Nonostante stia andando all'asilo solo da una settimana Luka ha già le idee chiare: non gli piace l'asilo, non gli piace la scuola, non vuole giocare, non gli piacciono i bambini, non gli piace niente. Un racconto pubblicato dal settimanale Vreme sulla quotidianità vissuta da molti genitori con bambini piccoli. In Serbia come in Italia
Di Sasa Markovic, 13 ottobre 2005, Vreme (tit. orig.: Vrtic)
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Ivana Telebak
Stamattina il piccolo Luka si è svegliato svogliato e di malumore. Non ricorda che giorno era ieri o l'altro ieri, ma sa molto bene che oggi è lunedì, il giorno in cui nessuno dei familiari è particolarmente felice. Perché il lunedì la mamma e il papà devono andare al lavoro e Luka all'asilo. Nonostante stia andando all'asilo soltanto da una settimana, Laki ha già le idee molto chiare: "Non mi piace l'asilo, non mi piace la scuola, non voglio giocare, non mi piacciono i bambini, non mi piace niente." Non ha ancora perdonato ai genitori che, appena compiuti i tre anni e festeggiato una bellissima-giornata-di compleanno-del nostro-Luka (divan-dan-nasem-Luki-rodjendan), invece di andare dalla nonna Mika e dal nonno Boki, lo hanno mandato all'asilo "Plavi cuperak" ("Ciuffo biondo" - nota poesia per bambini del poeta Miroslav Antic, ndt.).
Dicevano bene gli altri, che non sarà facile, che si deve adattare, socializzare, ma noi speravamo segretamente che il nostro bambino fosse più intelligente e più ragionevole degli altri e che gli si potesse spiegare tutto con parole gentili. Ed ecco il miracolo, il piccolo Laki ha "scontato" bene i suoi primi due giorni senza grossi problemi. A dire il vero, stava là per poche ore, e non voleva mangiare da solo ma lo imboccava la maestra, e non giocava con gli altri bambini, e non voleva parlare, e piangeva tanto, ma ha lasciato "una buona impressione", così almeno avevano detto all'asilo. Ma, già il mercoledì, appena si è svegliato, ha capito che la scuola non ha più nulla da offrirgli. E per dio nemmeno lui alla scuola. Invece di "papà, dammi il succo", dal letto si sentivano il pianto e le grida disperate: "non voglio andare all'asilo".
Così il mercoledì abbiamo sofferto tutti insieme, lui piangendo lasciato all'ingresso della scuola, e noi cercando di pensare in che modo avremmo fatto a superare i successivi due giorni. Il giovedì e il venerdì gli abbiamo promesso: sabato e domenica liberi, gioco illimitato di "pericolose sparatorie" al computer, frittelle e crepes, la nonna Mika e il nonno Boki, mari e monti e tutto quello che ci veniva in mente, solo per renderlo di buon umore. Ce la siamo cavata in qualche modo in quei due giorni, il week end è passato come ai vecchi tempi, dell'asilo neanche un cenno, solo la domenica sera abbiamo iniziato a pensare insieme a cosa ci aspettava di nuovo. "Sarà bello all'asilo", dice Laki mentre gli trema la bocca e gli occhi si inumidiscono. Nessuno non osa dire nulla, si sente solo Cartoon Channel e il rumore della spada di Jack il samurai.
Però, qualcosa è cambiato questo lunedì, qualcosa di importante e inaspettato. Invece del pianto trattenuto, dei sospiri profondi e del secco "non vogliooooooo!", Laki in modo misterioso farfuglia: "Voglio andare all'asilo, ma..." E mentre lo vestiamo lui ripete più volte la stessa frase. Mi sento un po' incoraggiato, vedo che non gli va di andare, ma almeno non fa resistenza attiva, ed è già qualcosa. Facciamo colazione, non ci becchiamo come sappiamo fare, lui è nel suo seggiolino, e io sul tavolino da tè accanto a lui, col piatto di fiocchi di mais, il cucchiaino e il tovagliolo. Laki mangia in modo meccanico, guarda i Puffi alla TV, e nella pausa fra un boccone e l'altro, ogni tanto ripete "Voglio andare all'asilo, ma..." con molta cautela cerco di scoprire cosa vuol dire in realtà quel "ma", di scoprire cos'è che lo turba e spaventa, ma senza successo. Non esagero nelle domande, perché se si mette a piangere, rovino tutto. Perché a Laki piace parlare, ma non discutere.
Come al solito, alle otto usciamo di casa, come al solito ci fermiamo davanti alla porta d'ingresso così Laki si alza in punta di piedi e accende la luce nel corridoio del palazzo. La breve felicità perché le dita sono abbastanza forti per superare l'interruttore è subito trasformata nella vecchia preoccupazione: "Voglio andare all'asilo, ma...", e continua così mentre passeggiamo fino alla macchina, mentre lo mettiamo dentro e lo leghiamo sul seggiolino, mentre guidiamo in Via Visnjic, in una mattina piovosa con una leggera nebbiolina. Laki è un po' nervoso.
Siamo arrivati, riconosciamo la ressa del mattino e i genitori davanti all'asilo. Dobbiamo fare in modo di far uscire Laki dalla macchina, " slegati", "andiamo", "salta fuori", " sbrigati", "di cosa hai paura", " guarda Sofia che sta andando", " vedi qualcuno piangere", "faremo tardi al lavoro", "dai non piangere", "c'è la signorina Persa", " ma sarà bellissimo". Sì bellissimo, come no. Se ne frega Laki del nostro lavoro, di Sofia o di Sonia, non sa nemmeno come si chiami in realtà quella cicciottella, non sa di un'altra Sofia (o Sonia), o di un altro Luka, di quindici bambini e solo dieci nomi diversi, nessuno ci fa caso, se ne frega anche del piccolo Andrija che "sempre piange", per lui il suo dolore è il più grande e il più importante. E mentre tutto teso e impaurito guarda gli altri bambini che allegramente entrano nel cortile, forse spera ancora segretamente ad una salvezza improvvisa. Dove sono adesso tutte quelle nonne, nonni, zie e zii, cosa fa il bisnonno a Pozeravac, dove sono per aiutarlo, per salvarlo e per dargli la mano nel momento più difficile?
E solo là, mentre saliamo sull'ultimo gradino prima di farci inghiottire dalla calda oscurità dell'ingresso della scuola, Laki finisce la sua frase iniziata da tempo: "Voglio andare all'asilo, ma... ma... non vogliooooooo!" Lacrime e sospiri, si capisce.