Una chevrolet marrone

Una chevrolet marrone (daveseven /flickr)

La questione dell'identità e del senso di appartenenza sono centrali nel romanzo di Melinda Nadj Abonij. Un libro in cui chi sa cosa vuol dire “essere straniero” non può non riconoscersi. Alcune riflessioni dell’autrice e la recensione

09/11/2012 -  Maria Elena Murdaca Ginevra

“Nel 2004 ho accettato un invito di Pro Helvetia a collaborare nella Svizzera romanda con tre artisti internazionali, per sei settimane. Il paesino di Sierre era all'epoca tappezzato di manifesti in formato gigante del Partito del Popolo Svizzero, che raffiguravano delle mani di colori diversi che arraffavano passaporti svizzeri. Con questo tipo di illustrazioni, apertamente razziste, il Partito del Popolo svizzero ha ottenuto che l'iniziativa per una naturalizzazione agevolata per gli immigrati di seconda generazione, venisse rifiutata. I miei colleghi erano indignati per la propaganda xenofoba. Per loro la Svizzera era un paese impegnato in un umanesimo alla Pestalozzi. L'immagine che avevano della Svizzera era fatta di orologi, latte, cioccolata, montagne e formaggio. Discutemmo per ore solo di stereotipi, cominciammo a raccontarci storie represse che erano in totale contraddizione con l'immagine idilliaca che la Svizzera ha di se stessa. Questo il contesto in cui improvvisamente cominciarono a fluire nella mia mente dichiarazioni e atti xenofobi di svizzeri all'indirizzo della mia famiglia, atti ai quali per anni, per decenni non avevo più pensato, ma che erano rimasti sepolti dentro di me.

A Sierre cominciai a lavorare al mio secondo romanzo, e uno dei primi capitoli che scrissi conteneva un fatto reale, la toilette imbrattata del bar in cui con la mia famiglia avevamo lavorato negli anni '90.

L'atmosfera della Svizzera romanda, inoltre, mi ricordava, in modo difficile da spiegare, quella della mia infanzia in Vojvodina. Sospetto che i maestosi pioppi di Sierre siano responsabili per questa esplosione di ricordi. Avevo conosciuto questi alberi possenti quando vivevo a Zenta, da mia nonna.”

Nasce così “Come l'aria”, di Melinda Nadj Abonji, pubblicato in Italia da Edizioni Voland.

Come l'aria, un romanzo di Melinda Nadj Abonji 

Dal sito dell'editore:

La famiglia Kocsis – padre, madre e due figlie, Nomi e Ildikó – torna dopo anni in Vojvodina, nel nord della Serbia, regione dove vive la minoranza ungherese a cui appartiene. Questo è solo uno dei tanti viaggi di ritorno alla propria terra che i Kocsis compieranno. Emigrati tempo prima in Svizzera, dopo vari lavori precari, i Kocsis riescono a farsi una posizione prendendo in gestione un’elegante caffetteria sul lago di Zurigo. Ma quello che sembra il risultato finale di un lungo processo di integrazione si rivela solo un’illusione. Con lo scoppio della guerra in Jugoslavia e il successivo arrivo di profughi in Svizzera, riemergono tutti i problemi di identità che parevano superati. Un romanzo sulla difficile ricerca di una nuova patria e nello stesso tempo sul legame indissolubile con le proprie radici. E la voce è quella della giovane Ildikó, che osserva con occhio ironico la storia della sua famiglia mentre conduce una vita in bilico tra due realtà: quella svizzera a cui non è mai davvero appartenuta, e quella della minoranza ungherese in Serbia a cui già non appartiene più.

traduzione di Roberta Gado

 pp. 256, Voland , giugno 2012

Melinda Nadj Abonji

Melinda Nadj Abonji, scrittrice e musicista, è nata nel 1968 a Becsej, in Serbia, ma è cresciuta e vive in Svizzera. Nel 2004 è uscito il suo primo romanzo Im Schaufenster im Frühling (In vetrina a primavera), che ha ottenuto numerosi riconoscimenti. Nel 2010 ha ricevuto, prima nella storia, sia il Deutscher Buchpreis sia il Schweizer Buchpreis per Tauben fliegen auf, in italiano Come l’aria, con la motivazione di aver offerto il “ritratto di un’Europa in piena mutazione che non ha ancora chiuso i conti con il suo passato”. I diritti di traduzione del romanzo sono stati venduti in 16 paesi, tra cui Francia, Spagna, Svezia, Israele.

