In occasione del 21 marzo, Giornata Mondiale della Poesia, pubblichiamo un contributo sul poeta romantico serbo Branko Radičević (1824-1853)
Quando, verso la fine degli anni Settanta, Zdravko Čolić, uno dei più famosi cantanti jugoslavi, eseguì per la prima volta Pjevam danju, pjevam noću[Canto di giorno, canto di notte], il brano (arrangiato dal grande maestro del ritmo Kornelije Bata Kovač) divenne subito una hit ed è tuttora molto popolare in tutta la regione ex jugoslava. Čola, nato a Sarajevo, ma ormai da tempo residente a Belgrado, esegue questa canzone in ogni concerto. All’epoca dell’uscita del brano in pochi conoscevano il nome dell’autore del testo, meno numerosi ancora erano quelli che sapevano a chi era dedicata quella canzone. Ma ne parleremo più avanti.
Ho un vago ricordo del manuale di letteratura del secondo anno del liceo. Un libro – arricchito di numerose fotografie in bianco e nero e dipinti raffiguranti scrittori – che conteneva anche una selezione di poesie di Branko Radičević preceduta da un ritratto fotografico del poeta: un volto allungato incorniciato da capelli lunghi, uno sguardo assente. Ad aprire la raccolta fu la poesia Kad mlidijah umreti [Quando pensai alla mia morte] scritta da Branko dopo aver appreso di soffrire di tubercolosi. Tra le sue opere incluse in quel manuale di letteratura c’era anche Il kolo [danza popolare diffusa in molti paesi dei Balcani], un frammento tratto dal poema Đački rastanak [L’addio di uno studente]. Dovevamo imparare a memoria quei versi dedicati all’unificazione (poetica) degli slavi del sud (Nonostante Branko si riferisse ai territori all’epoca abitati da serbi, con questa poesia voleva esprimere un sentimento jugoslavo, anziché strettamente serbo. La poesia fu accolta positivamente anche dalle autorità comuniste proprio perché vi trovarono quasi tutti i popoli della futura Jugoslavia, un paese preannunciato con il kolo del sogno poetico di Radičević per poi dissolversi in un kolo sanguinoso trent’anni fa. Ad ogni modo, da liceali osservammo la figura di Branko Radičević da una prospettiva segnata da quei versi che preannunciano la morte del poeta.
Ebbi la fortuna di avere Božidar Boro Pejović (1940-1979) come professore di letteratura romantica durante i miei studi a Sarajevo. Fu un ottimo conoscitore del romanticismo nelle letterature europee, comprese quelle degli slavi del sud. Aveva un debole per Njegoš, Novalis e Branko [1]. Fu grazie a lui che la visione nata dal mio incontro liceale con Branko subì una metamorfosi radicale. Nel corso delle conversazioni con gli studenti, pur non avendola mai esplicitata, il professor Pejović suggeriva l’idea che era impossibile avere un’immagine completa di un artista senza conoscere in modo dettagliato tutte le sue opere. E le fonti secondarie? Ognuno poteva scegliere se consultarle o meno.
Due parole sul poeta. Branko Radičević nacque il 28 marzo 1824 a Brod na Savi (oggi Slavonski Brod). Il suo nome di battesimo era Aleksije (decise di cambiare nome prima della pubblicazione del suo primo libro). Gli anni liceali trascorsi a Sremski Karlovci e le frequenti gite a Stražilovo (una località della Fruška Gora) ebbero un forte impatto sulla sua poetica e furono immortalati nel poema Đački rastanak in cui il poeta per la prima volta espresse il desiderio di essere sepolto in quel luogo. Frequentò gli ultimi anni del liceo a Timişoara dove suo padre, Todor Radičević, prestava servizio come funzionario della dogana. Nel 1843 si trasferì a Vienna per studiare giurisprudenza, ma al terzo anno rinunciò agli studi. Nel periodo immediatamente precedente alla rivoluzione del 1848 il suo spirito focoso e irrequieto, anziché dagli studi e dalla professione del giurista, era attratto dalla poesia e dalle idee della borghesia europea che si opponevano alla Restaurazione. Il rapporto di amicizia che legava la famiglia Radičević a Vuk Stefanović Karadžić permise a Branko di entrare nella ristretta cerchia di collaboratori e amici del noto riformatore della lingua serba. Dopo la morte del fratello Stevo, Branko strinse un rapporto di fratellanza con il filologo Đuro Daničić, uno dei giovani seguaci di Vuk Karadžić. La sua prima raccolta Pjesme [Poesie] del 1847 [2], scritta nella lingua popolare, ispirandosi al romanticismo e alle idee di Vuk, fu di grande aiuto al riformatore della lingua serba. In vita pubblicò solo un’altra raccolta di poesie, uscita due anni prima della sua morte prematura [3]. Branko si spense all’età di ventinove anni, colpito dalla stessa malattia che causò la morte di sua madre, Ruža, vent’anni prima. Dopo la liturgia funebre tenutasi nella Chiesa greca di Vienna, fu sepolto nel cimitero di San Marco, dicono nell’area riservata ai poveri.
