“Dovevo andare a Voronez, dove ero atteso per un seminario, ma sono finito in detenzione e con un divieto di entrare nel territorio russo valido per cinque anni”. Russia e libertà di stampa. Il racconto del giornalista Stevan Dojčinović
(Pubblicato originariamente da Newsweek Srbija il 25 maggio 2015. Titolo originale Kako sam dospeo na crnu listu: Novinar koji je na putu za Moskvu, završio u pritvoru na aerodromu)
Appena la poliziotta russa ha inserito i dati del mio passaporto nel sistema di controllo frontaliero all’aeroporto Sheremetyevo di Mosca, sapevo che le cose sarebbero andate male. Dalla sua espressione ho capito che nel loro computer c’era qualcosa su di me.
In effetti, la poliziotta si è subito affrettata a chiamare una collega che mi ha accompagnato fino ad una panchina poco distante. “Mister, mister” era l’unica parola che usciva dalla sua bocca mentre con un dito mi indicava il posto dove sedermi.
Era mercoledì 13 maggio, e dovevo fare scalo all’aeroporto di Mosca per raggiungere la città di Voronez, dove ero atteso alla Facoltà di giornalismo per un seminario sul giornalismo d’inchiesta. Ero già stato in Russia in simili occasioni – a Mosca, nella vicina città di Podolsk e a Kazan, capitale della Repubblica del Tatarstan – senza aver mai riscontrato alcun problema.
Dopo circa un’ora di attesa, mi si è avvicinata un’altra coppia di poliziotti – entrambi biondi, lui magro e ossuto, lei dotata di un fisico da modella. Mi hanno portato in una stanza vicina, indicandomi di sedermi ad un grande tavolo. Appesa al muro c’era una foto di Putin con la scritta sottostante: “Il nostro comandante supremo”.
A quel punto, l’uomo ha tirato fuori un foglio e ha cominciato a leggere una cosa scritta in russo, mentre la sua collega gli stava accanto, fotografandomi. Una volta finito di leggere, il poliziotto ha messo quel documento sul tavolo e mi ha consegnato una penna, aspettandosi evidentemente che io firmassi.
Siccome non ero riuscito a capire quasi nulla di quanto letto dal poliziotto, tranne il mio nome, gli ho chiesto se poteva ripeterlo in inglese. Questo l’ha ovviamente fatto un po’ arrabbiare dato che entrambi sono usciti frettolosamente dalla stanza. Durante quell’intera giornata, i russi si arrabbiavano ogni volta che menzionavo “English”.
“Cosa ho fatto di male?”.
Passata un’altra mezz’ora, o meglio persa, eccola di nuovo la coppia di poliziotti, questa volta in compagnia di un traduttore, un ragazzo dai capelli biondi che sembrava essere un impiegato dell’aeroporto che aveva una certa conoscenza dell’inglese piuttosto che un traduttore ufficiale. In ogni caso, mi ha tradotto il contenuto del documento: stava scritto che confermavo di essere consapevole che, in base alla legge federale n.114 del 15 agosto 1996, mi si proibiva l’ingresso in Russia fino al 13 maggio 2020, nonché di essere stato avvertito, ai sensi dell’art.322 del Codice Penale della Federazione Russa, delle responsabilità penali conseguenti a false dichiarazioni.
Detto altrimenti: mi si vietava di entrare nel paese e, nel caso tentassi di farlo prima del 2020, sarei stato arrestato. A quel punto, mi hanno chiesto di nuovo di firmare quel documento. In un primo momento mi sono rifiutato di farlo, cercando di scoprire le ragioni per cui ero stato espulso, ma senza alcun successo. Poi mi sono reso conto di essere in una situazione kafkiana dove, di fronte alla presenza degli esecutori, l’accusato rimane impossibilitato di scoprire per che cosa lo stanno incriminando.
“Cosa ho fatto di male?” “Questo non te lo possiamo dire”. “E questa legge n.114 che ho presumibilmente violato, che legge è?”, “Non possiamo dirti neanche questo.” “Posso presentare subito un ricorso?”, “No. Lo puoi fare quando torni a casa, presso l’Ambasciata russa a Belgrado.” Durante tutta la scena, filmata da una videocamera di sorveglianza, il poliziotto non ha smesso di forzarmi a firmare quel documento, battendo incessantemente con un dito sullo spazio riservato alla firma.
