Alcuni giorni trascorsi nel nord-est della Romania, in macchina, a rincorrere i binari dei treni... Riceviamo e volentieri pubblichiamo

21/01/2015 -  Marco Carlone

Un breve siparietto alla dogana (il non-certo-smilzo poliziotto che legge Corleone al posto di Carlone sulla mia carta d’identità, seguito da finte risate e pacche sulle spalle) e ci si spalancano dinanzi le porte dell’antica Dacia. In realtà è tutto esattamente uguale all’Ungheria, non fosse per i cartelli diversi e per i nomi meno impronunciabili.

La strada che prendiamo porta ad Arad, una delle città più importanti della Romania nord-occidentale, e man mano che ci si avvicina alla città ci si rende conto che Romania ed Ungheria son sì simili, ma forse nemmeno troppo. Il paesaggio si fa un po’ più scarno, a tratti più disordinato, i veicoli non sono proprio gli ultimi modelli in circolazione e soprattutto le strade peggiorano vistosamente. C’è un caldo terribile e – non essendoci autostrade – sulla statale che fa da circonvallazione alla città c’è una coda terribile. Una prima curiosa caratteristica è che in tutto questo caos di tir, auto, bus e bici che si incastrano confusamente dalle strade incrocianti, ci pensa anche la ferrovia a complicare il tutto con un attraversamento a raso totalmente privo di una qualsiasi sbarra, passaggio a livello o segnale acustico. Una semplice croce di sant’Andrea e tante tante dita incrociate.

Usciamo da questo delirio in direzione est alla ricerca di un posto dove dormire. Bisogna dire che non è stato proprio un inizio col botto in quanto il posto non si presenta al meglio, ed invece quando tutto sembra mettersi al peggio ecco che la signora Maria della pensione Dulce Ambient, tira fuori una stanza da 4 stelle pulita, profumata, comodissima e confortevole per circa 7 euro a testa. Qui a Paulis non c’è molto, se non la statale Arad – Resto-della-Romania, la stazione ed uno spartano hotel-benzinaio-supermarket-trattoria-bar frequentato principalmente da camionisti turchi e bulgari di passaggio. Qua ci gustiamo una ottima e succulenta ciorbă di vitello e verdure (tipica zuppa del luogo, ndr), a cui segue un pollo magistrale con patate fritte in oli esausti e un dolce che più dolce non si può. 6 euri a cranio.

La sera scende tranquilla e noi ce la prendiamo con calma: decidiamo infatti di abbandonare l’idea di raggiungere Sibiu e Brașov in macchina. Non siamo sulle autostrade tedesche: qua i tempi di percorrenza sono decuplicati dallo stato dell’asfalto, dai trattori, dai carretti e dagli innumerevoli imprevisti che ovunque si palesano. Molto meglio fare le cose con calma ed esplorare in maniera più approfondita questa fetta di terra.

22 luglio

Stamattina è la pioggia a svegliarci. Viene giù convinta, e nonostante non sia l’ideale per una giornata fotografica, crea un’atmosfera suggestiva. Noi si torna ad Arad, precisamente alla stazione centrale. Troviamo una colata di cemento ed acciaio (sono in corso pesanti lavori di rifacimento della stazione sovvenzionati dall’UE in quanto la città si trova lungo un corridoio internazionale) ed un ambiente non proprio ridente. Sarà il brutto tempo…

Mi siedo sulle panchine del primo binario mentre guardo arrivare lento una vecchia – vecchissima, un vero e proprio pezzo d’antiquariato – automotrice da Oradea. Scendono molte più persone rispetto alle mie aspettative, tra cui una famiglia rom con bambini indiavolati. La più piccola della truppa appena mi becca a mangiare il pessimo croissant confezionato che ho da poco comprato, mi si lancia addosso chiedendomi – suppongo – di regalarglielo. Di tutta risposta una distinta signora scesa poco prima adocchia tutta la scena, viene verso la ragazzina e le tira una pesante manata sul collo dicendole – suppongo – di non importunarmi. La figliola non sembra nemmeno accorgersi della scoppola e rimane impietrita davanti a me continuando a puntare la sua preda. Le faccio segno che se vuole ho anche altri dolci ancora impacchettati, anche se sono meno appetitosi. No, lei indica il mio croissant, nonostante ne abbia già magnata una buona metà. Beh, a questo punto non posso che premiare la sua tenacia, e nel preciso istante in cui le porgo il prezioso malloppo, se ne scappa via cacciandoselo sospettosamente in tasca, lontano dagli occhi indiscreti dei fratelli.