Stando ai suoi biografi, Branko fu praticamente dimenticato fino al 1877 quando Stevan V. Popović Vacki, membro del parlamento croato, poi di quello ungherese, impegnato anche in ambito culturale, dedicò a Branko l’intera edizione del suo annuario illustrato Orao [L’aquila]. Poi il noto poeta Jovan Jovanović Zmaj dedicò a Branko una poesia intitolata Brankova želja [Il desiderio di Branko]. L’opera uscì sulle pagine dei principali giornali serbi, dando il via ad una raccolta fondi per il trasferimento della salma di Branko a Stražilovo. Reagì anche il poeta Laza Kostić che, spinto dalle precedenti polemiche con Zmaj, scrisse la poesia Prava Brankova želja [Il vero desiderio di Branko], enfatizzando l’antica credenza secondo cui i morti non si toccano. Così la questione del trasferimento della salma di Branko cadde nell’oblio. Solo sei anni più tardi, quando a Vienna si diffuse la notizia, poi giunta anche agli abitanti di Sremski Karlovci, che il cimitero di San Marco sarebbe stato distrutto e che le autorità avrebbero fissato un termine di dieci giorni per trasferire le sepolture, venne rilanciata la raccolta fondi e iniziò una vera e propria corsa contro il tempo per riuscire a salvare i resti mortali di Branko.
I promotori dell’iniziativa riuscirono nella loro impresa e dal 1883 la tomba di Branko si trova a Stražilovo. La bara fu trasportata in treno, poi a bordo della nave Nimfa lungo il Danubio. Quel lontano giorno di luglio del 1883 si tenne una grande cerimonia. In onore di Branko, Jovan Paču, medico, pianista e compositore originario di Sombor, compose Il kolo di Branko. Due anni dopo a Stražilovo fu eretto un monumento dedicato al poeta [4] che reca incisi i seguenti versi: Voleva fare molto, iniziando molte cose/ L’ora della morte lo fermò.
Se doveste recarvi a Sremski Karlovci, prima o dopo una visita a Stražilovo, non perdete l’occasione di assaggiare un vino locale bermet (aromatizzato con venti erbe medicinali – non esagerate però con questa “cura”) e il kuglof, un dolce un tempo riservato alla nobiltà, oggi disponibile a tutti, diventando un fiore all’occhiello di quell’area. Ecco, finalmente ho detto qualcosa di utile anche per i classici turisti parlando di un poeta…
Il primo poeta non solo della letteratura serba, ma di tutte le letterature degli slavi del sud ad aver messo a nudo le gambe di una donna… fino al ginocchio. In una poesia - vivace come la gioventù, la felicità e la natura in primavera - intitolata Vragolije [Diavolerie], Branko parla di un ragazzo che, attraversando un bosco, incontra una ragazza dagli occhi dolci che lava la biancheria in un ruscello. Quando lo vede la ragazza inizia a correre, addentrandosi sempre più nel folto della foresta. Poi il cielo, gli alberi, l’erba… non svelo il resto. Mi limito a dire che si tratta di una poesia piena di quella antica allegria, tanto lontana dalla valle delle lacrime cristiane. Ecco la controversa strofa:
Scappa la ragazza nude fino al ginocchio
Si vedono le sue gambe bianche
Gambe bianche fino al ginocchio
Incantano il ragazzo.
Si narra che anche il metropolita di Sremski Karlovci avesse protestato contro la poesia di Branko. “Ma come? Mettere a nudo le gambe di una donna?!”.
Branko in un certo senso mise a nudo anche Vienna nel suo tentativo di realizzare un romanzo in versi. Bezimena ili Ludi Branko [Senza nome o Branko, il Matto] è un’immagine ironica della capitale dell’Impero negli anni ’40 dell’Ottocento.
