Lo scorso 30 luglio a Belgrado è venuto a mancare un grande della letteratura serba ed anche mondiale, David Albahari. Il ricordo dello scrittore Saša Ilić
(Originariamente pubblicato sul portale Peščanik , 1 agosto 2023)
Non so come si scrive un elogio funebre. Bisognerebbe senz’altro raccogliere alcune informazioni fondamentali sulla persona defunta, per poi trasformarle in un testo partendo da una scelta personale dei fatti di vita di un individuo che l’autore dell’elogio ha conosciuto personalmente o soltanto indirettamente, in quanto persona pubblica, come nel caso dello scrittore David Albahari, morto lo scorso 30 luglio a Belgrado. L’aspetto più importante di tale impresa è indubbiamente rappresentato da ciò che l’autore del testo decide di omettere. La vita è come un buon racconto – ciò che conta di più è il non detto. Allora cos’è il non detto nel caso di David Albahari?
Appena una decina di giorni fa stavo davanti al palazzo a Ginevra dove Jorge Luis Borges (1899-1986) aveva trascorso l’ultima parte della sua vita. Su una targa in marmo campeggiavano le parole che Borges aveva dedicato a Ginevra che – tra tutte le città del mondo – aveva scelto per sua dimora eterna. In questa città, Borges, come lui stesso sosteneva, finalmente si sentiva “misteriosamente felice”. Lo scrittore morì in un appartamento al civico 28 della Grand-Rue, tra un negozio di antiquariato denominato Illibrarie e un palazzo in stile escheriano .
Quel giorno a Ginevra mi è tornato in mente Albahari, di cui non avevo notizie da un bel po’. Non era però questo il motivo per cui ho pensato all’autore della raccolta di racconti Opis smrti [Descrizione della morte], bensì quella corrente poetica borgesiana che, come una tangente, aveva toccato le opere della prima fase (quella degli anni Settanta e Ottanta) della produzione letteraria di Albahari, per poi scomparire all’orizzonte della storia della letteratura. La traiettoria di quella corrente non si è conclusa al Cimitero dei re (Cimetière des Rois) a Ginevra. È proseguita, continuando, fino ai giorni nostri, a trasformare mondi narrativi. Qualche traccia di quell’atmosfera borgesiana si riscontra anche nelle opere di Albahari, fortemente ispirate alla letteratura statunitense degli anni Sessanta e Settanta.
L’anno della morte di Borges segna un punto di intersezione tra alcune importanti correnti poetiche promosse e sviluppate anche da David Albahari. Quell’anno Albahari aveva curato un’antologia della letteratura contemporanea statunitense uscita sulla rivista Gradac (n. 68-69). Nell’antologia in questione era comparso per la prima volta [in Jugoslavia] anche il racconto Cathedral dello scrittore statunitense Raymond Carver, tradotto in serbo-croato dallo stesso Albahari. Si potrebbe dire che la prosa di Albahari nata in quegli anni era stata fortemente plasmata dalla poetica narrativa di Carver e una passione borgesiana per la lingua, il labirinto e il sapere narrativo. Albahari aveva sempre cercato di fornire chiavi di lettura della sua opera, infilandole tra le pagine delle opere di altri scrittori da lui tradotte e curate, oppure nelle sue raccolte di saggi, in particolare quelli che affrontano il fenomeno della scrittura, della lettura e della traduzione.
Mentre ero al Cimitero dei re mi è tornato in mente anche il mio primo incontro con Albahari in Piazza Karađorđe a Zemun. Era legato a quel luogo e a quella città, in cui vedeva un universo alternativo a quello belgradese, cercando di esprimere questa percezione anche sulle pagine della rivista Pisma [Lettere], dedicata alla letteratura mondiale contemporanea, che aveva fondato e curato insieme al poeta Raša Livada.
Albahari insisteva su un’alternativa poetica, mentre Zemun in quegli anni sprofondava sempre più in quella palude politica alimentata dal Partito radicale serbo. Il viaggio tra questi mondi segnerà il percorso letterario di Albahari durante gli anni Novanta, un viaggio intrapreso dopo la conclusione di quel grande ciclo che inizia con Porodično vreme [Tempo di famiglia, 1973] e finisce con Cink (1983), ripercorrendo il labirinto delle relazioni familiari fino alla morte del padre e al primo approccio ai temi americani.
