Due ragazze a Bucarest nel 2020 (© Mircea Iancu/Shutterstock)

Due ragazze a Bucarest nel 2020 (© Mircea Iancu/Shutterstock)

Cătălina e Vladi appartengono alla generazione che non ha finito la scuola superiore seguendo il modus operandi classico, e poi ha dovuto affrontare questo “anno strano”, come dice Vladi. “L’anno universitario non ha avuto una vera fine e, allo stesso tempo, non ha mai avuto un vero inizio”

18/06/2021 -  Nicoleta Coșoreanu

(Pubblicato originariamente da Voxeurop il 10 giugno, traduzione di Anna Bissanti)

Nel gennaio di quest’anno, quasi quattro mesi dopo aver iniziato a studiare Comunicazione e relazioni pubbliche all’università “Babeș Bolyai” di Cluj-Napoca, Vladimir Ciobanu ha finalmente potuto conoscere i suoi compagni di corso. È accaduto dopo che la sua amica, Cătălina Perju è andata a casa sua per tingergli i capelli di biondo – un cambiamento d’immagine radicale – e ha postato alcune foto su una story di Instagram. Vladi ha continuato a conversare con chi aveva commentato il suo post ed ha scoperto che una ragazza del suo corso viveva non lontano dal suo quartiere.

Vladi e Cătălina si conoscono dalle superiori: erano compagni di classe a Bucarest, sono diventati grandi amici e l’anno scorso hanno deciso di iscriversi insieme all’università di Cluj-Napoca. Cătălina studia giornalismo a “Babeș”. Solo due settimane prima che avessero inizio i corsi, però, i due hanno scoperto che la didattica del primo semestre sarebbe stata online a causa della pandemia, così come poi per il secondo semestre. Vladi aveva già preso in affitto un appartamento a Cluj-Napoca e ha deciso di rimanere, mentre Cătălina – che in un primo tempo aveva pianificato di sistemarsi nel campus – è tornata a Bucarest. “Avevamo previsto di essere insieme a Cluj sin dall’inizio e ci sembrava strano essere separati”, dice.

In Romania ogni università è stata libera di decidere se tenere lezioni in presenza o a distanza. La maggior parte ha scelto la seconda opzione. Se non altro, c’è stata una certa continuità rispetto alla scuole che non hanno fatto altro che alternare la didattica in presenza a quella online a seconda dell’instabile andamento epidemiologico. Quello che è certo, invece, sono i problemi di fondo del sistema universitario, messi in luce dalla situazione. Un problema particolare è stato quello della disponibilità di camere nei campus studenteschi. Ogni anno sono quasi 100mila gli studenti che scelgono questa soluzione, perché si tratta di un’alternativa più economica rispetto all’affitto di appartamenti e, allo stesso tempo, offre maggiori possibilità di socializzazione.

A causa del Covid-19, la disponibilità di camere è stata fortemente ridotta per rispettare le norme sul distanziamento. Al “Babeș Bolyai”, per esempio, soltanto 1.800 camere su 6.700 erano ancora disponibili, la maggior parte delle quali era destinata agli studenti stranieri o chi frequenta i master e i dottorati di ricerca.

Gli studenti che avevano preso in affitto un alloggio prima della decisione degli atenei di tenere le lezioni online hanno perso i due mesi di caparra versati in anticipo. E molti hanno scelto di tornare a casa dai genitori.

Cătălina è riuscita a trovare una camera al campus soltanto nel febbraio di quest’anno. Dapprima non aveva voglia di decorarla, appendendo poster o spostando i mobili: le sembrava più un luogo di passaggio, un posto dove pernottare prima di tornare a Bucarest, nella casa dei genitori, dopo un tragitto di 6 ore in macchina oppure, peggio, un viaggio in treno di 12 ore. “Non ero del tutto presente o assente”, dice Cătălina. Sola e spaesata non sentiva suo quello spazio. È dagli studenti più grandi che ha sentito raccontare la “vera vita studentesca”. 

“Tutti ti raccontano che è il periodo più bello della vita, quello più pieno di avventure. Quando poi non si vive nulla del genere, si resta delusi, soprattutto perché non dipende da noi”, dice ancora Cătălina. Per Vladi, il primo anno di università ha voluto dire solitudine e uno schermo da fissare. “Mi è sembrato quasi di aver comprato un paio di corsi online e di averli lasciati andare in sottofondo, oppure di ascoltare un podcast. Per me il primo anno di università è stato questo”.

