Recensione del testo di Giovanni Ermete Gaeta, Canzone serba/Srpska pesma, a cura di Giordano Merlicco, Sandro Teti Editore - Arhiv Vojvodine, Roma-Novi Sad 2021
Giovanni Ermete Gaeta (Napoli, 1884-1961) ha composto canzoni entrate nel repertorio popolare in modo tanto profondo che spesso si tende a dimenticarne l’autore, quasi considerando i componimenti come il frutto della vena poetica popolare. Gaeta è stato un protagonista non solo della cultura, ma anche della storia italiana, basti pensare alla Canzone del Piave, da lui scritta, che per ammissione del maresciallo Diaz fu più efficace dei generali nel motivare le truppe a sopportare lo sforzo bellico.
A scapito delle sue doti e della sua inesauribile ispirazione, Gaeta non divenne mai ricco e neanche adeguatamente noto, complice anche la sua scelta di firmare con lo pseudonimo E.A. Mario, trovata pessima dal punto di vista del marketing, come si direbbe oggi. Per vivere dovette lavorare alle poste, venendo per giunta redarguito in più di un’occasione con l’accusa di trascurare le sue mansioni per dedicarsi alla composizione poetica. Anche per questo Gaeta riassume le virtù della cultura italiana dell’epoca, di quella popolare, schiva ma sentita in profondità, distante anni luce dalle ridondanti magniloquenze di D’annunzio, di cui pure era un ammiratore.
Repubblicano e animato da forti sentimenti patriottici, Gaeta guardava con devozione alla figura di Giuseppe Mazzini, a cui dedicò un poemetto in 999 versi: la Canzone a Mazzini. Seguendo il tracciato della migliore tradizione risorgimentale, Gaeta fu iniziato alla massoneria, ma neanche da ciò ricavò vantaggi materiali. Quanto alla Canzone del Piave, essa conobbe un successo tale che alla caduta del fascismo venne innalzata per un breve periodo a inno nazionale italiano, nel tentativo di ricollegare l’esperienza post-fascista ai momenti più gloriosi della storia precedente; ma neanche da quell’opera l’autore trasse compensi economici, dovendosi contentare dei riconoscimenti morali e della Commenda della Corona, conferitagli da Vittorio Emanuele III.
Quella di Gaeta è in effetti una storia romantica di poesia popolare che racchiude in sé tutta la ricchezza e la spontaneità della vena poetica italiana - e partenopea in particolare. È anche per questo che è degna di nota la riedizione, a cento anni di distanza dalla prima apparizione, di Canzone serba, una delle sue opere più particolari, tanto dal punto di vista letterario che da quello politico. Rifacendosi a Mazzini, Gaeta non vedeva contraddizione tra le aspirazioni nazionali italiane e quelle serbe. Il profeta dell’unità nazionale italiana lo aveva indicato chiaramente: i popoli slavi erano alleati naturali degli italiani nella lotta per abbattere l’impero asburgico e rifondare la mappa dell’Europa sulla base del principio nazionale. Questa lezione era ancora viva durante la prima guerra mondiale in Italia, dove non pochi guardavano con ammirazione la Serbia, piccolo paese che in nome della propria unità nazionale non aveva esitato a sfidare un nemico molto più potente come l’Austria.
Belgrado aveva resistito all’avanzata dell’esercito asburgico e solo in seguito all’intervento della Germania cedette; a differenza di altri, però, i serbi non accettarono la resa, optando piuttosto per una ritirata strategica che portò esercito, governo e gran parte della popolazione civile in esilio, dove riorganizzarono le forze in attesa di tornare al fronte. La Serbia è stata durante la grande guerra un esempio unico di spirito di sacrifico, guadagnandosi l’ammirazione degli alleati e il rispetto dei nemici. Le potenze dell’Intesa erano solite renderle omaggio ogni anno, pochi se ne ricordano oggi, in occasione della “giornata del Kosovo”, il 28 giugno.
L’eroismo serbo ispirò quindi anche la vena politica di Gaeta, che pur non essendo mai stato nei Balcani mostra una conoscenza dettagliata delle usanze e tradizioni locali: nel libro si cita la rakija, la kafana e una serie di dati che dimostrano che l’autore si documentò in modo approfondito, mosso da un afflato genuino, che non sarebbe mai venuto meno, a differenza di quello di D’Annunzio, che dopo aver esaltato la Serbia all’inizio del conflitto, divenne poi uno dei maggiori detrattori delle rivendicazioni serbe (e jugoslave) sull’Adriatico. Sin dagli ultimi anni della grande guerra il nazionalismo dannunziano trionfò sul patriottismo mazziniano e il governo italiano non fece granché per valorizzare le sintonie con l’altra sponda dell’Adriatico, tanto che le relazioni italo-jugoslave rimasero a lungo tese dopo la guerra.
Ma è anche per questo che è degna di lode la presente riedizione di Canzone serba, un volume che mostra meglio di qualunque libro di storia o di politica che la conflittualità tra i due paesi era tutt’altro che inevitabile e che del pensiero di Mazzini è ancora oggi opportuno ricordarsi, sia in Italia che nei Balcani. Il contesto storico e politico in cui fu composta l’opera viene ricostruito nella presente edizione da quattro contributi introduttivi: due a cura di studiosi italiani (il prof. Francesco Leoncini della Ca’ Foscari, il prof Luca Alteri della Sapienza), due di studiosi serbi (la prof. Ljubinka Trgovčević dell’Università di Belgrado, il col. Miljan Milkić dell’Istituto di studi strategici), instaurando così un parallelismo perfetto italo-serbo che si esprime anche nella versione bilingue italiano e serbo (con l’ottima traduzione di Mirjana Jovanović Pisani) e nella coedizione Roma-Novi Sad.