L'invasione dell'Ucraina ha portato al centro dell'attenzione mondiale l'interventismo militare russo nelle aree dell'ex-Unione sovietica: un processo che ha però radici profonde, e che dal 2008 riguarda in modo particolare i paesi del Partenariato Orientale
Il 2008 è stato l’anno del Summit di Bucarest della NATO, quando alla Georgia e all’Ucraina non fu garantita la road map per accedere alla NATO, ma solo una generica promessa di ammissione. Molto si è detto su quella decisione, quasi fosse stata il fattore scatenante delle seguenti guerre nello spazio post-Sovietico. Ma in verità la svolta bellica che riguarda questa parte di mondo riguarda ben più paesi che Georgia e Ucraina, attualmente (parzialmente) occupati dalla Russia. Per farne una panoramica si può partire da un altro grande evento di quell’anno. Il 2008 è infatti anche l’anno del lancio del Partenariato Orientale che coinvolge sei paesi oltre l’Unione Europea: l’Armenia, l’Azerbaijan, la Bielorussia, la Georgia, la Moldavia e l’Ucraina. I sei paesi avevano espresso interesse per un avvicinamento all’Ue.
Tre di questi paesi ospitavano all’epoca basi militari russe . La Bielorussia, una stazione radar a Hantsavichy, il centro di comunicazione navale Vileyka e un centro di difesa aerea a Baranovichi, con un totale di circa 1500 militari russi presenti in via permanente nel paese. In Ucraina c’era la base navale di Sebastopoli in affitto che sarebbe stato rinnovato fino al 2014, con circa 26mila militari russi.
In Caucaso la situazione era molto diversa. In Georgia i russi si erano ritirati per accordi bilaterali nel 2005, ed era in corso la trattativa per il rinnovo dell’affitto del radar sovietico in Azerbaijan che non sarebbe andata a buon fine, e che avrebbe portato al completo ritiro russo nel 2012. Alla disgregazione dell’Unione sovietica l’Azerbaijan aveva rifiutato di ospitare basi militari russe. Diverso il caso dell’Armenia, che aveva e ha tuttora una base russa di circa 5000 militari a Gyumri, altri siti militari di supporto, più le guardie di frontiera, corpo che in Russia è militarizzato.
A queste presenze si aggiungevano gli osservatori del cessate il fuoco in Abkhazia, quelli in Ossezia del Sud e i circa 1500 che presidiavano la Transnistria. Con l’eccezione dei 26mila in Crimea, la presenza militare russa ammontava quindi a meno di 10mila militari nei paesi del Partenariato. Ancora prima della guerra in Ucraina, però, questo numero sarebbe circa raddoppiato, e avrebbe portato la presenza militare russa in tutti i paesi del Partenariato Orientale.
Questa escalation militare alle porte d’Europa unita a un incremento di spesa bellica del 170% nelle ultime due decadi, più del 4% del PIL nazionale nel 2021 fa dedurre che la Federazione Russia sia decisa a provare a esercitare con la coercizione militare una influenza che altrimenti è difficilmente imponibile.
La militarizzazione del Caucaso
In principio è stata la Georgia. La scomparsa delle basi russe è durata solo 3 anni. Nell’agosto del 2008 la Russia è intervenuta in Ossezia del Sud e in Abkhazia con il pretesto di proteggere la minoranza di lingua russa soggetta a genocidio in Ossezia del Sud. Le prove del genocidio in corso non sono mai state presentate, né il motivo cogente per cui il conflitto si sia esteso ad altre aree, inclusa l’Abkhazia. In 5 giorni di guerra le truppe russe hanno occupato le due regioni secessioniste e sono dilagate nel paese, fino al cessate il fuoco concordato con mediazione europea.
Il cessate il fuoco prevedeva un ritiro delle truppe di tutte le parti coinvolte nel conflitto sulle posizioni precedenti alla guerra, obbligo che la Georgia ha rispettato ma non la Russia. Infatti nel frattempo Mosca aveva riconosciuto l’indipendenza di Abkhazia e Ossezia del Sud e ha da allora sostenuto che quanto concordato nel cessate il fuoco non possa estendersi al territorio di nuovi stati con i quali ha stipulato accordi militari differenti. Facile immaginare che lo stesso meccanismo possa essere applicato in Donbas: un cessate il fuoco concordato fra Ucraina e Federazione Russa non riguarderebbe comunque Luhansk e Donetsk, riconosciuti come nuovi stati dalla Russia il 21 febbraio, tre giorni prima dell’invasione. Per effetto di questo meccanismo, ad oggi in Abkhazia ci sono circa 4500 militari russi, e 3500 in Ossezia del Sud. Il 20% del territorio nazionale della Georgia è in regime di occupazione.
