Attivista di lungo corso e già direttrice dell'ong "Urban in" di Novi Pazar. Aida Ćorović ha al suo attivo numerose battaglie per la democrazia, i diritti umani, la tolleranza e l'antifascismo. Il suo recente gesto di gettare delle uova sul murales raffigurante Ratko Mladić le è costato un fermo di polizia e una valanga di minacce
Aida Ćorović è impegnata nell’attivismo civico ormai da decenni. Per anni è stata la voce della ragione nella regione del Sangiaccato, nel sud della Serbia, anche come direttrice dell’organizzazione non governativa “Urban in” di Novi Pazar. È sempre rimasta irremovibile nei suoi principi, anche nei periodi di forte tensione tra serbi e bosgnacchi del Sangiaccato. Strenua sostenitrice della democrazia, dei diritti umani, della tolleranza e di una comprensione reciproca tra i popoli, si è sempre opposta ad ogni forma di estremismo, a prescindere dall’appartenenza nazionale dei suoi propugnatori.
La scorsa settimana Aida Ćorović ha compiuto un gesto in segno di protesta contro un graffito dedicato al criminale di guerra Ratko Mladić, un gesto in piena sintonia con il suo impegno civile ormai decennale. Del tutto inaspettatamente, Ćorović si è avvicinata al muro e ha lanciato delle uova contro il graffito, dopodiché è stata brutalmente assalita da alcuni uomini in borghese per poi essere posta in stato di fermo. Intimidazioni e minacce ricevute non l’hanno scoraggiata dal partecipare, il giorno dopo, ad una manifestazione di protesta contro il murales raffigurante Mladić.
Cosa l’ha spinta a lanciare uova contro il graffito dedicato a Ratko Mladić?
Sono un’attivista pacifista, antifascista e femminista ormai da trent’anni. Questa non è la prima e, probabilmente, non sarà nemmeno l’ultima volta che reagisco alla realtà che viviamo e a ciò che sta accadendo in Serbia. Mi preme sottolineare che l’episodio in questione è accaduto lo scorso 9 novembre, nella Giornata internazionale contro il fascismo, e la Serbia oggi vive un periodo profondamente contrassegnato dal fascismo.
Una rinomata organizzazione non governativa di Belgrado, Iniziativa dei giovani per i diritti umani, aveva convocato una manifestazione per lo scorso 9 novembre con l’intento di rimuovere il murales dedicato al criminale di guerra condannato Ratko Mladić. La manifestazione però è stata vietata. Jelena Jaćimović e io ci siamo comunque recate davanti all’edificio su cui è disegnato il graffito nell’ora inizialmente prevista per l’inizio della manifestazione, perché si è sparsa la voce che ci sarebbe stato un raduno informale e pacifico. Tuttavia, una volta giunte sul posto, non abbiamo trovato nessuno. Dal momento che molti media hanno seguito l’intera vicenda, Jelena e io ci siamo rese conto che Belgrado rischiava di dare, per l’ennesima volta, un’immagine vergognosa di sé, immagine di una città dove molti cittadini hanno scelto di schierarsi dalla parte di un criminale di guerra, mentre chi si oppone ai crimini tace. Quindi, abbiamo reagito in modo spontaneo, attingendo all’unica opzione disponibile in quel momento. Abbiamo dunque deciso di lanciare delle uova contro il graffito, esprimendo così la nostra ripugnanza nei confronti dell’uomo rappresentato su quel muro. Abbiamo voluto fornire un’immagine diversa di Belgrado e della Serbia e credo che in parte ci siamo riuscite.
Poco dopo aver gettato le uova contro il graffito lei è stata posta in stato di fermo. Come si sono comportati gli agenti di polizia nei suoi confronti?
Mentre Jelena e io pensavamo cosa fare, non immaginavo nemmeno che i poliziotti avrebbero reagito così duramente. Pensavo che ci avrebbero semplicemente chiesto di allontanarci, e lo avremmo fatto. Ma quando ci siamo avvicinate al murales alcuni giovani, che non sembravano affatto poliziotti, ci hanno letteralmente assalite, cercando di trascinarci via in modo molto aggressivo. Ero convinta che si trattasse di hooligan e che volessero trascinarmi in un luogo buio e picchiarmi. Quindi mi sono attaccata ad un palo, opponendomi a quegli uomini con tutte le forze. Non hanno voluto esibire un segno distintivo, né tanto meno hanno voluto rispondere alle nostre domande quando chiedevamo loro di identificarsi. Il modo in cui si sono comportati con noi due, e soprattutto con me, il loro atteggiamento nei nostri confronti lasciava intendere che non erano poliziotti. Il giorno dopo abbiamo saputo che tra gli uomini che ci hanno aggredite c’erano anche alcuni membri delle organizzazioni paramilitari di destra “Narodna patrola” e “Levijatan”.
Siamo state portate in una stazione di polizia a bordo di un’auto della polizia, come se fossimo i peggiori delinquenti. Tuttavia, una volta giunti in stazione l’atmosfera è completamente cambiata. Dopo aver accertato la nostra identità, gli ispettori incaricati del caso si sono resi conto di aver posto in stato di fermo due persone perbene e quei giovani che ci hanno assalite hanno fatto ricorso ad un uso eccessivo della forza. Nella stazione di polizia tutti gli agenti sono stati molto gentili. Ad un certo punto però un giovane uomo in borghese è entrato nell’ufficio gridando: “Ratko Mladić, un eroe serbo!”. Un altro fatto curioso: mentre rilasciavo la dichiarazione alla polizia il telefono suonava in continuazione. Evidentemente avevano una gran fretta di rilasciarci.
