E' iniziato ieri il processo a Slobodan Milosevic. Quest'ultimo imposterà la propria linea difensiva sulla contestazione della legittimità del tribunale Penale Internazionale dell'Aja. Pubblichiamo un lucido editoriale a questo proposito di Massimo Nava.
Si apre il processo a Milosevic. Purtroppo rischia di non rappresentare l'inizio di un circolo virtuoso che possa portare ad un futuro di stabilità per l'area balcanica. La condanna di un solo uomo potrebbe fornire un alibi al popolo serbo per non portare avanti una dolorosa ma necessaria rielaborazione delle proprie responsabilità ed alla comunità internazionale per nascondere errori e connivenze che certo non hanno contribuito ad evitare questi dieci anni di tragedie.
In Bosnia, Federazione Jugoslava e Croazia, nell'acceso dibattito sulla legittimità del Tribunale dell'Aja, inizia a farsi strada l'idea di creare Commissioni di verità e riconciliazione, sul modello del Sudafrica di Mandela. La creazione di queste ultime riuscirebbe a non limitare la riflessione su ciò che è avvenuto all'aula di un tribunale in Olanda. Tribunale Internazionale Penale, tra l'altro, che molti, Stati uniti in testa, non vogliono diventi permanente.
Massimo Nava, in un lucido ed interessante editoriale pubblicato oggi sul Corriere della Sera, riflette sui possibili significati del processo all'ex Presidente serbo.
DELITTI E ALIBI
di Massimo Nava
Con il tentativo di difendersi politicamente, non riconoscendo la legittimità del Tribunale, Milosevic vuole rievocare il proprio ruolo di pluriennale interlocutore dell'Occidente e impedire che i giudici lo considerino soltanto un serial killer. La Norimberga balcanica, perché tale sia, dovrebbe invece essere sia giudiziaria, come vogliono i giudici, sia politica, come vorrebbe Milosevic. Non dovrebbe limitarsi alla ricostruzione poliziesca dei delitti, ma affrontare la genesi dei delitti stessi. Per punire il massimo responsabile dei massacri, ma anche per rivederli nel contesto politico, individuando complicità e responsabilità nella ex Jugoslavia e internazionali.
All di là dell'enfasi sul «trionfo della giustizia», il processo tradisce invece i suoi limiti. La lungaggine delle procedure (almeno due anni per il giudizio di primo grado) e il disprezzo di Milosevic per la corte rendono problematica la verità giudiziaria, allontanano la verità storica (utile alla riflessione dell'Occidente) e quella morale, necessaria alla catarsi del popolo serbo. In Serbia, le modalità della consegna di Milosevic all'Aja hanno creato una sensazione di perdita di sovranità, con reazioni a catena sul piano politico e istituzionale. Milosevic in prigione sine die offre ai complici della sua ascesa - intellettuali, accademici, religiosi, militari, uomini d'affari - la quasi certezza di averla fatta franca. Così procedendo, non ci sarà una «Norimberga serba», ma nemmeno una «Norimberga balcanica», indispensabile perché la prima possa essere accettata dai serbi. A questa mancanza, oltre all'atteggiamento sprezzante di Milosevic, contribuisce l'ambiguità di una giustizia internazionale che non è riuscita ad arrestare i criminali serbo bosniaci Mladic e Karadzic, ha omesso d'indagare sulle vittime civili della Nato, ha trascurato la pulizia etnica ai danni dei serbi del Kosovo e ha chiuso, per sopravvenuta morte dell'interessato, il capitolo del presidente croato Franjo Tudjman, il quale, mentre cominciava la caccia a Milosevic, riceveva cure specialistiche a Washington.
L'ambiguità giudiziaria è conseguenza dell'ambiguità politica. Gli Stati Uniti hanno imposto la consegna di Milosevic, ma si oppongono - anche dopo l'attacco alle Torri Gemelle - alla creazione di una corte di giustizia internazionale. Americani ed europei non sembrano auspicare che la «Norimberga balcanica» rievochi tante pagine chiuse negli archivi della diplomazia, di giornali e di commissioni parlamentari d'inchiesta. Pagine di errori strategici, d'impotenza, ma anche di complicità: il prematuro riconoscimento dell'indipendenza croata, la tardiva difesa di Sarajevo, l'evitabile eccidio di Srebrenica, la deportazione dei serbi dalla Krajina, gli accordi segreti, i traffici e gli affari con il regime di Belgrado, l'appoggio militare ai guerriglieri kosovari, i retroscena della conferenza di Rambouillet che diede il via ai bombardamenti della Jugoslavia, la messinscena del massacro di Racak in Kosovo. Potremmo aggiungere, dopo l'apparizione di Bin Laden, la «scoperta» della rete islamica nei Balcani, che cominciava a diffondersi all'indomani della caduta del Muro di Berlino, nei mesi che precedettero le guerre etniche, prima dei progetti di «Grande Serbia». Se il Tribunale accettasse il terreno su cui sembra incamminarsi Milosevic con la sua difesa «politica», la punizione del massimo responsabile diventerebbe anche la storia dei complici e delle vittime, di tutti i popoli balcanici distrutti, deportati, decimati, come lo fu, per gli ebrei, la Norimberga nazista. Invece, il Tribunale non ricerca le responsabilità di una spirale di sterminio, ma processa un uomo solo.
Per i serbi, bombardati tre volte nella storia recente (dai nazisti e dagli angloamericani durante la seconda guerra Mondiale e dalla Nato) quello che è cominciato all'Aja non sarà un bagno purificatore: potrebbe rivelarsi un alibi per considerarsi soltanto vittime. Dell'Occidente e di Milosevic.