completezza, hanno inteso trattare alcuni aspetti dell'economia rumena anche nell'ottica della futura adesione all'Unione Europea. Dopo il primo grande allargamento del 2004, l'Europa potrà arricchirsi di altri Paesi una volta appartenenti al blocco comunista, che hanno dovuto sperimentare il fenomeno nuovo della transizione ad una forma di mercato completamente diversa da quella dominante per quasi cinquant'anni della loro storia.

La compressione dei redditi e l'inflazione in Romania hanno pressoché impedito l'accumulazione di risparmio nazionale ostacolando gravemente gli investimenti produttivi e la crescita economica. Nonostante le crisi periodiche da transizione attraversate dal Paese, la fiducia degli investitori esteri non sembra essere diminuita in maniera significativa. Nel 1998 l'ammontare in milioni di dollari Usa degli investimenti provenienti dall'estero era 50 volte più grande dello stesso dato relativo a soli sette anni prima.

Trascurando gli investimenti a carattere speculativo (non pochi: si pensi ai massicci acquisti di terreni in vista di un aumento dei loro prezzi dopo l'adesione all'Unione Europea) che presentano un orizzonte temporale limitato, la forma di investimento dall'Italia (ma non solo) alla Romania assume frequentemente le caratteristiche della "delocalizzazione".

Nonostante le varie forme assunte, si tratta sostanzialmente del trasferimento all'estero dell'intero processo di produzione o di sue parti (solitamente quelle centrali) che necessitano di maggiore manodopera: il semilavorato viene temporaneamente esportato, ne vengono completate le fasi centrali della produzione e poi viene reimportato nel Paese di partenza dove viene completato e commercializzato. Il 60 per cento di tutte le esportazioni rumene e il 32 per cento delle importazioni avvengono con queste modalità. Nel settore tessile-abbigliamento si arriva a sfiorare il 100 per cento.

La delocalizzazione italiana interessa soprattutto le piccole-medie imprese. Dopo Bucarest, la provincia in cui maggiore è la presenza italiana è quella di Timisoara, nella quale alla fine del 2002 le imprese italiane erano 1448, mentre il settore tessile-abbigliamento è quello maggiormente coinvolto, comprendente lavorazioni che richiedono grande quantità di manodopera, con il 10,5 per cento delle imprese impegnate, assieme a quello della distribuzione all'ingrosso con il 15,8 per cento.

Due terzi delle reimportazioni italiane provengono dalla Romania e l'83 per cento di questo ammontare riguarda i prodotti del settore tessile-abbigliamento, il 60 per cento dei quali è diretto in Veneto.

Le determinanti di questo fenomeno economico sono di più varia natura. Gli accordi internazionali (nel contesto WTO, UE soprattutto) che hanno reso più facile il movimento dei fattori della produzione e più difficile il ricorso al protezionismo hanno certamente contribuito ad abbassare i costi di trasferimento. Anche le tecnologie hanno dato un contributo positivo, rendendo più rapidi i trasporti e le comunicazioni. Da non trascurare poi la presenza di affinità linguistiche e culturali che rendono più agevoli i rapporti tra i soggetti economici.

Gli stati dell'Europa Orientale presentano certamente delle peculiarità. La vicinanza ai mercati occidentali riduce i tempi di trasporto e quella agli emergenti mercati orientali costituisce una opportunità futura; diffusa inoltre la presenza di lavoratori e tecnici molto qualificati. Il rigore nella finanza pubblica e nel miglioramento delle istituzioni statali contribuisce poi a creare un clima adatto agli investimenti.

Tuttavia è il lavoro il movente più pressante sia in termini di maggiore produttività che di minori costi. Riguardo quest'ultima caratteristica, nel settore industriale ed in quello dei servizi, i lavoratori rumeni "costano" in media 1,51 euro per ora lavorata, tra i Paesi candidati la Bulgaria presenta un costo medio del lavoro di 1,35 euro. Per capire la differenza, in Italia lo stesso dato si aggira intorno ai 19 euro per ora lavorata. Nel caso del Veneto, la regione che più frequentemente ha attivato delocalizzazione, il costo del lavoro pro capite è circa l'85,7 per cento più elevato di quello rumeno.

L'importanza dei differenziali salariali conferma la tesi secondo la quale la delocalizzazione è una strategia per migliorare la competitività dal lato dei costi. Da qualche anno infatti si sta osservando la tendenza alla perdita di quote di mercato estero e quindi di competitività da parte dei Paesi maggiormente industrializzati in quelle produzioni che richiedono manodopera in grande quantità.

Il contemporaneo mutamento degli assetti mondiali (caduta del blocco sovietico, globalizzazione, apertura della Cina al commercio mondiale) ha generato la possibilità di avere manodopera qualificata a basso costo. Il recupero di competitività che viene generato in virtù dei differenziali salariali ha così contribuito ad un elevato risparmio dei costi di produzione, che alcuni studi stimano intorno al 40 per cento. Soprattutto nel caso italiano, questo modello ha contribuito a contenere la lenta, ma costante, perdita di competitività all'estero.