Ormai era evidente che non sarei riuscito a tenere il workshop previsto per quel giorno e, per evitare ulteriori maltrattamenti e tornare a casa il prima possibile, ho deciso di firmare. Prima di farlo però, ho chiesto se potevo avere una copia del documento. Me l’hanno data, dicendomi che sarei stato rimpatriato con il primo volo diretto in Serbia.
“Mister, mister”.
La poliziotta mi ha chiamato, col solito “mister”, indicandomi di seguirla. Giravamo un bel po’ per la zona di transito, da un posto all’altro – lei senza smettere di rivolgermisi con “mister, mister” e di indicare la direzione con un dito – prima di entrare in un ufficio. Lì era seduta una sua collega che, appena entrati, si è alzata ed è uscita fuori, tornando pochi istanti dopo con un cuscino e una coperta, ovviamente destinati a me.
“No, non ne ho bisogno, tra un po’ dovrei prendere l’aereo, nel frattempo mi siedo su questa sedia, accanto a lei”, cercavo di spiegarle in inglese. Inutilmente, perché lei si è affrettata ad aprire un’altra porta che introduceva in una stanza retrostante, facendomi segno di entrare. Mi sono subito reso conto che si trattava di una struttura detentiva (collocata) all’interno dell’aeroporto, composta da una stanza d’ingresso dove era seduta una guardia, un piccolo ripostiglio per cuscini e coperte, e due camere più grandi, una riservata alle donne, se avevo intuito bene, e l’altra, nella quale mi trovavo, agli uomini.
Ormai era chiaro che avrei dovuto aspettare ancora un po' prima di poter tornare a casa, perciò ho messo la coperta sullo scheletro del letto e mi sono sdraiato. I miei compagni di stanza, loro quattro, erano neri o asiatici. Probabilmente immigrati clandestini, ho pensato in un primo momento.
Uno di loro, dai tratti mediorientali, si allenava ormai da due ore con un’attrezzatura improvvisata – un set di pesi costruito con grandi bottiglie di plastica – e sembrava quello più autorevole tra i presenti. La stanza, tutto sommato, aveva un aspetto decente, assomigliava a quelle nelle nostre residenze universitarie. Dentro c’erano sei letti a castello e, dato che eravamo in pochi, lo spazio non mancava. Le videocamere di sorveglianza, collocate negli angoli, erano sempre accese.
Non avevo mangiato niente dalla mattina e, comprensibilmente innervosito, mi sono messo a camminare per la stanza. Ad un certo punto, il ragazzo scuro che prima si allenava, per poi recitare le preghiere in ginocchio, ha iniziato a parlarmi in inglese, suscitando il mio entusiasmo per il fatto di aver finalmente trovato un interlocutore. Ne è seguita una lunga conversazione, nel corso della quale ho appreso la sua storia, e quelle degli altri detenuti con cui non potevo comunicare.
È venuto fuori che il ragazzo non era un tizio pericoloso, diventato più robusto da quando in detenzione. Di origine siriana, viveva e lavorava come dentista a Dubai, e si trovava detenuto all’aeroporto di Mosca già da un bel po’ – cinque mesi per essere precisi – come del resto anche gli altri due, uno proveniente dall’Uzbekistan e l’altro dal Tagikistan, detenuti rispettivamente da sei e da otto mesi. Ho saputo inoltre che il motivo del loro arresto era identico a quello del mio – la presunta violazione dell’art.322 – e questa scoperta mi ha reso inquieto. L’unica differenza stava nel fatto che loro erano stati sorpresi con passaporti falsi, mentre io ero completamente pulito.
Il siriano mi ha raccontato a grandi linee la sua storia. Voleva venire a Mosca come turista, per passarvi il Capodanno, e su suggerimento di un amico, ha deciso di procurarsi un passaporto falso sudafricano in quanto quello siriano avrebbe potuto creargli dei problemi dato l’attuale clima di generale diffidenza nei confronti degli immigrati provenienti dal suo paese.