Le sue opere scritte in esilio – Kratka knjiga [Libro breve, 1993], Snežni čovek [L’uomo delle nevi, 1995], Mamac [L’esca, 1996] – erano attese con impazienza dal pubblico serbo. In molti le commentavano chiedendosi cosa fosse successo all’autore della Descrizione della morte (1982) e della Semplicità (1988) e perché avesse scelto di volgersi ad una nuova realtà po-etica. Eppure, a differenza di molti scrittori serbi di quel periodo, Albahari, proprio grazie al suo esilio volontario, era riuscito a superare quel divario rimasto insormontabile per molti, quella cesura tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, quel passaggio dalla tendenza a chiudersi all’interno del cosiddetto paradigma lessicografico alla capacità di uscire dal suo appartamento a Calgary per camminare sulla neve dove la tempesta della storia lo trasformerà in quell’uomo delle nevi, in quella creatura della mitologia nordica capace di lasciarsi travolgere da una metamorfosi linguistica e fisica.
Se non fosse stato per quella uscita dalla sua casa calda, dalla sua zona di comfort tra frigorifero, scrivania e succo d’arancia, Albahari non sarebbe mai riuscito a “sopravvivere” agli anni Novanta. Quindi, forse non ci saremmo mai incontrati in Piazza Karađorđe a Zemun, subito dopo la decisione dell’allora dirigenza della Biblioteca nazionale della Serbia di aprire un importante ciclo di presentazioni letterarie (intitolato Letteratura mondiale degli scrittori locali) e un ciclo di lezioni (dal titolo Come leggere) proprio con un intervento di David Albahari. Fu un periodo di grande slancio, segnato dalla convinzione che il paradigma culturale degli anni Novanta stesse cambiando ogni giorno di più, riprendendo il filo della cultura alternativa degli anni Ottanta che vide il suo massimo esponente proprio in Albahari.
Del resto, Albahari fu il primo scrittore ad essere stato invitato a commentare lo stato di salute della letteratura serba dopo i bombardamenti del 1999. In quell’occasione, per la nuova edizione della rivista Reč [Parola], scrisse un breve testo intitolato Književnost promene [La letteratura del cambiamento]: “A prescindere dal tema che uno scrittore cercherà di affrontare, non potrà mai evitare la guerra. D’altra parte, è del tutto naturale che il senso di sconfitta, impotenza, disperazione, smarrimento e indifferenza prevalga su tutti gli altri sentimenti, e questa situazione si protrarrà finché non avverrà una vera svolta – politica o economica – nella realtà della Serbia post-bellica”.
Allora com’è andata quella svolta tanto attesa? È rimasta circoscritta alle opere di alcuni autori e autrici che continuano ad aspettare che accada un altro 5 ottobre per ripristinare la continuità del legame con la cultura alternativa, come avvenuto durante quell’azione fugace messa in atto dalla Biblioteca nazionale coinvolgendo Albahari ed Ero Milivojević, o durante l’intervento di Biljana Jovanović e Mira Trailović nel Centro per la decontaminazione culturale nei primi anni Duemila?
Albahari ha descritto questa dialettica tra tracollo e rinascita culturale come un alternarsi di yin e yang, di fenice e drago, di principi femminili e quelli maschili. Tuttavia, le vere vie del cambiamento sono rimaste irraggiungibili e la cultura alternativa continua ad essere relegata ai margini della scena ufficiale controllata dal ministero della Cultura.
Pur essendo stato riconosciuto come grande scrittore – fatto di cui nei prossimi giorni si parlerà dappertutto a gran voce – Albahari è sempre rimasto ai margini. Era profondamente consapevole della sua posizione marginale nella cultura serba anche quando, in un’intervista rilasciata al settimanale Vreme in occasione di una mostra organizzata dalla Biblioteca nazionale di Belgrado, ha dichiarato: “Penso in tutta sincerità che ciò che io scrivo col tempo verrà scacciato dalla letteratura”.
