La Romania, in accordo con Fmi, UE e Banca Mondiale, si appresta a privatizzare i "gioielli di famiglia". Tra le grandi aziende statali ci sono la Transgaz, la Romgaz, la compagnia ferroviaria CFR Marfa e le Poste romene. L'ala liberale della coalizione di governo, però, si oppone a questo accordo e alle nuove misure di austerità
Sono state settimane di fermento e intenso lavoro a Palatul Victoria a Bucarest, sede del governo. Dal 29 gennaio, giorno in cui si è conclusa la lunga missione del Fondo Monetario Internazionale in Romania, il governo guidato da Victor Ponta ha dovuto mettere insieme i pezzi e avviare la macchina operativa per assolvere agli impegni presi. Impegni per cui la clessidra ha già iniziato a scorrere e che l'esecutivo è obbligato a completare entro giugno, con tre mesi di deroga rispetto a quanto era stato concordato nel 2011.
Privatizzazioni primaverili
Più nel concreto Ponta e i suoi ministri dovranno privatizzare una grossa fetta di industrie statali tra cui Transgaz (15%), Romgaz (10%), Hidroelectrica (10%), Nuclearelectrica (10%), Oltchim (è necessario il completamento della procedura), la compagnia ferroviaria CFR Marfa (dal 51% in su) e il vettore aereo Tarom (20%).
Una tabella di marcia complessa e ricca in aggiunta alla quale la Romania si è impegnata assieme a Fmi, Commissione europea e Banca Mondiale a introdurre stimoli all'economia, con riforme strutturali per attirare investitori strategici per le imprese statali e con modifiche al sistema di tassazione.
"In caso di fallimento l'accordo (che stabilisce l'accesso a Bucarest all'ultima tranche del prestito concordato nel 2011, cioè 5 miliardi di euro, ndr) decade", ha dichiarato il capo missione Erik Vrijer. Bucarest ha più volte sottolineato di intendere lo stand-by agreement come un paracadute e infatti non ha ancora richiesto un centesimo di questi fondi, ma l'inadempienza riguardo agli impegni presi con le autorità sovranazionali potrebbe complicare la richiesta di un eventuale altro prestito in autunno.
Stimolare la crescita
Il Fondo ha inoltre sottolineato che la vendita di quote delle aziende energetiche e dei trasporti, insieme a un migliore utilizzo dei fondi europei per progetti infrastrutturali, può stimolare la crescita economica, che dovrebbe raggiungere l'1,6% nel 2013, contro lo 0,2% del 2012.
I tempi stringono quindi e il governo Ponta si è rimboccato le maniche. Entro marzo sarà pubblicato il bando di gara per la presentazione delle offerte per il 51% delle azioni della CFR Marfa che dovrà essere venduta entro metà maggio, al massimo a giugno: è prevista una prima offerta non vincolante a cui seguirà un bid segreto con un deposito cauzionale pari a 10 milioni di euro, il 17% del valore nominale delle azioni. Lo stato si aspetta di incassare dall'operazione almeno 61,5 milioni di euro al netto delle spese operative.
I criteri in base a cui verranno scelti gli investitori strategici che potranno partecipare alle fasi finali sono l'”esperienza nel campo”, il grado di solvibilità e l'impegno in ulteriori investimenti, ha precisato il ministero dei Trasporti. CFR Marfa ha un debito complessivo di 1,8 miliardi di euro, di cui circa 600 milioni a bilancio e 600 milioni relativi all'infrastruttura ferroviaria, il resto si divide tra more e arretrati ai fornitori privati.
Supervisione del bilancio 2013
Nel contempo il governo ha anche approvato il bilancio 2013, discusso, negoziato e concordato con UE, Fmi e Banca Mondiale sulla base di una crescita dell'1,6% e un deficit/Pil al 2,1%: un piano “perfettibile” secondo il premier che però è un “segnale di stabilità e serietà” dato dal Paese. Il progetto prevede anche l'indicizzazione delle pensioni e un loro aumento del 4% in due tranche durante il 2013 e l'aumento del salario minimo - attualmente pari a 700 lei (160 euro) - a 800 lei. Ma l'aumento della spesa pubblica comporta una compensazione che andrà a gravare sulle utility del gas, del greggio e sul settore estrattivo che dovranno pagare circa 700 milioni di euro in più allo stato.
Poste private
Tornando al campo privatizzazioni il governo ha poi avviato anche la procedura per la vendita di parte delle Poste Romene (Cnpr) per la quale il governo non vuole rischiare scherzi e figuracce come nel caso di Oltchim (gara vinta dal miliardario Dan Diaconescu, che però non presentò i documenti necessari e le garanzie per completare la procedura, costringendo l'esecutivo ad azzerare tutto nell'ottobre scorso).
L'avvertimento di Ponta è stato chiaro: per chi desidera partecipare al tender “la garanzia è di due milioni di euro, se qualcuno partecipa e monta un circo, come accaduto con Oltchim, perde i due milioni”. Le Poste Romene, il più grande operatore del settore con 7.100 sportelli sul territorio (75% in mano al ministero delle Comunicazioni e il 25% a un Fondo statale) saranno privatizzate entro metà giugno e nelle prossime settimane sarà pubblicato il bando per l'asta. Ad aprile il governo prevede di stilare la lista dei partecipanti alla gara e di procedere in maniera svelta verso la conclusione.
Per la maggiora parte delle compagnie energetiche, invece, Ponta ha stabilito che verrà privatizzata una piccola parte con la quotazione in borsa di partecipazioni, una strategia più redditizia e che consentirà di decidere in futuro altre quote da mettere sul mercato.
Critiche
Decisioni così drastiche sul piano della vendita di alcuni gioielli nazionali e sulle nuove politiche di austerità non sono passate, però, senza contraccolpi all'interno della maggioranza. Se da una parte il premier ha accolto in modo positivo l'accordo finale con il Fmi, l'ala liberale della coalizione ha alzato la voce: il presidente della Camera Dan Radu Rusanu, uno dei leader più influenti dei Liberali e noto esperto di questioni economiche ha criticato il Fondo per le imposizioni sulle privatizzazioni e ha “osato” bocciare apertamente gli accordi.
Per Rusanu ci sarebbe stato un “enorme errore” nel 2010 da parte di Fmi e governo all'inizio dei negoziati: l'aumento delle tasse. "Qualsiasi studente di economia sa che in un momento di crisi non si aumentano le imposte con l'Iva al 24% e allo stesso tempo si riducono gli stipendi del 25%. Queste misure non hanno portato alla crescita. Sono state imposte dal Fmi, ma noi le abbiamo accettate”, ha dichiarato mettendosi in aperto contrasto con Ponta.