Al Consolato russo a Dubai gli è stato poi rilasciato un regolare visto d’ingresso, per cui era sicuro, come mi diceva, di riuscire ad attraversare la frontiera senza alcun problema. All’aeroporto di Mosca, tuttavia, è stato scoperto. Si è dichiarato subito colpevole, firmando tutto quello che gli si chiedeva di firmare per poter tornarsene a casa.
Ciononostante, lo tenevano in detenzione ormai da mesi, presumibilmente perché stavano ancora verificando la veridicità del suo passaporto, un’operazione che poteva durare fino a sei mesi, ma che nel suo caso risultava inutile dato che aveva già ammesso la falsità del documento. “Non riesco a capire perché mi stanno facendo tutto questo. Ci ho pensato molto. Perché mi tengono chiuso qua dentro per così tanto tempo, qual è lo scopo? Sono solo un passeggero, una persona senza alcuna importanza”, mi diceva il siriano, aggiungendo di essere molto dispiaciuto per aver tradito la fiducia dei suoi pazienti a Dubai.
Il ragazzo uzbeko, d’altra parte, non smetteva mai di ridere. “Quest’uomo non ha visto il cielo per sei mesi”, mi ha detto il siriano, convinto che l’altro fosse diventato psicologicamente instabile proprio in conseguenza della detenzione. Il ragazzo dal Tagikistan, invece, non si alzava dal letto, se non per pregare e – come mi ha spiegato il mio nuovo amico – sopportava molto male la situazione perché affetto da problemi renali.
In quella situazione, avere qualcuno con cui parlare mi è stato di grande aiuto, sia per far passare più velocemente il tempo sia per non pensare alla fame che mi veniva di tanto in tanto. A proposito della fame, la nostra conversazione è stata interrotta dall’arrivo di una guardia che portava le ciotole col cibo, una per ognuno, tranne che per me. Ho chiesto al siriano di domandare perché ero stato privato del cibo ma, come anche nelle occasioni precedenti, non mi hanno degnato di una risposta. I miei compagni di stanza, tuttavia, si sono mostrati solidali e ciascuno di loro mi ha dato una parte della propria razione – un po’ di riso con pezzetti di carne.
I voli per diretti a Belgrado continuavano a decollare, senza che nessuno venisse a chiamarmi. Dalla guardia arrivavano informazioni discordanti – “Questo rimarrà a lungo”, “Domattina lo mandiamo a casa” – per cui non ero in grado di intuire per quanto ancora mi avrebbero tenuto rinchiuso. Era proprio questa tensione psicologica, questa incertezza ad angosciarmi di più.
Erano circa le undici di sera quando, dopo aver salutato il siriano, sono riuscito ad addormentarmi. Mi sono svegliato verso le sette e mezza, rendendomi conto di aver perso un altro volo per Belgrado. Passata circa un’ora, un poliziotto dai tratti asiatici è entrato nella stanza, parlandomi in russo. Gli ho chiesto di ripetere quanto detto anche in inglese ma, avendolo evidentemente innervosito col mio “English”, mi ha scrutato con uno sguardo diffidente. Il momento di tensione è stato interrotto da un giovane poliziotto che è entrato nella stanza tenendo in mano il mio passaporto e un biglietto d’aereo. In quel momento ho sentito un grande sollievo perché ho capito di poter finalmente tornare a casa.
Il poliziotto mi ha poi accompagnato fino ad un aereo della compagnia russa Aeroflot e ha detto qualcosa alla hostess, la quale questa volta ha fatto da traduttrice: il mio passaporto sarebbe stato consegnato alle autorità serbe una volta atterrati a Belgrado. Ed è stato così. All’aeroporto di Belgrado uno dei nostri poliziotti mi ha restituito il passaporto, chiedendomi: “Cosa hai combinato?”, ”Non lo so. I colleghi russi le hanno detto qualcosa?”, “No”.
Ora mi aspetta una nuova battaglia. Cercherò di ottenere una risposta dall’Ambasciata russa sul perché mi sia successo tutto questo e cercherò di scoprire le ragioni per cui sono considerato “persona non grata”.
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