Fra Vojvodina e Svizzera, fra guerra e pace, fra passato e presente, fra status quo e cambiamento. Il dilemma dell'appartenenza e dell'identità applicati al contesto specifico dell'emigrazione balcanica in Svizzera. Un libro in cui chi sa cosa vuol dire “essere straniero” non può non riconoscersi. Il tutto condito dalla specificità balcanica: l'autrice, così come la protagonista, Ildikò Kocsis, è cresciuta in Svizzera ma ungherese di Vojvodina, la provincia autonoma creata da Tito all'interno della Serbia.

Il libro contiene immagini della vita in Vojvodina, e quadri della Svizzera tedesca, dove la famiglia Kocsis è emigrata prima della dissoluzione della Jugoslavia. Gli avvenimenti storici più drammatici dei Balcani, dal fascismo, al comunismo alla guerra, fanno capolino a ogni pagina.

La lettura evoca l'alternanza di vecchie pellicole color nero di seppia che scorrono lentamente col sottofondo sonoro della pizza che sferraglia e foto svizzere digitali da sfogliare come slides di powerpoint. I capitoli della vita in Vojvodina, delle vacanze a casa dalla nonna, dove tutto è rimasto com'era, si alternano all'esistenza in Svizzera, placida e pacata solo in apparenza. Curiosamente l'effetto passato-presente, cinema in bianco e nero / slides, si riscontra anche in quei capitoli che descrivono avvenimenti che hanno luogo nel medesimo arco di tempo. La prosa della Nadj Abonji è estremamente fluida, con periodi lunghi e cadenzati da frasi brevi. È l'uso quasi esclusivo delle coordinate che fa pensare ai fotogrammi di una pellicola o alle diapositive. È la prosa stessa, così incisiva, a suggerire l'idea di immagini affiancate l'una all'altra. L'uso continuo e abbondante dell'Erlebte Rede, del discorso indiretto libero, tipico del tedesco, è spia dell'educazione, o se si preferisce, della formazione, ricevuta dall'autrice. La lingua originale dell'opera, infatti, non è l'ungherese, lingua madre della scrittrice, ma il tedesco.

Quando finalmente arriviamo con la nostra macchina americana, una Chevrolet marrone scuro, cioccolato, si potrebbe dire...” Così prende avvio la narrazione. L'auto che rientra in Vojvodina è un'immagine ricorrente, potente, che spesso apre i capitoli ambientati in Serbia. Non solo il simbolo dell'affermazione sociale ed economica raggiunta in Svizzera, ma il veicolo con cui tornare indietro nel tempo. Il caos scoppiettante dei Balcani, le minacce fasciste, le espropriazioni comuniste, la guerra, si contrappongono alla tranquillità della vita svizzera, dove non succede mai niente. Il prezzo da pagare per la tranquillité è la rinuncia alla propria individualità. La critica velata al perbenismo svizzero evoca Friederich Dürrenmatt, scrittore svizzero-tedesco, che non ha lesinato critiche al proprio paese per l'abitudine a fingere di essere perfetti e sentirsi migliori degli altri. Una rinuncia forse non facile ma possibile per i genitori di Ildiko, inaccettabile per quest'ultima. “Come l'aria” è anche un romanzo che vede contrapposte due generazioni, alla “Padri e figli” di Turgenev. La cesura con i genitori, che si consuma con la loro partenza dalla Vojvodina, e si realizza ad anni di distanza, è l'eterna contrapposizione fra ciò che si è e ciò che si vuole, fra le aspettative dei padri e le aspirazioni dei figli. È Mamika, la nonna, il nume tutelare, l'angelo custode della famiglia, a tenere insieme le due generazioni a capire gli uni e gli altri, a offrire refrigerio a tutti sotto l'ombra dei suoi rami. Una figura vaga, eterea, commovente, semplice e saggia come tutte le nonne del mondo, marchiata dalla sofferenza delle minacce fasciste prima, delle espropriazioni comuniste poi.