La pioggia insiste, ma verso est si vede uno squarcio nel cielo. Zompiamo sulla vettura riattraversando Arad (che non è proprio una delle città più maestose che abbia visto, nonostante si subodori qualcosa di asburgico nei palazzi del centro) e finiamo nella ridente località di Radna. Qui termina la grande pianura – ed è veramente grande, visto che in un raggio di 500 km le alture più rilevanti sono i cavalcavia costruiti sopra le autostrade – ed il paesaggio si movimenta un po’.

Da questa amena località parte una ferrovia secondaria per Timişoara che cattura la nostra attenzione. Imbocchiamo una strada provinciale (poco più che uno sterrato) attraversando una campagna rustica e gradevole, contornata da colline molto dolci e verdeggianti. Ogni tanto si incrocia il classico villaggio ”case-chiesa-negozietto-case”, dopodiché si ritorna a curvare tra i campi. Guardando verso Est l’orizzonte ondulato sembra disegnato, mentre ad Ovest si inizia a scorgere il capoluogo della Romania occidentale. Scegliamo un paese a caso per fare due passi: Giarmata. Come sempre ci sono più oche che persone in giro, finiamo nella minuta stazione per guardare gli orari dei treni e ci accorgiamo – con non poco stupore – che in una stanzetta grande poco più di un tavolo, c’è un annoiato bigliettaio al lavoro. Un servizio niente male per una stazione in cui fermano poco più di tre treni al giorno. Eloquente e legittima la sua espressione di stupore, quando vede tre stranieri armeggiare con macchine fotografiche ed affini in un simile bugigattolo. Immortaliamo la sala d’attesa decisamente spartana, salutiamo il gentile ferroviere e zompiamo nuovamente in vettura per approdare in città.

A Timişoara ci arriviamo da est, con un tempo da lupi. L’ingresso in città è decisamente particolare: una gigantesca scritta in cemento blu sovrasta le 4 corsie della strada che si butta in centro. La mano del vecchio dittatore ancora si scorge nelle periferie della città, costellate da orripilanti blocchi in cemento che dovrebbero essere condomini. È tardi e la stanchezza si fa sentire, così ci si rifugia in un confortevole hotel dove si magna tanto e bene. Dall’alto del nostro 4° piano vediamo un pesante temporale abbattersi sulla Serbia, ma siam troppo stanchi per potercelo godere.

23 luglio

Il risveglio è fresco ed immerso nella nebbia. La colazione delle 7 è fin troppo ricca (soprattutto di formaggi, salumi un po’ chimici e nauseanti cetrioli) e, ristorati dal sonno, decidiamo di inoltrarci tra i villaggi ad Est della città. Nel solito tran-tran di oche, strade sterrate e carretti, ci perdiamo nuovamente in mezzo ai campi. A Topolovăţu Mare il paese è letteralmente in tilt per un mercatino di vestiti usati, pannocchie, capre, stivali da caccia e quant’altro. I carretti impediscono il transito dei mezzi più ingombranti e i poliziotti dirigono il traffico in un fortissimo vociare.

La nebbia nel frattempo diventa pioggia e ci stacchiamo dalla strada principale per vagare tra gli sterrati. Dopo qualche chilometro appare un mucchietto di case, popolato da oche, maiali, cani e vecchine sedute sull’unica panchina del ”centro”. Definire sbigottito il loro sguardo è riduttivo. Proseguiamo oltre cozzando contro un vero e proprio paese abitato esclusivamente da rom, poi contro un altro dove invece la percentuale è 50 e 50. Le condizioni di alcune case sono veramente pessime, talune sembrano bombardate. Non è la prima volta che vediamo scenari simili da queste parti, e non riusciamo a coprirci gli occhi davanti alla controversa questione degli abitanti rom.

