Luoghi marginali, isolati, che divengono improvvisamente cuore del dipanarsi della storia. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Ho un vizio, quello di viaggiare, e soprattutto il vizio di viaggiare fuori dalle normali rotte (citando un bel libro di Wheeler, Fuori rotta) che i normali viaggiatori scelgono. Sono un viaggiatore degli interstizi, a cui piace superare confini, veri o presunti che siano. E questo confine dovevo assolutamente vederlo, sentirlo, viverlo.
Asotthalom, quasi impronunciabile paesino al confine tra Ungheria e Serbia, fino a pochi mesi fa era solo un anonimo paese di campagna facente parte della provincia di Csongrad. E così si mostra al viaggiatore al suo arrivo, poche case, una chiesa, il municipio, la fermata dell’autobus.
Da qualche mese, però, è diventato uno di quei punti del mondo dove le società collidono, dove i confini, seppure invisibili, si palesano per quello che sono, muri invalicabili e chiari, segnati e visibili.
Asotthalom in realtà, già un paio di anni fa era salito alla ribalta europea per essere diventato uno dei pochi comuni in Europa ad essere governato da un sindaco esponente di un partito di estrema destra di matrice chiaramente fascista e orientamento razzista come è Jobbik. Un sindaco che, in un paesino di 4700 abitanti, ha ottenuto un consenso vicino al 72% anche grazie all’appoggio di altri partiti anche di sinistra, escluso il partito di governo Fidesz.
Ed era quindi in qualche modo logico che da Asotthalom iniziasse la costruzione del Muro.
E pensare che l’Ungheria nel 1989 fu la prima tra i paesi del blocco sovietico ad “abbattere” il muro che la separava dall’Occidente, in questo caso l’Austria. Il reticolato che da anni separava i due paesi venne tagliato in più punti consentendo così per la prima volta dopo anni il passaggio all’Occidente non solo di cittadini ungheresi, ma anche e soprattutto di cittadini facenti parte della Germania Est.
Ventisei anni dopo un nuovo reticolato viene costruito in tempo record per proteggere una parte della frontiera patria.
Il 22 agosto raggiungere il muro è ormai quasi impossibile per via del nutrito dispositivo dispiegato dal governo. Polizia di frontiera ed esercito pattugliano capillarmente il territorio, ma voglio cercare comunque di seguire il confine che separa l’Ungheria dalla Serbia.
Arrivo ad Asotthalom intorno alle 11.00 di mattina, un sabato qualunque di fine estate, il cielo grigio che minaccia pioggia, 180 km da Budapest, dopo aver attraversato la Pustza. Parcheggio la macchina e mi guardo intorno, ad un incrocio c’è un poliziotto, decido di farmi avanti e chiedergli qualche informazione. La prendo alla larga, chiedo all’uomo quale strada devo prendere per raggiungere Subotica. Il poliziotto non parla inglese, mi fa segno di andare diritto, 10 km mi dice, separano Asotthalom da Subotica, altra città simbolo di questa immensa migrazione fino a qualche tempo fa meno “mediatica” di quella che attraversa le vie marittime.
Ma da tempo c’era chi questa migrazione l’aveva studiata e portata alla luce per lo più nell’indifferenza dei molti. E’ leggendo i lavori dell’antropologa Desirè Pangerc, soprattutto la tua tesi dottorale, che mi sono avvicinato allo studio delle vie di terra della migrazione.
Mentre osservo l’apparente calma del piccolo paesino mi guardo intorno in cerca di quel punto di divergenza rispetto all’abituale, al normale di questo piccolo villaggio, zona di transito verso l’Europa. La mia attenzione viene catturata dall’arrivo di un pullman, con destinazione Szeged, il capoluogo della regione di Csongrad, snodo fondamentale per arrivare a Budapest.
Cinque ragazzi che possono aver sui vent’anni attendono l’autobus. Hanno quello che potremmo definire l’habitus del migrante, difficile non riconoscere dal modo di vestirsi, dalla pelle più scura, dal vagabondare stanco per le vie, l’habitus del migrante, lo stigma che si porta addosso e dentro. All’occhio dell’occidentale, poi, sembrano tutti uguali, ma ognuno di loro ha una storia, ognuno di loro “è” una storia.