A corroborare questa supposizione di Albahari è il modo in cui la cultura ufficiale “attinge” dal serbatoio letterario di certi autori e autrici. Che si tratti di film, teatro, arti figurative, produzioni televisive, o ancora di ricezione accademica e critica letteraria, emerge una fissazione catatonica per il canone letterario nazionale che non solo non è ancora disposto ad accettare il trinomio sesso-droga-rock‘n’roll, o la cultura dell’Oriente, ma non è pronto nemmeno per l’interrogativo fondamentale della poetica di Albahari: la letteratura contemporanea è capace di descrivere qualcosa e di fungere da intermediario tra realtà e lettore? Il rifiuto di tale interrogativo è profondamente legato allo stato di negazione in cui oggi si trova la cultura serba che, in compenso, offre un nuovo concetto di identità serba e una concezione autoreferenziale dei confini della cultura e della letteratura serba. Tuttavia, Albahari, con il suo lavoro tenace, ha dimostrato che la messa in discussione del potere della parola può essere trasformata in una sovrana padronanza del linguaggio della storia.
Uscendo dal Cimitero dei re, dove sulla tomba di Borges campeggia un’immagine vichinga, ho pensato come Albahari sia sempre rimasto fedele a quella corrente narrativa borgesiana in cui vedeva il senso sublime della letteratura: le storie che raccontiamo gli uni agli altri. Ed effettivamente, la maestria di Albahari è emersa appieno proprio nelle forme brevi – e questo vale per tutte le fasi del suo percorso letterario – in particolare nel romanzo breve, come il libro frammentario Cink (1988), Snežni čovek (1995) e Ludvig (2007), una storia condensata in un unico paragrafo (Un caso particolare è rappresentato dal romanzo Pijavice [Sanguisughe] del 2005 in cui Albahari si addentra nell’esplorazione di un tema fondamentale del nostro tempo, quello dell’ostilità, del crescente antisemitismo e della violenza a Zemun e a Belgrado).
In fin dei conti, Albahari ritornava sempre al racconto, era ossessionato dalla ricerca dell’universo nelle piccole cose, dal fenomeno dell’Aleph dove il mondo intero è condensato in un punto. Nel corso di un suo intervento nella Biblioteca nazionale di Belgrado, cercando di spiegare come andava letto un racconto breve, Albahari ha affermato di non sapere come affrontare l’argomento, aggiungendo però che ciò che lo interessava di più era quel momento nel racconto che trasforma il rapporto tra due persone sedute allo stesso tavolo. Uno sguardo e nient’altro.
Ricordando Borges nell’anno della sua morte, Albahari, che in quel periodo stava curando e traducendo le opere di Carver per la rivista Gradac, scrisse: “Del resto, lui [Borges] era stato uno dei motori dei grandi sconvolgimenti nella letteratura americana degli anni Sessanta. Forse, dopo tutti i tentativi, tutto tornerà a lui. Questa è l’essenza della perfezione: quando aggiungiamo tutto ciò che vogliamo, e poi togliamo ciò che abbiamo sbagliato, la perfezione resta quella di prima”.
Questo vale anche per le produzione letteraria di Albahari: un’opera narrativa realizzata in filigrana che l’attuale cultura serba non è ancora capace di leggere. L’esempio più banale di questa ignoranza è legato alla topografia di Zemun, l’unica città al mondo in cui Albahari aveva trovato un suo universo letterario.
Se Albahari è sempre stato uno scrittore contraddistinto da una forte urbofilia, Zemun si è mossa nella direzione opposta, verso la distruzione e la violenza. Oggi più che mai Albahari e Zemun sono lontani l’uno dall’altra dal punto di vista po-etico. Un giorno però Zemun potrebbe trasformarsi in una fucina della buona letteratura, ma anche di un’urbanità moderna, proprio grazie all’immaginazione di uno scrittore come David Albahari. Certo, per tale metamorfosi serve una politica culturale moderna che non si ispiri all’ideologia cetnica e al mondo serbo, bensì alla letteratura e alla cultura mondiale, di cui Albahari nel frattempo è diventato un tassello imprescindibile.