A Satu Nou la ”stazione” è abitata da una famiglia rom, ha il tetto crollato e nel giardino i figli di tre e quattro anni giocano nel fango con le galline. La mamma espone cocomeri e verdura dell’orto sulla strada. Parlando con i locali si percepisce chiaramente come i rom rappresentino un argomento spinoso, molti ne prendono le distanze sottolineando che l’immagine del paese rimane danneggiata dall’associazione d’idee Romania = rom. E ce lo dicono sempre con un tono che sottointende: “Quando tornate a casa, dite ai vostri concittadini che non siamo equiparabili, che non siamo la stessa cosa“. Guardandosi in giro non si può negare l’evidenza: il degrado c’è, l’isolamento pure. Viceversa, in molti villaggi c’è un buon mixage che pare spontaneo: i bambini giocano insieme senza che i genitori dei ”Romeni” vadano a tirar via i propri pargoli dalle grinfie dei “rom“, si chiacchiera insieme sotto gli alberi senza farsi grandi interrogativi sul ″colore della pelle″… Giriamo nei campi con macchine fotografiche al collo ed i “loro” pastori non vengono certo ad infastidirci. Sappiamo non essere sufficiente un viaggio rapido come questo per comprendere appieno una questione così intricata; noi ci limitiamo a riportare le cose che abbiamo visto, considerando ambedue facce della stessa medaglia.

Tornando a noi, un frugale pranzo e poi via, verso Jimbolia. La località non è di certo famosa ai più per questo motivo, però sulla linea Jimbolia – Timişoara circolano ancora delle coriacee automotrici costruite in Romania alla fine degli Anni Trenta e chiamate Malaxa. Corrono ininterrottamente su questi binari da 75 (si, 75) anni: la curiosità di vederle all’opera è veramente alta, visto che noi di anni non ne abbiamo manco 30 e non ci sono dubbi su chi li porti meglio tra noi e loro… Fotograferemo le nostre beniamine solo al secondo tentativo, prima, ci capiteranno sotto tiro le tedesche Ferkeltaxe. Queste sono automotrici tedesche di seconda (o terza) mano, costruite nel 1960 e rivendute per due lire alle ferrovie Romene. In realtà questo non è un caso sporadico, visto che in Romania è pieno di treni perfettamente funzionanti comprati dagli stati più ”ricchi” (Francia, Inghilterra, Danimarca…). È già tanto che non ci sia ancora l’indicazione con il cartello Leipzig Hauptbahnhof, sul treno che fotografiamo…A Lovrin il grasso macchinista in salopette scende dal treno e si scofana un cocomero intero in compagnia di un cane randagio a cui toccano le croste. Il treno che si porta appresso è composto da vetture francesi riciclate e da una sbuffante locomotiva Diesel che sa di catrame. Davanti al marciapiede del binario 1, una vecchietta coltiva il suo rigoglioso orticello. E non sarà casuale il fatto che abbia appeso – precisamente sui suoi paffuti pomodori – un cartello con su scritto ”in vendita, 4 Lei al kg”. Un punto vendita ”on-the-rails” decisamente a chilometro zero.

Siamo quasi al termine della nostra visita in terra romena, e – azzardiamo – di nuovo la ferrovia ci aiuta a capire meglio il paese intero. Le efficienti connessioni ad alta velocità sono ancora un miraggio da queste parti, non sono ancora praticamente concepite. I treni regionali sono lentissimi, spartani ma confortevoli, economici ma capillari. Nonostante ciò, non c’è fermata sperduta che non veda passeggeri scendere anche negli orari più impensabili. Vecchi come bambini, cani come galline, salgono imperterriti su questi vecchi scassoni: il treno è ancora un mezzo vivo, che ricopre un ruolo importante sul territorio e offre posti di lavoro (probabilmente fin troppi per le traballanti tasche delle Ferrovie Romene CFR). Ci fa riflettere il fatto che nella fermata di Clarii Vii (composta da due sole assi di legno e circondata da ben sei case sparse in un raggio di almeno 5 chilometri) scenda una famiglia intera composta da madre, padre, nonni, figli, bici, cani e due sacchi di patate. Pare proprio che il cavallo di ferro non sia un folkloristico orpello, ma un’ancora di salvezza nel traballante sistema dei trasporti locali. Non a caso in passato i paesi lottavano con le unghie e con i denti per avere una linea ferroviaria che passasse sul proprio suolo…Il tempo purtroppo è tiranno, e anche se vorremmo fermarci ben più a lungo su questi lidi, dobbiamo valicare metaforicamente i confini dell’Unione Europea e spingerci oltre.

Come ormai consuetudine, dopo aver sbagliato strada (questa volta la frontiera è ad esclusivo uso degli autoctoni) riecco un’altra dogana, altri controlli. I toni sono però meno amichevoli sta volta, e scopriremo nostro malgrado da subito che questo sarà il filo conduttore dei giorni a venire…

 

Marco Carlone cura il blog Ferroviaggi