Sono 25 gli oggetti simbolo del mondo sovietico usati da Gian Piero Piretto per raccontare l’universo della vecchia URSS. Un'oggettistica eterogenea dove sono rubricati sia il distributore automatico di acqua gassata sia un “oggetto” assai più ingombrante come il cadavere di Lenin. Nostra recensione
È un percorso originale quello intrapreso in questi anni da Gian Piero Piretto, docente di Cultura russa e Metodologia della Cultura visuale alla Statale di Milano, per analizzare la storia e la cultura della defunta URSS. Mentre nell’ultima decade l’apertura degli archivi del KGB ha permesso a molti studiosi di Unione Sovietica, con l’ausilio di un’ampia documentazione, di ricostruire con rigore filologico vicende storiche anche relativamente sconosciute, Piretto ha preferito raccontare quell’universo, scomparso nel dicembre di 21 anni fa, ricorrendo all'esperienza personale, a rimandi letterari, artistici e cinematografici, privilegiando una prospettiva particolare: quella visuale.
Il saggio che ha preceduto La vita privata degli oggetti sovietici, uscito recentemente per i tipi di Sironi Editore , si intitolava Gli occhi di Stalin. La cultura visuale sovietica nell’era staliniana (Raffaello Cortina, 2010) e sin dal titolo rivelava la metodologia d’indagine adottata da Piretto. In quel testo infatti l’autore indagava le strategie che hanno contribuito a costruire il sistema sociale, politico e culturale degli anni di Stalin attraverso un’analisi puntuale, a suo modo affascinante, del linguaggio di cinema, cartelloni pubblicitari e monumenti architettonici d’antan. Nel nuovo libro, pur avvalendosi dello stesso paradigma, Piretto sposta il campo della sua ricerca per così dire dal pubblico al privato (anche se questo termine può apparire eretico in un mondo in cui pubblico e privato si confondevano e annullavano) esaminando ben 25 oggetti che costituivano il quotidiano dell’epoca sovietica. In questo caso l’arco temporale di riferimento – a differenza del precedente lavoro – non è più limitato all’era staliniana, ma copre gli oltre settant’anni di vita dell’URSS (1917-1991).
L’oggettistica cui fa riferimento Piretto nel suo saggio, avvalendosi di un apparato iconografico davvero notevole ottimamente valorizzato da un formato 20x19 stile foto album, è affatto eterogenea. La parola “oggetto” va dunque intesa in un’accezione semantica piuttosto ampia visto che con questo termine vengono rubricati sia il distributore automatico di acqua gassata (Avtomat s gazirovannoj vodoj) sia un “oggetto” assai più ingombrante (non certo per le dimensioni ma per la sua valenza antropologica) come il cadavere di Lenin (Trup Lenina).
“Per ‘cosa’ intenderò quel manufatto che implica la presenza di un legame affettivo o relazionale tra prodotto e soggetto, mentre il termine ‘oggetto’ sottintende tra le due parti in questione una dimensione di puro possesso”
Soffermandoci per un attimo proprio su Lenin (lo stesso autore sottolinea come affrontando l’oggetto “cadavere di Lenin” corra il rischio di blasfemia presso il popolo comunista) sarebbe stato interessante se Piretto avesse confrontato il corpo del rivoluzionario comunista con un altro corpo imbalsamato: quello del pioniere della medicina e della chirurgia sul campo, il medico russo Nikolai Ivanovich Pirogov, il cui cadavere imbalsamato è a Vinnytsya (Ucraina) e sembrerebbe molto meglio conservato di quello del leader bolscevico nonostante l’imbalsamazione di quest'ultimo sia più recente.
Tornando all’impianto teorico del libro è importante chiarire alcune questioni per sgomberare il campo da potenziali equivoci, in cui potrebbero cadere i lettori che hanno poca dimestichezza con il mondo sovietico. Una di queste è relativa alla pretesa “russicità” degli oggetti passati in rassegna. Nonostante l’autore nella prefazione parli di “Cose di Russia sovietica” la più corretta dicitura è quella utilizzata nel titolo del libro dove si fa riferimento a “oggetti sovietici”. In effetti il Samovar, il pesce essiccato da consumare con la birra o il portabicchiere da tè sono solo alcuni esempi di cose che caratterizzavano il quotidiano sovietico da Kiev a Tallinn, da Tbilisi a Yerevan, e che ovviamente non erano solo appannaggio della Russia Sovietica.
Ma c’è di più, questi oggetti, seppure con una valenza diversa, forse intrisi di nostalgia per quel mondo ormai scomparso e quindi parzialmente decontestualizzati, fanno ancora oggi parte del quotidiano post-sovietico di paesi come Russia, Ucraina, Bielorussia. Basta prendere un treno notturno Odessa-Kiev e chiedere alla provodnitsa, la cuccettista, una tazza di tè per poter ammirare un portabicchiere in metallo magari ancora con l’effige di qualche eroe del Lavoro socialista.
“La maggior parte delle cose a cui dedicherò la mia attenzione ancora circola […] talora in forme rinnovate (degenerate) o adattate alla nuova realtà”
Il concetto dell’Ostalgie
Questo ordine di considerazioni ci porta diritto a un altro tema cui l’autore dedica un certo spazio nelle pagine introduttive, prima di iniziare a parlarci del profumo Krasnaja Moskva (acqua di colonia dolce e forte il cui gusto corrispondeva alle regole dettate dalla moglie del ministro degli Esteri Molotov) o del formaggino Druzhba, ossia il legame che esiste tra i 25 oggetti presi in esame nel libro e il concetto dell’Ostalgie; ossia la nostalgia per l’Ost (Est), il suo stile di vita e la sua cultura.
“Gli oggetti russo-sovietici che saranno protagonisti di queste pagine – scrive Piretto - non sono soltanto quelli che sull’onda dell’Ostalgie o del rimpianto per l’impero socialista perduto hanno trovato oggi una nuova vita in mostre d’arte, cataloghi di design o volumi retrospettivi, musei commemorativi o negozi di souvenir”. “Il loro inserimento in spazi culturali istituzionali, mostre, volumi, gallerie, aree commerciali ne ha defunzionalizzati molti di loro e li ha trasformati in pezzi da esibizione, non necessariamente caricandoli dello status di object d’art, ma privandoli dello loro aura primigenia e attribuendo a essi responsabilità che, spesso, non sono in grado di affrontare o sopportare ”.
Coerente con questa premessa metodologica l’autore decide di dedicare la propria attenzione a cose semplici e quotidiane “la cui rilevanza è consistita non tanto nello stile o nella forma che le ha caratterizzate, quanto nella dinamicità del rapporto diretto con i fruitori”. Un approccio questo, che rifiutando la “spettatorialità” dell’estetica in favore di un taglio sociologico e poetico, si propone, pur nella consapevolezza dei propri limiti, di “aggiungere qualche spunto alle microstorie relative all’Unione Sovietica per contrastare la convenzionalità e i luoghi comuni della grande narrazione”.