Un racconto, inedito in Italia, del fumettista Aleksandar Zograf, che mescola i ricordi del nonno durante la Seconda guerra mondiale, un viaggio a Berlino e il rischio di rimanere bloccato per via della cancellazione dei voli durante la pandemia di coronavirus
(Originariamente pubblicato per il settimanale Vreme , il 26 marzo 2020)
La sistematicità tedesca è incredibile. La sala di un cinema d’essai di Berlino, dove avrebbe dovuto essere proiettato il film “Poslednja avantura Kaktusa Bate” [L’ultima avventura di Kaktus Kid], in cui compaio come narratore e ricercatore, era stata prenotata già nel maggio 2019. Al momento della prenotazione era stata stabilita anche la data di proiezione, l’11 marzo 2020. La proiezione del film si inseriva in un più ampio programma di eventi a cui avrei dovuto partecipare durante la mia visita a Berlino: una mostra dedicata al giornalismo a fumetti, organizzata nel Museo delle culture europee, e poi la presentazione di un libro ispirato ai racconti della Seconda guerra mondiale (intitolato “Partisanenpost”), con i miei fumetti dedicati allo stesso tema pubblicati nel corso degli anni sul settimanale Vreme.
La casa editrice Bahoe Books di Vienna ha accettato di pubblicare anche un supplemento al libro contenente un contributo originale: un lungo testo in cui mi sono occupato del destino di mio nonno materno, che durante la guerra era membro del movimento di resistenza (da queste parti i membri della resistenza venivano chiamati “clandestini”). È una storia difficile, perché nell’estate 1944 gli agenti della polizia locale, composta da Volksdeutsche [cittadini di etnia tedesca che vivevano al di fuori dalla Germania] scoprirono che i miei nonni erano coinvolti in attività clandestine (a quel tempo a Pančevo e in altre città del Banato viveva una numerosa minoranza tedesca, i cui rappresentanti, agendo in sinergia con l’esercito di occupazione, entrarono a far parte del nuovo governo [collaborazionista]). I tedeschi fecero irruzione nella kafana di mio nonno, dove c’era una stanza segreta in cui i miei nonni nascondevano chi fuggiva dalla persecuzione nazista, ma il nonno riuscì a scappare. Si nascose nelle paludi del Pančevački rit, prima di unirsi ai partigiani. Mia nonna perse i gemelli che portava in grembo dopo essere stata brutalmente picchiata. Fu salvata dai vicini di casa, i Volksdeutsche, che rassicurarono gli agenti di polizia, affermando che mia nonna non era in nessun modo coinvolta in attività clandestine che ebbero luogo nella sua casa (il che ovviamente non era vero). Nella sua attività cospirativa, mio nonno collaborava anche con gli antifascisti tedeschi, sia quelli “locali” che quelli provenienti dal Reich che – correndo rischi enormi – lottarono contro la potente macchina da guerra nazista.
Mi è sembrato che ci fosse qualcosa di simbolico nel fatto che tutto questo materiale venisse presentato per la prima volta proprio in Germania (l’edizione italiana dovrebbe uscire a settembre). Il libro doveva essere presentato alla Fiera del libro di Lipsia e mi avevano contattato alcune emittenti radiofoniche e televisive che volevano intervistarmi. È interessante che la guerra, pur essendo un argomento tutt’altro che leggero, sia ancora oggetto di dibattito in Germania, ed ero curioso di osservare da vicino le reazioni al libro.
Tuttavia, nel 2019, quando questi eventi erano ancora in fase di preparazione, nessuno poteva nemmeno immaginare quello che sarebbe accaduto nel marzo 2020. Quando la situazione legata all’epidemia di coronavirus ha cominciato ad aggravarsi, la Fiera del libro di Lipsia è stata annullata, ma la mostra e la proiezione del film a Berlino non sono state cancellate. Ho pensato che sarebbe stato poco professionale e, come minimo, scorretto da parte mia disdire il viaggio. Anche se stava diventando chiaro che la paura dell’epidemia stava superando in modo incontrollato i limiti della ragionevolezza, nessuno poteva immaginare che i paesi europei avrebbero iniziato a introdurre, con una velocità dettata dal panico, forti limitazioni alla libertà di movimento.