Secondo molti, la razionalità economica che opera alla base del processo di delocalizzazione ha contribuito al miglioramento dell'efficienza sia del sistema economico del Paese che la attua, sia di quello del Paese che la ospita. In Italia e non solo, le industrie del tessile-abbigliamento per diverse ragioni (sono state eliminate ad esempio le protezioni dalla concorrenza internazionale in attuazione di accordi internazionali per la liberalizzazione del commercio) stanno attraversando una crisi, di conseguenza le industrie o sono costrette a chiudere oppure attivano il trasferimento all'estero, preservando parte dell'occupazione in patria e domandando nel contempo lavoratori più qualificati.

All'estero, si sono avuti miglioramenti sotto il profilo occupazionale attraverso le assunzioni di manodopera anche con bassa qualifica e l'erogazione di stipendi che, anche se più bassi della media europea, rimanevano comunque alti; in alcuni casi, quando le aziende sono interessate alla crescita professionale dei loro lavoratori, possono arrivare a corrispondere ai più qualificati più del doppio dei salari locali medi. Anche se più difficili da valutare, vi sono anche delle ricadute positive in termini di diffusione di conoscenze tecniche e di creazione di indotto locale. Più in generale, vi sono benefici che, attraverso corrette politiche distributive la cui attivazione non è però priva di ostacoli, potrebbero arrivare a beneficiare tutta la popolazione locale: si tenga conto ad esempio che nel 2002 il 5 per cento del Pil rumeno rappresentava i guadagni fiscali derivanti dal commercio e dalle attività da delocalizzazione.

Vi sono però alcuni aspetti che limitano la sostenibilità nel tempo della delocalizzazione per i Paesi che la attuano, rivelandone la natura di strategia di breve periodo. La scelta del miglioramento della competitività attraverso la razionalizzazione dei costi di produzione, del costo del lavoro principalmente, ne ha escluso un'altra certamente più onerosa, ma anche più duratura: il miglioramento della qualità dei beni attraverso gli investimenti produttivi.

Sebbene il 59 per cento delle imprese che hanno delocalizzato in una recente indagine abbia dichiarato come beneficio atteso non più i bassi salari, ma il miglioramento della qualità dei beni e dei servizi offerti, il momento congiunturale non favorevole ha certamente contribuito a scoraggiare queste aspettative e la presenza di consistenti differenziali salariali è stata un propulsore più decisivo rispetto alle politiche monetarie favorevoli che, rendendo i tassi di interesse i più bassi dalla Seconda Guerra Mondiale, hanno agevolato le possibilità di investimento.

La prospettiva di adesione all'Unione Europea ha costretto i Paesi Candidati a imboccare il sentiero del miglioramento economico ed istituzionale, creando l'ambiente favorevole alle imprese dell'Europa Occidentale.

Perciò bisogna tenere conto del fatto che la convergenza non sarà solamente nei benefici dell'attività di impresa, ma anche nei costi: produttività e salari si armonizzeranno e, dopo l'adesione, l'Unione Europea non tollererà più la presenza di eventuali accordi collusivi tra imprese delocalizzate per tenere bassi i salari.

Molti osservatori concordano sul fatto che il differenziale salariale verrà gradualmente colmato, vi è soltanto l'incertezza in merito ai tempi di questo fenomeno (durante il processo di adesione oppure quanti anni dopo l'avvenuta adesione?) e proprio sui tempi si gioca l'efficienza della strategia di delocalizzazione.

Per l'Italia, che ha cominciato a delocalizzare più tardi rispetto alla Germania ad esempio, il problema si fa ancora più urgente, anche perché il caso italiano sembrerebbe più strettamente connesso con una logica di breve periodo, tendente all'esclusivo sfruttamento del basso costo del lavoro. Di contro, le imprese tedesche hanno mostrato la tendenza a rimanere all'estero, attivando miglioramenti qualitativi, anche quando sul mercato mondiale cominciavano a comparire Paesi con un costo del lavoro ancora più basso.

Quando la convergenza sarà completa e se la concorrenza di altri paesi come la Cina sarà ancora forte, il problema di come farvi fronte si riproporrà negli stessi termini. Solo che, forti dell'esperienza, le imprese dovrebbero avere già abbandonato la logica di quella che è stata definita come "delocalizzazione stracciona" basata sullo sfruttamento del basso costo del lavoro e dalle prospettive necessariamente di corto respiro, per valutare poi le strategie migliori per resistere e migliorare nel contesto sempre più complesso dell'economia mondiale.

*Cristian Roner collabora con Osservatorio sui Balcani

I due articoli precedenti:

Il purgatorio della transizione: il caso della Romania

La sfida dell'inflazione

Vedi anche:

Timisoara, capitale del Nordest

Romania: immobiliare, un mercato italiano

Delocalizzazione ad est: la manodopera slovena è troppo cara