Arriva un bus, apre le portiere e i quattro ragazzi entrano dalla porta centrale insieme ad altre persone. Pochi secondi, il tempo di sedersi, e il conducente si vede costretto a farli scendere, non c’è cattiveria nel suo volto, non c’è fastidio, forse indifferenza, e non c’è animosità da parte dei quattro migranti, tutti finiscono per accettare il proprio ruolo.
I quattro si siedono di nuovo su una panchina in attesa di un altro bus per Szeged, di un altro autista che magari sia pronto a chiudere un occhio o forse due.
Riesco a riprendere parte di questa scena con il cellulare facendo finta di parlare, l’autista del bus mi guarda in modo strano e mi segue nei miei movimenti, immagino che in questi giorni ci sia un bel via vai di giornalisti in questi luoghi.
Passano pochi secondi e arrivano due ragazzini in bicicletta. Uno dei ragazzi si avvicina al ragazzino e gli chiede qualche informazione, il ragazzino dice qualcosa e sembra parlare con persone che conosce da sempre e di cui non ha alcuna paura e verso i quali non prova alcun risentimento, solo curiosità.
Dopo un po’ decido di andare via al fine di cercare una strada che mi porti il più vicino possibile al muro di filo spinato che sta per separare fisicamente questa parte dell’Ungheria dalla Serbia a maggioranza ungherese che si trova oltre il confine, la Vojvodina.
Mentre sto per aprire la macchina sento il suono di alcune sirene, e un rumore di macchine come in corteo, ma non sono camionette dell’esercito in marcia, si tratta solo di una manifestazione di macchine d’epoca scortate da alcuni veicoli e moto della polizia locale. Ma non passerà molto tempo prima di vedere in azione una camionetta della guardia di frontiera.
Lascio Asotthalom in direzione Subotica verso il confine, confine che so già che non potrò varcare in quanto la macchina a noleggio non ha la documentazione adatta per l’espatrio, ma cerco fisicamente il confine e lo sfioro più volte.
Proseguendo lungo la strada che da Asotthalom arriva a Roszke, intravedo alcuni migranti, si nascondono tra la boscaglia al passaggio delle macchine per poi fare capolino poco dopo e riprendere il cammino. Alcuni però, forse perché stanchi o perché più temerari non si preoccupano di non farsi vedere, in definitiva, che cos’altro potrà succedere loro che già non sia già accaduto nel corso della migrazione?
Proseguendo nel cammino ai bordi della strada si trovano i resti di chi ha passato la notte all’addiaccio, scarpe, scatole, buste, coperte, sacchi e vettovaglie fornite dalle ONG che lavorano sul territorio di Subotica.
Dopo una curva vedo la prima cosa che davvero mi impatta.
In un prato decine di persone giacciono stremate completamente all’addiaccio, qualcuno ha acceso un fuoco improvvisato, la notte prima ha piovuto, qualcun altro ha improvvisato una tenda, sul ciglio della strada una volante della polizia a custodire e sorvegliare i disperati.
Cerco di riprendere con il cellulare la scena dalla macchina, proseguo verso il posto di frontiera di Backa che si trova a poche centinaia di metri, arrivato a pochi metri dal confine faccio inversione e mi preparo a documentare di nuovo quel che ho visto, e la scena ancora una volta mi colpisce.
Per chilometri seguo la strada che costeggia il confine, non c’è un’anima viva, svolto in alcune strade di campagna che si perdono nei campi, c’è gente che lavora la terra, e il silenzio interrotto solo dai suoni della natura. Arrivato all’altezza della piccola città termale di Morahalom, vedo per la prima volta in azione la polizia di frontiera.
Tre ragazzi passeggiano sopra un marciapiedi della periferia, la camionetta si avvicina, loro senza alcuna animosità e con un sorriso stentato sulle labbra seguono i poliziotti, che non esercitano in questo caso alcuna forma di coazione. La porta si chiude e la camionetta, dopo aver atteso che io la superi, si rimette in marcia presumibilmente verso il CIE di Roszke, luogo dove anch’io sono diretto.