E quella canzone Pevam danju, pevam noću? A Vienna Branko conobbe Vilhelmina Mina Karadžić, figlia di Vuk Karadžić e Ana Kraus, una ragazza istruita, incline all’arte, alla poesia e alla musica, che parlava il russo, l’inglese e il serbo. Era incredibilmente bella, lo testimoniano anche alcune sue fotografie e ritratti. Mina, di certo non indifferente nei confronti del giovane poeta, amico di suo padre, descrisse così la nascita della poesia a lei dedicata alla vigilia di Natale del 1849: “Uno di loro mi regalò un libriccino – un album ricordi. Allora chiesi a ciascuno degli ospiti di scrivervi qualcosa. Così giunsi anche a Branko. E lui, in un batter d’occhio, scrisse:
Canto di giorno, canto di notte,
Canto, bella, ciò che voglio
Ciò che voglio, lo posso anche fare
Una cosa sola non la so fare ancora:
Cantare con voce forte
Forte, possente
Per sollevarti dal suolo
Portarti tra le stelle
Perché sei una stella, mia bella
Stai tra le stelline
Bella mia, tra le tue
Dolci sorelline.
Aggiungo solo una parola: magnifica. Come altrimenti definire la genialità di Branko che così spontaneamente scrisse una poesia (che evidentemente da tempo portava dentro di sé)? Ne seguì una lunga (e ben documentata) storia d’amore da cui emerge che anche il fratello elettivo di Branko, Đuro Daničić, era innamorato di Mina e che Vuk Karadžić, un uomo razionale, sia come padre sia come cittadino, non volle concedere sua figlia a nessuno dei due poveri letterati.
Da tempo ormai Stražilovo è il Parnaso della poesia serba. Nell’omonimo poema, scritto in Toscana, durante il suo primo viaggio in Italia (1921), Crnjanski con grande maestria intreccia il monte che ospita la sepoltura di Branko, il Danubio, l’Arno, l’Italia e la Pannonia (nel suo sumatrismo tutto è collegato, tutti gli esseri umani sono legati tra loro.) Non è un caso che Branko sia il protagonista anche di un dramma di Crnjanski intitolato Maska [La maschera].
Molto tempo fa soggiornai in un albergo (non ricordo il nome) sul colle fiesolano da cui si poteva ammirare la città di Firenze e l’Arno. In quell’albergo Crnjanski scrisse i duecentosedici versi del suo poema Stražilovo. Lo raccontai al proprietario dell’albergo che, nonostante la mia modesta conoscenza dell’italiano, capì le mie parole. “Interessante!”, disse, rivolgendomi uno sguardo alquanto strano. Poi mi chiese se qualche opera di Crnjanski fosse stata tradotta in italiano. “Seobe [Migrazioni]”, risposi. L’uomo scrisse attentamente quella parola.
Concludo questo articolo proposto in occasione della Giornata mondiale della poesia con una strofa del poema Stražilovo di Miloš Crnjanski.
E, anziché la mia vita, da tempo vivo
irrequietezze e ombre dei terribili vigneti.
Seguo il destino, ormai passato,
una gioventù malata, senza tregua;
Giunta solo con la nascita,
con le foglie disperse che dalla tomba di Branko
cadono coprendo la mia vita.
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[1] È ormai consueto riferirsi ad alcuni poeti serbi citando solo il loro nome. Quando qualcuno dice Branko, è subito chiaro che si riferisce a Branko Radičević. Lo stesso vale per Đura (Jakšić), Laza (Kostić) e čika Jova (Zmaj).
[2] Quello stesso anno fu pubblicata anche una traduzione serba del Nuovo Testamento a firma di Vuk Karadžić, e altre due opere importanti: Rat za srpski jezik i pravopis [La guerra per la lingua e l’ortografia serba] di Đuro Daničić e Gorski vijenac di Njegoš. Nella storia della lingua serb, il 1847 è considerato l’anno della vittoria delle idee di Vuk Karadžić.
[3] La terza raccolta fu pubblicata postuma nel 1862.
[4] Non voglio rovinare la Giornata mondiale della poesia parlando della devastazione della tomba e del monumento a Branko nel 1941 e della rimozione, avvenuta negli anni Novanta, di tutti i segni che ricordavano che Branko era nato a Slavonski Brod, né tanto meno voglio dilungarmi sul difficoltoso tentativo di ripristinare la targa commemorativa in ricordo del poeta. Se volete saperne di più, fate una ricerca in rete.