Difficile da leggere, bello da scoprire. Dalla premio Nobel per la letteratura 2009 il racconto di quattro giovani della minoranza tedesca nella Romania anni Ottanta. Un romanzo sull'angheria ottusa del regime, in un paese che oggi è parte della costruzione europea. Nostra recensione
E' difficile entrare nel mondo di Herta Müller. Un mondo di paure e gesti rarefatti, di personaggi silenziosi che hanno appreso a sopravvivere sotto uno dei regimi comunisti più permeanti e paranoici. "Il paese delle prugne verdi" è la Romania degli anni Ottanta, un sistema in dissoluzione eppure fieramente aggrappato al proprio potere. I personaggi sono quattro giovani della minoranza tedesca, controllati e angariati dalla Securitate proprio per il loro essere diversi. E per la storia dei loro nonni, molti arruolati nelle SS naziste. "Un sorriso svevo era come il padre che non mi potevo scegliere. Come la madre, che non volevo avere" (pag. 87-88).
La scrittura è quella della Premio Nobel per la letteratura 2009, anche lei rumena di lingua tedesca. Una scrittura arroccata e tagliente, difficile da approcciare tanto che alle prime pagine il lettore potrebbe scoraggiarsi. E con lui probabilmente la traduttrice, a cui vanno i complimenti insieme all'editore, per il coraggio di scommettere su un'autrice poco nota in Italia prima del riconoscimento da Stoccolma. Ma è proprio il linguaggio angusto una delle chiavi più interessanti del libro, forma che si fa sostanza nel rappresentare il mondo chiuso e senza respiro imposto da Ceausescu. "La guardia si mise davanti alle suole delle scarpe del morto e infilò le mani nelle tasche del suo cappotto. Il cappotto odorava di nuovo, salato e unto, come le stoffe impregnate dei negozi. Aveva maniche troppo corte, come tutte le unità di misura delle guardie. Il cappotto della guardia era presente. Solo gli occhi sotto il berretto erano assenti" (pag. 122).
La protagonista narra in prima persona la propria storia, ed è facile immaginare che la Müller ci metta parte della sua biografia. Ma colpisce il distacco, quasi l'apatia con cui ne parla. "Schiacciavamo tante cose con le parole in bocca quante coi piedi nel prato. Ma anche col silenzio. Edgar taceva. Non riesco a immaginarmi alcuna tomba, oggi. Solo una cintura, una finestra, una noce e una fune. Ogni morte per me è come un sacco". Emozioni e desideri vanno repressi, sbocciano solo tra rari amici fidati. In pubblico resta lo scorrere atono della quotidianità: studentato, università, fabbrica, partito... tutti luoghi dove annullarsi per sopravvivere.
Chi non pensa vive, è la lezione che si trae sul comunismo incarnato nel Novecento. Peccato che la protagonista e i suoi tre amici osino pensare, se non altro per mantenere la loro diversità germanofona. Attirano perciò l'attenzione della polizia segreta, con il suo campionario di interrogatori, pedinamenti, perquisizioni, intimidazioni, sequestri fino al sospetto omicidio. Ma senza invettive o moralismi, piuttosto un'agghiacciante compostezza, l'ineluttabilità di un sistema che si fa destino di tutti.
Dentro il sistema, appare poco a poco in controluce la resistenza minuta dei singoli. Banale, ordinaria, più per sopravvivenza che per ideali. I finti turisti che vanno all'estero per commerciare ogni tipo di bene, da nascondere in frontiera con stratagemmi vari. Quelli che cercano la fuga tra i campi, sui treni merci o attraverso il Danubio. Quelli che rubano gli scarti della fabbrica per piccoli baratti. Resistenza e furtivi ammiccamenti: "Ogni giorno si sentivano voci sulle vecchie e nuove malattie del dittatore. Cui non credeva nessuno. Infatti tutti bisbigliavano nell'orecchio di un altro. Anche noi trasmettevamo le notizie, come se dentro ci fosse il virus strisciante della morte, che alla fine avrebbe comunque raggiunto il dittatore" (pag. 72).
Non è solo l'assenza di libertà politica a pesare. Tutto il modello economico e sociale rumeno si mostra in crisi: i protagonisti sono giovani che il sistema ha accompagnato all'università, ma incapaci di dialogo con i genitori contadini. La rottura tra città e campagna, lo sconquasso dell'industrializzazione forzata e l'imposizione del socialismo proletario - con l'ideologia egualitaria ma l'effettiva realtà dei privilegiati di regime - creano nei rumeni altrettanta inquietudine della polizia segreta. E una forma di lotta implicita, il lavoro rallentato. "Seguii con lo sguardo gli uomini di Lola, che a mezzogiorno tornavano dal primo turno nelle fabbriche. Erano contadini presi dai villaggi. Non più pecore, avevano detto, non più meloni. Come folli avevano inseguito la fuliggine della città .... Gli uomini sapevano che il loro ferro, il loro legno, la loro polvere di detersivo non contavano nulla. Perciò le loro mani rimanevano tozze, producevano ceppi e rottami piuttosto che industria" (pag. 40-41).
Protagonista del libro è una donna. Con lei la Müller ci racconta la fatica ulteriore di vivere in un paese profondamente maschilista. E la doppia insidia del capitano Pjele, aguzzino della Securitate e insieme figura vicina ad un padre-padrone che richiama alla moralità la giovane deviante. In lui riecheggia qualche tratto del capitano Wiesler in "Le vite degli altri", compresa l'amara umanizzazione finale come nonno che compra le paste al nipotino. Eppure di quanti ex capitani Pjele è fatto il presente della Romania capitalista?
E' questa la domanda che mi resta dopo la lettura. Le pagine finali vedono la protagonista esule in Germania, ma anche lì chiusa agli altri per l'incomprensione che molti hanno della realtà da cui proviene. Non credo vada meglio oggi, con la vecchia Europa che ha accolto buona parte dell'est post-comunista. Ma ancora non l'ha capito. Nei meccanismi di privatizzazione dello spazio pubblico come nel rispondere meglio alla logica della forza (atlantica) anziché alla forza della logica (continentale). Nel suo passato che inficia ancora il presente, spargendo apatia - si vedano le percentuali di voto alle scorse elezioni europee - e rigurgiti nazionalisti. Un romanzo storico, dunque, ma che aiuta a capire il presente. "Cosa vuole quello da voi, domandò Teresa. Paura, dissi" (pag. 149).