Poco prima di partire per Berlino, a Pančevo ho incontrato per caso l’antropologa Ildiko Erdei. Abbiamo iniziato a commentare la situazione, il dilagare dell’isteria collettiva, e la mia conclusione era che la vicenda offriva parecchio materiale di riflessione per gli studiosi di antropologia sociale. Ildiko mi ha consigliato di leggere un articolo di Barbara Plagg , docente di Igiene e di Medicina preventiva e sociale presso l’Università di Bolzano. Ho letto l’articolo solo al rientro dal viaggio: è come se le riflessioni della dottoressa Plagg rispecchiassero i pensieri che mi tormentavano durante il viaggio…
A Berlino l’atmosfera era piuttosto rilassata. Nonostante tutti seguissero le notizie sul coronavirus, solo in pochi indossavano la mascherina. Forse non c’era tanta gente come prima, ma tutto funzionava come al solito. Poi all’improvviso è giunta la notizia che i musei a Berlino dovevano chiudere i battenti al pubblico. Era l’ultimo giorno in cui potevo visitare una mostra dei miei fumetti, organizzata nell’ambito di un’iniziativa intitolata “comiXconnection”, un evento ben ideato dedicato ai fumettisti di vari paesi, già presentato in venti città del sud-est Europa e in Germania.
Ho proseguito il viaggio per Lipsia dove, nonostante la Fiera del libro fosse stata cancellata, era ancora possibile visitare alcuni piccoli eventi, come quelli organizzati in uno spazio alternativo chiamato ironicamente “The Millionaires Club”, ma anche lì già si avvertiva tensione e confusione. Ovunque si parlava di notizie allarmanti riguardanti le varie misure adottate dallo stato ed entrate subito in vigore.
Stavo per tornare a casa, ero salito su un volo easyJet per Belgrado. Alcuni passeggeri dicevano che era difficile capire cosa stesse accadendo, perché gran parte dei voli era stata cancellata, e alcuni di loro si sono trovati su quel volo easyJet proprio perché molti altri voli erano stati improvvisamente annullati. Tutto sembrava un po’ esagerato, perché nei Balcani e in Serbia l’epidemia era di dimensioni molto più ridotte rispetto a quelle raggiunte in Europa occidentale. Del resto, noi – viaggiatori modesti – avevamo appena passato il controllo passaporti e ci trovavamo sull’aereo che iniziava a rollare sulla pista. Ma che cos’è quello strano suono? Freniamo e l’aereo si ferma. Ci dicono che si attendono ulteriori istruzioni a causa delle misure che la Serbia aveva introdotto per contrastare la diffusione del coronavirus. Dopo un’ora di attesa ci fanno sapere che il volo è stato cancellato e che dobbiamo tornare all’aeroporto. Alcuni passeggeri piangevano. Altri dicevano che volevano solo tornare a casa e stare con i propri figli. Come se qualcuno potesse sentirli. Poi tutti i passeggeri si sono dispersi in giro per l’aeroporto, non sapendo che fare. Dopo un po' è arrivata la notizia che anche il volo di Air Serbia per Belgrado, previsto per il giorno successivo, era stato cancellato.
Va bene, siamo in un paese ordinato, in Occidente, qui tutto dovrebbe essere regolato da norme, per ogni problema ci sarà una soluzione intelligente… Ci siamo messi in coda ancora una volta per il controllo dei passaporti perché, formalmente, stavamo di nuovo entrando nel territorio tedesco. “I voli sono stati cancellati. Cosa facciamo?”, ho chiesto a un poliziotto che controllava i passaporti, e lui mi ha risposto: “E io che diavolo ne so?!”. A quel punto ho capito che dovevo assolutamente andarmene, il prima possibile.