Come spiega il fatto che non solo a Belgrado, ma anche in altre città della Serbia, ci sono molti murales e graffiti dedicati a Ratko Mladić?
Questo dato di fatto è ormai diventato un luogo comune in Serbia. Quando i radicali [membri del Partito radicale serbo] – travestiti in abiti costosi, facendosi chiamare con un altro nome – sono saliti al potere, la Serbia ha iniziato a sprofondare nel neofascismo, tornando agli anni Novanta. Mi preme ricordare che quelli che avevano distrutto l’ex Jugoslavia, orchestrando le guerre e derubando il paese, oggi sono al potere. Manca solo Slobodan Milošević, tutti gli altri protagonisti delle guerre sono ancora tra noi. Così in Serbia si è chiuso quel cerchio del male messo in moto alla fine degli anni Ottanta quando certe élite politiche iniziarono a distruggere le repubbliche che fino a poco tempo prima facevano parte di uno stesso paese. Oggi quelle stesse élite stanno distruggendo la Serbia. Per poterlo fare hanno bisogno di alimentare una nuova ondata di odio nazionalista e la fascistizzazione della società. Il discorso dell’estrema destra è diventato dominante e alcuni gruppi di ultras ed estremisti collaborano con la polizia.
Cosa pensa dell’atteggiamento della leadership al potere in Serbia nei confronti delle questioni riguardanti i crimini di guerra e il confronto con il passato?
Oggi la Serbia si trova nella stessa posizione in cui si trovava all’inizio degli anni Novanta, con l’unica differenza che ora le attività criminali si stanno verificando sul territorio serbo. È inutile aspettarsi che gli ideatori dei crimini di guerra oggi condannino quei crimini. Dubito che qualcuno possa essere così ingenuo da pensare che i fautori della guerra abbiano improvvisamente raggiunto una catarsi e cambiato la loro posizione.
I principali esponenti dell’attuale leadership serba furono i primi ad elogiare l’assassinio di Zoran Đinđić, il primo premier serbo democraticamente eletto, che aveva avviato il processo di confronto con il passato. È chiaro quindi che Aleksandar Vučić e il suo regime non hanno mai avuto l’intenzione di prendere le distanze dal più grande criminale serbo e tutta questa vicenda del graffito è una sorta di confessione, è come se volessero dire: “Sì, Ratko Mladić è nostro eroe; sì, esaltiamo i crimini di guerra che ha commesso, compreso il genocidio di Srebrenica; sì, lo ripeteremo appena se ne ripresenterà l’occasione”.
Secondo lei, quanto è forte oggi l’estrema destra in Serbia?
Tralasciando quei pochi anni in cui al governo c’era Zoran Đinđić, dall’inizio degli anni Novanta in Serbia non c’è mai stata la volontà di prendere le distanze dalle guerre di dissoluzione della Jugoslavia e soprattutto dal coinvolgimento della Serbia in quelle guerre. Per decenni la nostra società è stata intossicata da nazionalismo, sciovinismo e odio, e la violenza, verbale e fisica, è diventata il modus operandi della cricca al potere. Date queste premesse, non c’è da stupirsi se oggi in Serbia si assiste al riaffiorare dell’estrema destra. In questo momento Aleksandar Vučić ha bisogno della destra. Vučić vede la destra come uno strumento con cui difendere il suo potere e, al contempo, come un’arma per attaccare e maltrattare l’opposizione, gli attivisti, la società civile, ma anche i semplici cittadini che osano criticare l’attuale situazione nel paese.
Come ha reagito l’opinione pubblica al suo gesto di protesta contro il graffito dedicato a Mladić?
La vicenda ha suscitato reazioni contrastanti. Il governo e i suoi sostenitori, come atteso, hanno reagito in modo negativo, diffondendo menzogne e cercando di manipolare l’opinione pubblica. L’appoggio è arrivato da molti antifascisti e organizzazioni della società civile provenienti dalla Serbia, ma anche da altri paesi della regione. Purtroppo, alcuni hanno reagito in modo che definirei insensato, cercando in un certo senso di relativizzare e sminuire quello che Jelena e io abbiamo fatto. Una vera cacofonia di commenti, molte bugie e argomenti farlocchi, e nemmeno questo deve stupire. Penso che si tratti di una sorta di invidia provata da chi è moralmente impotente e incapace di agire, un comportamento che dice molto di più sulle persone che mi rivolgono tali commenti che su noi due e sul gesto che abbiamo compiuto. È curioso notare che uno dei commenti più diffusi è quello secondo cui io avrei ricevuto soldi da Vučić, e a diffonderlo sono proprio le persone in qualche modo legate a Vučić.
Ritiene che in Serbia possa verificarsi una rivolta contro l’ascesa dell’estrema destra?
Credo che ciò sia possibile, ma non in questo momento. Oserei anche affermare che una rivolta potrebbe accadere prima che ce l’aspettiamo. La Serbia è un paese devastato in ogni senso, la gente è affamata, impaurita e stanca, siamo scoraggiati di fronte all’ingiustizia e al nepotismo, la maggior parte dei cittadini è economicamente esausta e incapace di opporre resistenza. Ma la storia ci insegna che la resistenza nasce sempre là dove non ci si aspetta che nasca, dove le condizioni di vita sono misere e dove sembra che non ci sia alcuna via d’uscita.