La questione dell'identità e del senso di appartenenza sono centrali nel romanzo di Melinda Nadj Abonij, emergono a ogni pagina, dai dettagli più insignificanti. La Traubisoda, la bibita autoctona di Vojvodina che fa dire: «siamo ungheresi di Vojvodina e ci sono cose buone anche da noi» è un'affermazione volitiva, la dimostrazione che ungheresi di Vojvodina e svizzeri sono al medesimo livello, una dichiarazione che però non trova attuazione pratica. I compagni di classe svizzeri non sapranno mai quanto è buona la Traubisoda. Al contrario, l'abitudine dei giovani svizzeri di uscire dalla casa paterna a diciotto anni viene messa risolutamente in atto da Ildikò, che decide di lasciare il caffè gestito dalla propria famiglia (nonché la famiglia stessa) in seguito a un episodio di razzismo. La guerra in Jugoslavia e la conseguente ondata di profughi in Svizzera stuzzicano il sentimento xenofobo che si nasconde sotto l'ipocrisia svizzera. Non è sufficiente per uno straniero sentirsi svizzero per poter appartenere alla Svizzera: il senso di appartenenza deve essere sancito dalla comunità locale, che gode del diritto di accettare o di respingere, di premiare o di punire, di dare il giusto riconoscimento o di mandare in frantumi una vita di sacrifici e di lavoro. Le pagine che descrivono la votazione per alzata di mano che sancisce il diritto della famiglia Kocsis ad avere la cittadinanza suscita un senso di disgusto e vergogna per una procedura inumana e ingiusta.

Il modo in cui è affrontato il tema dell'identità richiama alla mente un potente riferimento letterario, quello di Amin Malouuf, scrittore franco-libanese trapiantato a Parigi, che all'identità ha dedicato un trattato. L'identità non è definibile a compartimenti stagni e a frazioni. Non si hanno diverse identità, ma una sola, che risulta dalla combinazione di tutti gli elementi che la compongono, la cui combinazione risulta unica in ogni individuo.

L'autrice spiega: “È importante ricordare che “identità” è un concetto tarato, spesso abusato nel contesto politico. La politica vuole costruire un'identità nazionale per attaccare gli uomini più facilmente per ragioni ideologiche. Io credo che uno dei problemi più urgenti in Europa sia proprio il ricorso a questa mitica e superiore identità nazionale. Ritengo tuttavia che l'identità non esista, dal momento che nulla è esattamente identico, nessun uomo è uguale all'altro. È una delle sfide più belle e importanti della letteratura differenziare dal tutto, raccontare destini differenti, così che i lettori possano approdare dalla distanza alla simpatia.

Il filosofo Sreten Ugričić ha scritto che solo cose differenti, uomini, culture, fenomeni, concetti, possono essere simili e che la somiglianza è competenza esclusiva della forza creativa. La trovo una dichiarazione estremamente saggia, dalla portata rivoluzionaria, perché in tal modo ogni uomo è chiamato a percepire i legami con gli altri uomini e con tutto ciò che lo circonda, e a cercare le somiglianze con il diverso. Un concetto diametralmente opposto a molti politici e alla loro identità nazionale. Il concetto di identità dovrebbe essere abolito, al suo posto bisognerebbe parlare di somiglianze, solo queste hanno il potenziale di superare le frontiere. A questo è associata l'affermazione della sorella dell'Io-narrante nel mio romanzo, che ritiene che siano creature meticce. 'Le creature meticce sono tendenzialmente più felici, perché sono a casa in più mondi, si sentono a casa dove capita ma non sono obbligate a sentirsi a casa da nessuna parte'