Pin-up (dal web)

C’era una volta la Jugoslavia di Tito che offriva al mondo l’immagine di una società alternativa. Ma Dušan Veličković diffida della retorica ufficiale e ripercorre la storia dei Balcani inseguendo una collezione di esperienze personali. Una recensione

20/03/2014 -  Diego Zandel

Credo che siano, in gran parte, testi occasionali, e altri ispirati dall’attualità, quelli che il serbo Dušan Veličković ha raccolto in “Balkan pin-up”, e pubblicato in Italia da Zandonai per la traduzione di Sergej Roić. Ma hanno una loro compatta unità nell’idea che esprimono nel loro insieme, riconducibile a un discorso antinazionalista, a tratti libertario, sicuramente espressione di quell’anticonformismo balcanico che rappresenta quanto di meglio questo subcontinente ha dato alle arti tutte, a cominciare dalla letteratura. Anche se qui ci troviamo nel campo della pura pubblicistica.

Nel suo libro, infatti, Dušan Veličković interviene in un dibattito tutto interno alla Serbia, partendo però dagli anni della ex Jugoslavia, ai tempi della sua gioventù, vissuta nel nome di Tito. Jugoslavia alla quale lo scrittore toglie la maschera che un po’ le è rimasta di paese aperto, rispetto agli altri regimi comunisti, moderno, innovatore. E lo fa, Veličković, attraverso il percorso dei suoi ricordi personali e famigliari, evitando considerazioni di stretto carattere politico in chiave teorica. Solo ricordi, trasformati in racconti.

Tutta la prima parte, dal titolo “Antenati balcanici”, si misura con l’epoca in cui lui è nato e cresciuto, ovvero dal 1947, anno della sua nascita, non senza riferimenti alla vita dei genitori e dei nonni, fino agli anni Settanta. In questo quadro l’autore fa solo un accenno ai fatti di cronaca per dare vita a quegli aspetti subliminali che distinguono uno scrittore da uno storico.

Lo scrittore, infatti, al contrario di quello che fa lo storico, si affida esclusivamente alla propria memoria personale per la ricostruzione di ambienti e persone, e i cui ricordi suscitano in lui quelle emozioni, sentimenti, dettagli, che intende trasmettere al lettore. E, allora, ecco il grande ritratto di una Jugoslavia che dietro la facciata hollywoodiana di Tito e Jovanka, con i loro abiti e divise eleganti se non sfarzosi, le crociere a bordo del Galeb, il panfilo personale di Tito, i ricevimenti a Brioni, si profila un paese ancora carico delle sue ferite. Frammenti significativi, tra gli altri, l’arresto di suo padre, in carcere per un giorno solo per aver espresso, “in presenza di testimoni” la frase “Che ce ne facciamo di tutti questi ladri e dittatori?”; oppure, quello dell’amico Radovan, che era stato internato a Goli Otok, e per il quale, come suonava alla porta, si affrettavano a nascondere il pentolino con la scritta “Ricordo di Divčbar”, perché “sull’Isola Calva lo picchiavano sulla testa con un pentolino di metallo”.

Veličković, però, punta molto su quando lui, giovane di belle speranze, ebbe l’opportunità di andare all’estero e confrontarsi con il resto d’Europa. Gli anni d’oro, se tali potevano chiamarsi, erano stati quelli, d’oro perché alimentati da una gioventù che voleva rompere la crosta autoritaria e, se il caso lo richiedeva, feroce, che opprimeva un popolo tenuto a un guinzaglio che poteva essere più o meno allungato, ma mai slegato dal collo.

Veličković ricorda quando, con l’amico Previslav chiese il passaporto per andare negli Stati Uniti (“Tito decise che tutti i cittadini jugoslavi avrebbero potuto richiedere un passaporto […] Tuttavia dietro a questa decisione, come avrebbe detto Marx, c’era la ‘ferrea logica dell’economia’ e cioè la necessità di addolcire la grave disoccupazione che caratterizzava la Jugoslavia permettendo a chi lo desiderasse di andarsene per misurarsi col cosiddetto temporaneo lavoro all’estero”). Previslav riuscì ad andarci, poi però ne perse le tracce, finché venne a sapere che era stato ucciso. “Girava voce che l’avessero eliminato i servizi segreti jugoslavi perché era in contatto con la cosiddetta emigrazione nemica del paese” annota Veličković, con commento finale: “Non so se tutto ciò sia vero, ma non mi sorprendeva affatto lo fosse”.

La parte più straordinaria, struggente per certi versi, sicuramente carica di affettuosa nostalgia, è quella del periodo in cui lo scrittore, in quegli stessi anni, ha vissuto in Germania, naturalmente al fianco di altri jugoslavi. In particolare di uno, di cui fu il migliore amico: quel Zoran Đinđić, che fu il primo premier democraticamente eletto della Serbia, nel 2001 e ucciso due anni dopo.

La seconda parte del libro, intitolata “L’attentato”, parla di questo. Attraverso i ricordi di Veličković abbiamo non solo il ritratto di un uomo profondamente democratico, in gioventù vicino all’anarchismo, sicuramente al mondo libertario, delle cui idee voleva servirsi per spazzare via tutti quegli aspetti arcaici che, pur nella Jugoslavia comunista, sopravvivevano nei costumi, nei pregiudizi nazionali, etnici e religiosi. Quegli aspetti, cioè, sui quali poi, con il crollo della Jugoslavia, avrebbe soffiato Slobodan Milošević, quello che sarà il nemico principale non solo di Đinđić, e anche di Veličković, ma di un’idea di Serbia sottratta ai fanatismi che l’hanno trascinata in un conflitto le cui tensioni continuano a tenere a freno un popolo dalle potenzialità enormi che uomini come Đinđić contavano di liberare. Cosa che, poi, e non solo per l’attentato all’allora primo ministro serbo, non è avvenuta.

Perché?

E siamo all’ultima parte. Delle tante considerazioni, queste sì legate a scritti dettati dall’attualità, mi limito a citare il riferimento agli ultimi fatti quelli del 28 giugno 2013 (giorno importante, perché al 28 giugno, San Vito, sono legate alcune delle pagine più importanti della storia della Serbia: quella battaglia di Kosovo polje, avvenuta nell’anno 1389, e quella del 1914, quando Gavrilo Princip attentò alla vita di Francesco Ferdinando dando avvio alla Prima guerra mondiale). Di quel giorno è la notizia che il Consiglio europeo ha deciso di dare inizio ai negoziati che dovrebbero portare la Serbia ad aderire alla Unione europea, mentre “fra due giorni la Croazia diventerà membro a tutti gli effetti dell’Unione europea”. Ma la notizia che più preoccupa Veličković è un’altra, e cioè che, quello stesso giorno, al concerto di Ceca, la cantante pop, vedova del comandante Arkan “collegata al sottobosco politico e criminale di Milošević”, hanno preso parte più di centomila persone.

Peggio ancora: a riguardo lo scrittore è venuto a sapere che un gruppo di vittime di guerra, dell’Associazione delle Madri di Srebrenica, che viaggiava in pullman verso L’Aia per assistere al processo del criminale Radovan Karadžić durante il viaggio ascoltavano le canzoni di Ceca. Il commento di Dušan Veličković è: “Quelle donne sciagurate che avevano perso i figli nel massacro di Srebrenica si immedesimavano nelle canzoni della vedova di un comandante paramilitare, fra cui spiccavano anche quelle dedicate esplicitamente a suo marito Arkan, ucciso durante una resa dei conti di stampo mafioso”.