“Per chi crescono le rose” è il titolo del romanzo di Ingrid Beatrice Coman, ambientato in una piccola cittadina della Moldavia romena negli ultimi mesi di vita del regime comunista di Nicolae Ceauşescu. Una storia d'amore dove il filo rosso che unisce tutti gli intrecci è la rivoluzione interna, interiore che matura nella psicologia dei personaggi
“Quanto tempo deve scorrere per mettersi alla pari con i propri ricordi, dimenticare le cose che ci hanno ferito e guarire dal proprio passato? Un anno? Due? Venti? Mi sono fatta la domanda allora, appena la rivoluzione dell’89 aveva sconvolto e spolverato tutte le certezze del mio mondo ancora adolescente e poi l’ho portata con me, nel tempo e nel mio pellegrinare in giro per il mondo. Vent’anni dopo non avevo ancora la risposta e cominciavo a chiedermi se non era, forse, tutto perduto e se non era meglio lasciarli là dov’erano, nel loro passato senza senso. Avrei girato lo sguardo da un’altra parte e forse se ne sarebbero andati da soli”.
Così Ingrid Beatrice Coman nella prefazione di “Per chi crescono le rose”, romanzo uscito recentemente per i tipi di Uroboros, neonata casa editrice milanese che attraverso la collana Bookarest si propone di fare conoscere in Italia la letteratura dei Paesi entrati da poco nell’Unione europea.
Il libro della Coman, romena ma formatasi letterariamente in Italia alla scuola dello scrittore Raul Montanari e alla Holden di Torino, è una storia d’amore che si svolge in una piccola cittadina della Moldavia negli ultimi mesi di vita del regime comunista di Nicolae Ceauşescu.
Catalin, giovane insegnante passato attraverso militanza politica e vicissitudini amorose e Magda, studentessa poco più che adolescente dal cuore ribelle, figlia di un dissidente rinchiuso in un ospedale psichiatrico dalla Securitate, la spietata polizia di stato, sono i protagonisti di una vicenda che al di là dell’aspetto sentimentale ricostruisce un momento storico chiave della Romania, finora trascurato dall’indagine storiografica. Quello della caduta del regime di Ceauşescu. Soffermarsi su questo tema è importante anche alla luce di ciò che la Coman scrive nella prefazione, rivelando tra l’altro oltre a un sentimento di pietas cristiana, uno straordinario acume
“… è mia convinzione che il popolo romeno non si dà ancora pace per quel Natale crudele di vent’anni fa, quando per un giorno ci siamo inventati carnefici e siamo diventati come quelli che più odiavamo. E che gusto amaro aveva la nostra vendetta!”
Comunismo nazionale vs comunismo sovietico
Luca Bistolfi, nella postfazione al romanzo, sottolinea come gli eventi che portarono alla caduta di Ceauşescu, alla sua fucilazione e all’insediamento di Iliescu, andrebbero riscritti tenendo conto del ruolo esercitato da Mosca e dai suoi servizi segreti. Ion Iliescu, uomo del Cremlino sin dagli anni ’30 ed ex numero due del regime – racconta un giornalista inviato a Bucarest in quei giorni – aveva dato mandato alle brigate di minatori di reprimere con le loro asce da lavoro i moti degli studenti e degli operai che chiedevano una vera democrazia e non una nuova versione del regime di Ceauşescu.
“… studenti e operai erano in rivolta contro il regime filorusso che aveva fatto uscire dalle loro baracche le milizie armate di machete: erano giganteschi uomini neri, analfabeti, violentissimi, abituati a costituire la mano armata del regime. Scorrazzavano per Bucarest, picchiando, torturando, stuprando e uccidendo studenti, spargendo il terrore e soffocavano la rivolta”.
Il ricordo del giornalista aggiunge Bistolfi coincide con quanto scriverà Paolo Guzzanti, rievocando le proteste di qualche mese più tardi, sedate dai minatori, contro “la nuova democrazia”, nel libro Guzzanti vs De Benedetti:
“… le agenzie di stampa di Bucarest davano tutt’altre notizie: i minatori erano descritti come patrioti forse un po’ troppo entusiasti, gli studenti e i cittadini come nemici della rinnovata democrazia. Non era facile capire che i giornalisti locali che scrivevano per le agenzie internazionali erano semplicemente al soldo del regime e davano notizie false o manipolate”.
Tra il 13 e il 15 giugno 1990 si conclude tragicamente una delle più lunghe manifestazioni anticomuniste della storia. Dopo 53 giorni di protesta Ion Iliescu, decide di reprimere nel sangue – il bilancio fu di 6 morti e 500 feriti – le proteste di civili e studenti che denunciavano i brogli elettorali che avevano permesso all’ex burocrate del regime di diventare il nuovo capo dello Stato sconfiggendo il liberale Radu Câmpeanu e il nazional-contadino Ion Ratiu. Che le elezioni fossero state una vera e propria farsa lo dimostra anche l’atteggiamento tenuto da molte cancellerie internazionali. L’ambasciatore americano per esempio si rifiutò di partecipare alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente della repubblica.
La rivoluzione lenta
Se la cornice storica del lavoro della Coman è quella testé descritta, ossia quella relativa agli ultimi mesi di vita del regime di Ceauşescu, il vero leit-motiv del romanzo, il filo rosso che unisce tutte le storie che si intrecciano sullo sfondo di quella principale, è la rivoluzione interna, interiore che matura nella psicologia dei personaggi.
Emblematica in tal senso la figura di Stefan, figlio di un potente funzionario della Securitate, che dopo aver fatto imprigionare con l’intervento del padre Catalin, suo rivale in amore, riesce alla fine a riscattare la sua vita di soprusi privilegi liberando lui stesso Catalin e Magda.
Il vento rivoluzionario che investe Stefan è tutto interiore. Nasce dalla riflessione sulla brutalità dei comportamenti del padre nei confronti della madre, picchiata, malmenata e trattata alla stregua di una bestia.
“Forse aveva ragione Magda. Si era abituato a prendersi ogni cosa senza capire che in realtà gli era sfuggito tutto. Non c’era amore nella sua casa e nella sua vita, ma solo prepotenza e brutalità. Il suo migliore vestito firmato e la sua macchina nuova di zecca non valevano una semplice e sincera stretta di mano che invece non aveva mai conosciuto”.
Alla fine – ricorda la Coman – tutti hanno avuto la loro fetta di storia e di dolore.
Il più alto insegnamento di questo libro, a tratti struggente nel suo indagare l’animo umano, è che la grande infinita sfida tra il bene e il male non avviene sui campi di battaglia, bensì nel profondo di ognuno di noi.