Anche nel Caucaso centrale si è registrato un rinforzo militare russo, in Armenia e Azerbaijan. Dopo la guerra armeno-azera del 2020 presiedono il Karabakh 1200 peacekeepers russi. L’Azerbaijan ospita inoltre siti di osservazione del rispetto del cessate il fuoco che dopo negoziazione hanno preso forma come russo-turchi. Inoltre la Russia ha rimboccato la propria presenza di guardie di frontiera russe in presenza permanente in Armenia.
Fra il 2008 e il 2020 quindi il Caucaso ha subito una trasformazione significativa in termini di schieramento di forze russe. A questo fenomeno si è associato un generale incremento della spesa militare, incluso quello dei paesi caucasici, in particolar modo dell’Azerbaijan che nonostante si sia dichiarato soddisfatto dell’esito della guerra in Nagorno Karabakh continua ad aumentare la propria spesa militare che nel 2021 ha superato il 5% del PIL nazionale, proporzionalmente una delle più alte al mondo.
L’Ucraina fa saltare il banco
In questo contesto di raddoppio di presenza militare russa nei paesi del Partenariato – da circa 10mila nel 2007 a circa 20mila nel 2013, più i 26mila di Sebastopoli - ha preso forma la protratta campagna militare in Ucraina che ha fatto saltare il banco sia sul piano militare che politico.
Nel 2014 è avvenuta l’annessione della Crimea. Mai la Russia aveva annesso una parte di paese post-Sovietico. Dopo otto anni di conflitto che, superata la prima fase, era sceso ad un livello di bassa intensità, l’offensiva del 2022 ha portato e a due nuovi riconoscimenti, e allo schieramento di 200mila militari russi fra Ucraina e zone limitrofe, inclusa la Bielorussia.
Nei giorni precedenti il conflitto lo schieramento di forze russe lasciava presagire un'escalation del conflitto circoscritta però solo alle aree già interessate da combattimenti. Luhansk e Donetsk sono infatti regioni estese ed abitate, il Donbas ha un’area ben diversa dai conflitti di cui sopra: più di 6 milioni di abitanti, prima della guerra, contro i 250.000 dell’Abkhazia, i circa 50.000 in Ossezia del Sud, e i 140.000 nel Nagorno Karabakh. Praticamente nessuno aveva ipotizzato che con un numero così esiguo si sarebbe tentato di prendere l’intera Ucraina. Per un lettore italiano la proporzione è facile da fare: l’Ucraina è il doppio dell’Italia, e 200mila soldati sono circa il doppio del numero di carabinieri presenti in Italia. Sarebbe come provare a conquistare e presidiare l’Italia con i soli carabinieri.
Se lo schieramento ad oggi non è quindi proporzionale allo scopo del controllo dell’Ucraina, è però certamente il più consistente che Mosca ha impegnato in una campagna militare dalla Seconda Guerra Mondiale, ben superiore ai numerosi interventi bellici che hanno caratterizzato la presidenza di Vladimir Putin. A questo si aggiunge un'annessione, pure inedita nelle politiche fino ad ora adottate. E in ultimo: il recente referendum in Bielorussia che aprirebbe il paese alle armi nucleari russe. La Bielorussia è sospesa, ma non esclusa in via definitiva dal Partenariato dopo gli eventi del biennio che ha preceduto la guerra in Ucraina. Un salto quindi quantitativo e qualitativo rispetto alle guerre post-sovietiche viste finora.
L’escalation militare russa nei paesi del Partenariato non riguarda quindi solo il conflitto in corso, dura da 15 anni e ha carattere di presenza militare permanente. Nelle aree occupate le truppe russe non sono solo funzionali ai combattimenti in corso, nemmeno in Ucraina. In Crimea dovrebbero essere 18 le nuove basi militari aperte negli anni 2014-2021. Il Partenariato Orientale è diventato in pochi anni un’area bellica e militarizzata da Mosca.