Dopo aver ricevuto il mio messaggio in cui spiegavo la situazione, Beate Wild, curatrice della mostra “comiXconnection”, ha cancellato tutti i suoi impegni ed è arrivata all’aeroporto. L’unico e molto costoso volo per Belgrado disponibile quel giorno prevedeva uno scalo a Francoforte. Io ho pagato una parte della somma, mentre Beate ha aggiunto il resto dei soldi, di tasca propria. Sono stato fortunato ad avere un’amica come lei. Era chiaro che non c’era tempo per esitare. Temevo che anche il volo da Francoforte potesse essere cancellato, ma bisognava comunque tentare. Ho passato l’intero viaggio (da Berlino a Francoforte) pensando a soluzioni alternative. L’opzione più praticabile era quella di prendere il treno per Monaco di Baviera e poi cercare di trovare alcuni balkanci [persone provenienti dai paesi dei Balcani] – da quelle parti ce ne sono parecchi – che avrebbero potuto portarmi in Serbia attraverso vie semilegali, cioè attraverso la frontiera che in quel momento sarebbe stata percorribile. Ho pensato che probabilmente ci fossero migliaia di persone intrappolate da qualche parte tra i vari paesi che non sapevano che strada prendere e come raggiungere la loro destinazione. D’altra parte, ci sono migliaia di migranti, in una posizione ancora più difficile, che viaggiano in direzione opposta, cercando – ad esempio attraverso la rotta balcanica – di raggiungere la Germania. Se lo scopo di quelle misure affrettate era quello di impedire la diffusione del virus, l’effetto è stato più che controproducente. Probabilmente perché i fautori di questa strategia provengono dai paesi stabili da punto di vista finanziario e non si preoccupano dei problemi riscontrati dai viaggiatori meno abbienti.
All’uscita d’imbarco qualcuno cantava “Corona, corona, coronaaa” sulle note della canzone “Marina” eseguita negli Cinquanta da Rocco Granata. Sono salito di corsa sull’aereo Lufthansa per Belgrado, aspettandomi che facessimo marcia indietro in qualsiasi momento e ritornassimo nell’incertezza. Eccolo il comandante del volo, adesso ci parlerà! “Ha haa, ammettetelo, pensavate che questo aereo non sarebbe mai decollato”, ha detto il comandante con tono scherzoso, assomigliando più al capitano di una nave pirata che al comandante di un aereo. Durante il volo una passeggera, che portava con sé la sua tuba, ha suonato “Over the Rainbow”; persino le hostess hanno applaudito. Si sapeva già che a mezzogiorno del giorno successivo l’Unione europea avrebbe chiuso le frontiere. Tutti hanno tirato un sospiro di sollievo, poi una volta giunti all’aeroporto di Belgrado siamo tornati alla realtà balcanica. Una fila enorme di persone aspettava… qualcosa. Era impossibile capire esattamente cosa stesse accadendo, finché non sono riuscito a farmi strada, insieme alla folla, fino ad un’impiegata (come se nell’intero paese non potessero trovare almeno trenta impiegate) che ha raccolto le nostre dichiarazioni e ci ha consegnato un foglio contenente informazioni sull’autoisolamento obbligatorio di 14 giorni. L’attesa e il tentativo di farsi strada tra la folla di persone stanche per raggiungere quell’impiegata sono durati ben quattro ore, e difficilmente poteva esserci modo migliore per diffondere il contagio.
Insomma, quando mi sono svegliato la mattina dopo, non mi pesava dover restare in isolamento perché anche in circostanze normali lavoro da casa. Tuttavia, mi chiedevo cosa fosse esattamente accaduto nei giorni scorsi e quali conclusioni fosse possibile trarre da quell’esperienza?
Primo, mentre sto scrivendo questo testo, l’escalation di eventi in tutto il mondo legati all’epidemia di coronavirus è ancora in corso, e probabilmente dovrà passare qualche tempo prima che si possa fare un bilancio e analizzare bene l’intera situazione. Tuttavia, è difficile resistere all’impressione che viviamo in un mondo incline ad accettare suggerimenti di vario tipo che, grazie alla rete e ai media, possono diffondersi con una velocità paragonabile a quella con cui si diffonde un incendio boschivo, prima che qualcuno riesca a metterli sotto esame. Sembra che, in tali circostanze, a volte sia molto difficile distinguere tra problemi reali e immaginari, e questo vale non solo per la raja [gente comune], ma anche per chi la governa, anche nei paesi avanzati. Il comportamento dei politici populisti, che oggi dominano la scena internazionale, è un chiaro esempio di indulgenza ai capricci delle menti mediocri.