Asotthalom e Roszke sono distanti appena 12 chilometri. Pochi chilometri prima dell’ingresso a Roszke c’è una rotonda, se si svolta verso destra, verso il posto di frontiera, fatte poche centinaia di metri sulla destra si può scorgere chiaramente il CIE di Roszke, uno dei primi punti di accoglienza prima dello smistamento dei migranti tra Budapest e Pecs.
Passo due volte davanti al CIE per documentare in qualche modo l’esistenza di questo non–luogo, che forse, anche nella sua straniante drammaticità, potrebbe rappresentare per alcuni la porta verso la libertà, il riconoscimento dello status di rifugiati.
Sono quasi le 13 ed è arrivato il tempo per una pausa pranzo, mi dirigo verso Roszke, a pochi chilometri dal centro, dove si trova il passaggio a livello della ferrovia, si ripete nuovamente la scena vista in precedenza. Un campo improvvisato e la polizia a fare da sorveglianza.
A Roszke non c’è molto, così decido di fare ulteriori 12 km e pranzare nella città di Szeged, città completamente distrutta alla fine dell’ 800 da un’alluvione e ricostruita con canoni moderni. Szeged è una della tappe, una delle ultime verso la sperata salvezza per i migranti, ma come si è visto ad Asotthalom, difficile da raggiungere.
Dopo un’ora ritorno verso Budapest nella mente e nel cuore le immagini a margine di questa migrazione imponenete che preme attraverso i Balcani sulle porte malmesse dell’Europa Unita.
Il mattino seguente mi avvio verso la stazione di Keleti, per prendere il treno per Timisoara da dove partirò all’alba del giorno
successivo.
Arrivato alla stazione, guardo giù verso il sottopasso, decine di persone dormono in giacigli improvvisati e attendono il loro destino.
Chissà se molti di loro saranno “ospitati” sul famigerato Intercity che da Budapest porta a Pecs, stavolta magari non più chiusi a chiave, internati in alcuni vagoni senza acqua né cibo. Un cartello attira la mia attenzione, per la sua involontaria ironia, proprio dove si dovrebbe scendere nel sottopasso, c’è un cartello con su scritto “Tranzit Zone” che indica il percorso alternativo per prendere la metro o i bus. La vita a volte sa essere davvero involontariamente ironica, anche se di ironico in tutto questo c’è davvero poco.
Ad Assothalom, come a Lampedusa, come a Gevghelia, come a Kos, a Ceuta e Melilla, muore l’Europa delle presunte libertà, e il suo concetto ipocrita di libera circolazione.
Dopo poche ora a Timisoara, mentre attendo (e attenderò per circa un’ora) che mi servano da mangiare in uno dei ristoranti della bella e immensa Piata Victoriei, parlo a lungo con una delle tante coppie italo-rumene che si sono formate in una città da tempo meta di espansione dell’imprenditoria italiana ma, che per la sua posizione e per i suoi difficili collegamenti, resta ai margini dei circuiti turistici.
Parliamo della realtà rumena e anche per un po’ delle problematiche legate alla massiccia ondata migratoria. Anche se al momento la Romania non sembra interessata, se non marginalmente, dal flusso umano, è evidente che con la creazione del muro posto sul confine tra Ungheria e Serbia, il problema si sposterebbe soltanto di pochi chilometri.
Alcuni degli “scafisti di terra”, intervistati da alcuni giornali locali, hanno ammesso di aver già pronta una via alternativa che prevede proprio l’ingresso in Romania dal confine Serbo e il conseguente ingresso in Ungheria dal confine rumeno. A questo punto è da chiedersi cosa farà il governo rumeno, costruirà il suo muro o farà come il governo macedone che ha aperto le frontiere in ingresso dalla Grecia?
L’Europa, la nuova Europa come la chiamano sul sito ansa.it è posta di fronte ad una nuova sfida, una sida da affrontare in una completa mancanza di infrastrutture.
Come reagirà la vecchia Europa?