Una scrittrice rumena in visita all'edizione 2017 del Salone del libro di Torino. Il suo racconto
(Pubblicato originariamente su Observator Cultural , il 2 giugno 2017)
“Una ragazza, un libro, un muro, un orizzonte” sono le quattro parole con cui si potrebbe descrivere l’immagine emblematica scelta dagli organizzatori del Salone del Libro di Torino di quest’anno. Quando ho indicato la mia destinazione al tassista che mi avrebbe portato da Porta Nuova a Lingotto Fiere, lo spazio dove si tiene il Salone, mi è stato subito chiesto cosa ne pensassi dell’aggressiva concorrenza che Milano aveva deciso di fare alla fiera torinese, giunta alla trentesima edizione.
Confesso sinceramente che non avevo alcun parere al riguardo, né avevo idea di quale delicata questione fosse divenuta per gli abitanti di Torino il progetto milanese di spostare un gran numero di editori e indurli a preferire la loro città, che molti stranieri associano soprattutto alla Moda e al Duomo.
Soltanto arrivata in fiera ho cominciato a carpire qualcosa riguardo a interessi politici, ingerenze berlusconiane, all’assenza della casa editrice Bompiani dalla fiera, il tutto ascoltando conversazioni off the record. Ma il momento culminante del dibattito sull’argomento, davvero caldo in questa edizione, è stato la presentazione del libro Questa non è l’America in Sala Gialla, che ha una capienza di 600 posti. Autore del libro: Alan Friedman. Seduto tra Piero Fassino (uno dei principali “costruttori” del Salone) e Maurizio Molinari (direttore de La Stampa), al suo primo intervento il celebre giornalista americano ha reso un omaggio emozionante al Salone del Libro. Semplificando fino all’iperbole, le sue parole sono state: “Il vero Salone del Libro è a Torino”, e Milano non potrà mai cancellare la tradizione, la serietà, il fascino e il grande impatto internazionale, tratti caratteristici di questo grande evento dedicato ai libri che si svolge nel mese di maggio nel generoso e versatile spazio del Lingotto Fiere.
Solo dopo questo sostegno esplicito ed affettuoso, applaudito empaticamente da centinaia di spettatori, si è passati a parlare del tema del libro. Il messaggio centrale sarebbe questo: l’America di Trump non è, e non può essere l’America reale. E questo a dispetto della forza manipolatrice, dell’alta percentuale di elettori che crede tutto quel che gli viene propinato, della riproduzione immediata e supina di messaggi costruiti su basi facilmente identificabili; del resto, gli Stati Uniti non sono l’unico paese in cui i messaggi elettorali fabbricati con artifizio sull’onda di paure collettive riscuotono un sicuro successo populista. “La presa sul pubblico” ce l’hanno, sempre più spesso, quegli esponenti politici che danno continuamente spettacolo. Quale sia il livello d’istruzione di coloro che li votano è stato un altro degli interrogativi affrontati.
L’attenzione è poi passata al personaggio di Donald Trump, che Alan Friedman conosce bene da molti anni, e che ha descritto come un tipo incapace di concentrarsi sullo stesso argomento per più di due minuti. L’attuale presidente ha il “merito” di aver provocato una spaccatura del popolo americano senza precedenti. È riuscito a fidelizzarne una parte tanto consistente (oltre il 45%) che, afferma il giornalista, costoro “sono in grado di credere a chi mostra loro un telefono spacciandolo per coltello, o a chi dice loro che Obama è un criminale”.
Ma il caos è all’ordine del giorno non soltanto negli USA. È palese che anche l’Europa ha i suoi problemi e questa situazione durerà ancora, secondo Friedman, “almeno cinque o dieci anni”. La democrazia liberale è in piena crisi; a complicare le cose, il farraginoso funzionamento dei parlamenti degli stati europei, colti alla sprovvista da eventi di grande portata e inadeguati alla rapidità con cui le informazioni si diffondono online.
È a partire da libri del genere che le fiere del libro europee creano spazi di dibattito in grado di generare pubblico, un pubblico che a sua volta coinvolge ulteriori partecipanti che acquistano libri. Il singolo stand o la singola presentazione allo stand di un editore non costituiscono più l’evento di primo piano. I visitatori cercano sale dove incontrare i libri, gli autori, i responsabili degli eventi, gli editori, i traduttori.
L’Istituto Culturale Romeno, tramite la sua filiale di Venezia, che per tradizione organizza la partecipazione della Romania al Salone di Torino, ha inteso creare una “Sala Romania”, idea felice poiché quel che fanno i visitatori avvisati è consultare in primo luogo il programma stampato dagli organizzatori, ovvero quel che accade nelle varie Sale. Da lì, vanno via non solo pieni di libri, ma anche di idee, punti di vista, domande, a volte persino risposte, cose difficilmente accessibili agli stand, per via della ressa e del rumore di fondo.