Ecco qualcosa su cui riflettere: in questi giorni, per la prima volta nella storia, l’intero mondo si è fermato a causa di un’epidemia di cui all’inizio non si sapeva se e quanto fosse fatale e, soprattutto, se fosse diversa da simili epidemie scoppiate in passato, che ovviamente non hanno distrutto l’umanità. È tutto legato alle circostanze politiche che possono riflettersi sulla psiche collettiva? Come l’opinione pubblica, ma anche i sentimenti dei cittadini dell’Occidente – la cui élite politica è stata l’unica capace di intraprendere misure draconiane su così larga scala – possono incidere sugli eventi globali?
In un mondo unipolare, il modello politico, tecnologico, ma anche di pensiero occidentale risulta vittorioso, e non è difficile notare come riesca ad imporsi al resto del mondo. Per quanto possa suonare strano, la posizione di leadership di cui gode l’Occidente è stressante e suscettibile di essere influenzata da varie paure. Non bisogna dimenticare che il coronavirus è comparso prima in Cina, che oggi sta col fiato sul collo all’Occidente. Forse era più facile tenere a bada questo paese molto popolato all’epoca in cui tutti i cinesi guidavano biciclette e sventolavano le tessere del partito comunista. L’Occidente percepiva tale comportamento come un segno di primitivismo di una società che difficilmente avrebbe potuto rappresentare un serio avversario per i paesi occidentali. Tuttavia, con l’enorme sviluppo economico e tecnologico della Cina, per l’Occidente è diventato sempre più difficile accettare un miliardario dagli occhi a mandorla che sa tutto sui Rolling Stones. La comparsa di una malattia diffusasi dalla Cina poteva essere percepita come un’enorme minaccia. D’altra parte, gli stessi cinesi hanno contribuito a questa situazione perché, nonostante il progresso raggiunto, ancora percepiscono se stessi come inferiori, e primitivi rispetto all’Occidente (ad esempio, non esistono i Rolling Stones cinesi, almeno non ancora).
Paradossalmente, la grande azione intrapresa dalle autorità cinesi per contenere la diffusione del coronavirus ha solo rafforzato i timori dell’Occidente: “Se i cinesi hanno avviato una campagna così ampia per combattere una malattia, allora è una cosa grave”. Subito si è diffuso il panico, e la soluzione si è cercata nella chiusura e nell’isolamento totale; i contagiati venivano contati costantemente, come se si trattasse di una gara. I discorsi suggestivi sul nemico invisibile (la retorica dei funzionari occidentali assomigliava alla retorica bellica) sembravano convincenti proprio perché giungevano da paesi avanzati. Non c’è nemmeno bisogno di sottolineare che l’intera situazione è particolarmente vantaggiosa per i funzionari statali di ogni colore, che ora compaiono nel ruolo di protettori e salvatori, e dei problemi si discuterà dopo. Ancora più ridicolo è il ruolo dei “dignitari” balcanici che, come d’abitudine, prima hanno ignorato il problema del coronavirus – che è un problema globale – , per poi unirsi alla corrente dominante, per non essere percepiti come “primitivi”.
Ovviamente sarebbe da stupidi non rendersi conto che bisogna proteggere se stessi e gli altri dall’epidemia di coronavirus, e uno dei modi per farlo consiste nel migliorare le basilari abitudini igieniche. Come sostiene la sopracitata Barbara Plagg, nel mondo, purtroppo, ci sono problemi molto più gravi che, a causa dell’attuale ossessione dal coronavirus, sono diventati completamente invisibili, come, ad esempio, la presenza di microplastiche nell’aria, la crisi dei migranti, la fame, di cui ogni anno muoiono 9 milioni di persone. L’articolo di Barbara Plagg parla anche di una possibile conseguenza positiva della situazione a cui assistiamo, cioè del primo impegno globale per far fronte a un problema che affligge l’intero mondo: “Quindi, il coronavirus ci ha dimostrato che si può fare tutto, basta volerlo. Sì, gli stati possono agire, aiutarsi e comunicare tra loro velocemente, senza burocrazia, a livello internazionale […] è possibile trovare rapidamente i soldi necessari, mobilitare rapidamente le risorse umane necessarie per risolvere un problema […] è solo questione di volontà”. L’autrice conclude affermando che manca ancora la volontà di risolvere alcuni dei problemi più pressanti del mondo. Quindi, quando tutto questo sarà finito, le cose probabilmente torneranno come prima…
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Coronavirus: la preoccupazione per la salute pubblica nell'Est Europa. Un dossier