Da una parte, alcuni insegnanti non hanno adeguato i loro metodi alla didattica online. Vladi continua a sentir raccontare dagli studenti di come sia brava una professoressa che ha l’abitudine di portare dei dolcetti e di divertirli con lezioni interattive, ma tutto ciò che ha potuto vedere, per ora, sono delle slide lette a voce alta su Zoom. Il seminario, dice, dura appena venti minuti. Cătălina sperava di poter scrivere articoli veri, invece ha dovuto adeguarsi a scrivere pezzi basati sui video di YouTube o i tg. “L’unica cosa che potevo fare era intervistare la gente nel centro commerciale e scrivere pezzi sulle nostre camere che venivano allagate dopo i temporali”, dice.  

Uno studio fatto all'inizio della pandemia racconta che il 59 per cento degli studenti considerava i corsi online “peggiori” o “molto peggiori” di quelli in presenza. Tra le cause c’era la mancata interazione con i compagni e il fatto che gli studenti non potevano accedere alle biblioteche e dovevano svolgere più compiti da soli. Il 49 per cento ha avuto difficoltà a contattare il personale universitario per questioni amministrative e il 46 per cento ha detto che è stato più difficile comunicare con i professori.

Gli abusi dei docenti

Le lezioni online, però, hanno anche portato alla luce gli abusi dei docenti, accendendo un dibattito pubblico sulle loro responsabilità in campo educativo in Romania. Una professoressa dell’Università di Bucarest è stata licenziata dopo che sono circolati filmati nei quali insultava, umiliava e vessava i suoi studenti. Alla Facoltà di Medicina e farmacia di Bucarest è stata avviata un’inchiesta in seguito al caso di un professore che strillava e umiliava online i suoi allievi. Gli ex studenti di entrambi i professori hanno iniziato a raccontare di abusi che andavano avanti da anni.

È stato così possibile parlare, e documentare, il fatto che in Romania gli studenti hanno poca voce in capitolo, sia all’università sia nelle scuole di grado inferiore. Un altro studio condotto dal ministero dello Sport e della Gioventù dal 2018 al 2020 ha evidenziato un calo della fiducia da parte dei giovani nelle istituzioni dello stato, ma anche verso il prossimo. “La metà degli studenti più giovani pensa che sia meglio non fidarsi di nessuno e crede che nessuno si preoccupi della gente che ha intorno”, si legge nello studio. Questo circolo vizioso implica che le persone hanno minori probabilità di impegnarsi a livello sociale o per cercare di provocare un cambiamento.

Cătălina racconta una grande frustrazione per tante cose su cui non ha il controllo e, anche, il fatto che non le è stato chiesto niente in merito dall’anno scorso. All’epoca, stava terminando il liceo, ma non ha potuto esprimersi in merito alle modalità di attuazione degli esami nazionali. Lei e Vladi appartengono alla generazione che non ha finito la scuola seguendo il modus operandi classico, e poi ha dovuto affrontare questo “anno strano”, come dice Vladi. “L’anno scolastico non ha avuto una vera fine e, allo stesso tempo, non abbiamo avuto un vero inizio”, dice.

Questa generazione ha sperimentato un senso di perdita come nessun’altra. “Prima di tutto, questa sensazione ti cambia la realtà e poi perdura, ricordandoti quello che ti sei perso”, dice la psicologa Diana Lupu. Per la generazione di Vladi e Cătălina, non c’è stata una transizione alla vita universitaria. “Dove sono i momenti di congedo formale che ti permettono di iniziare un capitolo nuovo della vita?”.

Vladi sperava di poter entrare davvero in aula, per ascoltare un antipatico professore alle otto di mattina, una delle molte cose di cui si lamentavano le generazioni prima della sua della sua. “Ci eravamo immaginati feste, di conoscere tante persone. Nulla di tutto questo si è avverato. Quest’anno è stato per noi una sorta di anno incompleto”.

 

Testo realizzato in collaborazione con la Fondazione Heinrich Böll – Parigi