Con una superficie estremamente generosa di oltre 120 mq, uno spazio-scena (pubblico/emittenti-riceventi) circondato da entrambi i lati da scaffali con i libri proposti, la Sala Romania è stata il vero fulcro degli eventi di questa edizione. La filiale veneziana dell’ICR – denominazione completa: Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica –riesce a portare in molti eventi un’atmosfera accademica e rigorosa, proponendo tuttavia anche temi, libri e autori in grado di catturare dall’inizio alla fine l’attenzione di visitatori provenienti, tra l’altro, dalla numerosa comunità romena del Piemonte. Tale cura per il pubblico-destinatario, che caratterizza ogni evento del programma, è e deve essere prioritaria. Infatti, al di là della pura sequela di proposte editoriali meritevoli, risultato di un assiduo lavoro di ricerca, è opportuno comprendere il fenomeno del pubblico in fiera e le sue caratteristiche. Ecco alcuni degli eventi ai quali ho potuto assistere: Trilogia della cultura. Presentazione del sistema filosofico di Lucian Blaga; Ritorno a Emil Cioran. Presentazione dei libri di Emil Cioran; I miei paradossi. Intervista con Leonhard Reinisch (ed. La scuola di Pitagora); Un’altra verità. Lettere a Linde Birk e Dieter Schlesak, 1969-1986 (edizioni Mimesis); La nascita di una potenza regionale. La Romania dopo la Grande Guerra. Incontro con Alberto Basciani…
Ho avuto poi il piacere di rivedere l’eccellente traduttrice di Alessandro Baricco, Gabriela Lungu, impegnata stavolta nel processo inverso, ovvero la traduzione dal romeno all’italiano. Così ho assistito anche alla presentazione del libro di Radu Țuculescu, Il nostro bravo Michele, pregevole iniziativa dell’editrice Aracne, che pubblica drammaturgia romena, in questo caso commedie brillanti. L’autore e la traduttrice sono stati presentati con verve ed entusiasmo da Dan Octavian Cepraga, docente di letteratura romena presso l’Università di Padova.
All’ingresso della Sala Blu, per vedere e ascoltare Mircea Cărtărescu, non c’erano naturalmente solo scrittori e giornalisti romeni, ma anche lettori italiani, che hanno atteso nella lunga fila con pazienza. A dire la verità, la sala, dotata di “soli” 150 posti, si è rivelata poco capiente, dato che il pubblico europeo del “nostro” scrittore affluisce copioso ormai da diversi anni, poiché la notorietà e la sostanza del personaggio danno vita a una vera e propria reazione a catena. Molti, infatti, vengono a vederlo perché ne hanno sentito parlare nei media (mi riferisco a quanto avviene fuori dalla Romania) e, dopo averlo visto e ascoltato, lo adottano e fanno il passaparola, aumentando il numero dei potenziali interessati alla sua letteratura. Ricordo che qualche anno fa, a Göteborg, la scrittrice Sofi Oksanen (che ammiro per come sa affrontare argomenti dei più vari e, tra l’altro, per l’anticonformismo nell’abbigliamento) era sullo stesso palco di Mircea Cărtărescu e si ritrovò messa un po’ in disparte, non perché l’autore romeno lo facesse espressamente, ma perché le risposte che lui forniva alle stesse identiche domande del presentatore suscitavano nelle centinaia di spettatori molti più applausi delle sue. Nel discorso di Cărtărescu c’è qualcosa di semplice che conquista, qualcosa di denso, di paradossale e sincero. Della traduzione del suo Abbacinante ha parlato – me lo si consenta - l’altra superstar della serata, il professor Bruno Mazzoni, colui che meriterebbe forse un angolo apposito nel Museo Nazionale della Letteratura Romena, per il contributo decisivo dato alla conoscenza della letteratura romena in Italia e non solo.
Quest’anno il mio soggiorno torinese non è stato molto lungo – il Salone avveniva nella stessa settimana dell’anniversario del PEN Club Romania - ma abbastanza da poter partecipare ad alcuni eventi, vedere i miglioramenti rispetto alle altre edizioni (più sale insonorizzate, più spazio per gli atelier dedicati ai bambini, una sala stampa dove Internet, diversamente da quanto in genere accade in Italia, funzionava secondo parametri normali, almeno qui). E abbastanza per poter ammirare il logo di quest’anno: “Una ragazza, un libro, un muro, un orizzonte”.
* Mariana Gorczyca è scrittrice e giornalista. Autrice di romanzi, versi e racconti, la sua opera principale è Parcurs (Percorso, edizioni Eikon 2013), originale romanzo in cui il gioco del golf diventa metafora della vita.
Traduzione dal romeno di Anita Natascia Bernacchia