Romanziere prolifico e pluripremiato, diplomatico per un periodo della sua vita, Dragan Velikić riflette a tutto tondo sulla nostra società, ma soprattutto sulla Serbia attuale, sul malgoverno e sulle possibilità di cambiamento, senza dimenticare la magia dei suoi libri e della sua scrittura
(Originariamente pubblicato dal settimanale Express, il 14 agosto 2020)
Abbiamo incontrato Dragan Velikić in occasione dell’uscita dell’edizione croata del suo ultimo romanzo intitolato “Adresa” [L’indirizzo], pubblicata dalla casa editrice zagabrese Meandarmedia. Un “romanzo belgradese”, così recita il sottotitolo, ed è vero, Belgrado “interpreta” un ruolo in questo romanzo, ma nell’ottica di Velikić questo implica un’interpretazione più profonda dell’identità: un’introspezione personale, ma anche un’interpretazione della storia politica della città, della Serbia e della Jugoslavia, degli episodi bui della storia della guerra e i loro riflessi opachi a cui la nostra storiografia ci ha abituati.
Oltre a questa ultima opera, Velikić è autore di dieci romanzi, tre raccolte di racconti, una monografia intitolata “Pula – grad interval” [Pola – città intervallo] realizzata insieme a Igor Zirojević e Paola Orlić, sei raccolte di saggi e un duodramma intitolato “Montevideo”.
Velikić è noto all’opinione pubblica per aver vinto due volte il premio NIN con i romanzi “Ruski prozor” [La finestra russa] e “Islednik” [L’investigatore], ma anche per essere legato alla città della sua infanzia, Pola, una città che, seppur talvolta solo accennata, è onnipresente nella sua narrativa.
Abbiamo parlato con Velikić del suo ultimo romanzo, che affronta un tasto dolente per la Serbia di oggi, e partendo da lì abbiamo toccato anche alcuni argomenti più ampi.
Giunto ad un bivio della sua vita, il protagonista del suo romanzo “Adresa” Vladan Todorović, che lavora come documentarista presso il Museo delle Poste di Belgrado, si rende conto che l’identità del suo “indirizzo” è inestricabilmente legata al ricco contesto della sua casa, cioè della sua città. La città interiorizza il personaggio, e non il contrario. Così Todorović, fino a quel momento un uomo comune, insicuro su ogni dettaglio della sua esistenza borghese, si trasforma in una persona illuminata. Quindi, la mancanza di consapevolezza che caratterizza le ottuse vite dei cittadini porta nel nulla? “L’indirizzo”, in questo senso, funge da detonatore: che cosa può (o deve?) smuovere le esistenze addormentate?
Vladan Todorović non è il paradigma della borghesia, come la sua domanda, direi, implica. È un uomo, una storia a sé. Una maturazione tardiva e la ricerca dell’identità. Che sono state precedute dalla fuga dal confronto, dall’occuparsi di sé. Gli è sembrato più facile occuparsi della città, raccogliere frammenti casuali, nella convinzione superba che fosse possibile catturare la città in una rete. E la città, ad ogni angolo, spalanca le fauci delle sue vite, perché la città è vita, anche quando è morte, e la vita è ciò davanti a cui quel documentarista si tira indietro. Pensare di poter conoscere la città in tutti i suoi strati, i suoi scomparti segreti della storia e le catacombe, le sepolture non contrassegnate e le tracce non registrate di diversi DNA, e non poter conoscere se stesso, è piuttosto ingenuo da parte di Vladan. Tuttavia, percorrendo questo percorso a ritroso, egli giunge al suo indirizzo e, attraverso l’indirizzo, anche a se stesso. Quella città, così com’è, con tutti i suoi difetti, e quel Vladan, anch’egli così com’è, si sono incontrati in un punto, un punto d’appoggio.
Sia come lettori che come cittadini, siamo suscettibili riguardo ai limiti dell’insegnamento o/e della moralizzazione della nostra storia politica comune. Stanchi del revisionismo storico a cui siamo costantemente esposti, l’idea chiave del suo protagonista ci pare lucida: i fatti materiali non sono sufficienti, è la letteratura a imprimere nella storia politica la convinzione dell’esistenza di un’armonia tra identità “perdute”? Il materiale documentario, pur essendo disponibile a tutti, rimane “poco convincente”? La storia della quotidianità è profondamente codificata soprattutto nella letteratura? Quale sarebbe la chiave di volta nella lotta contro il revisionismo della storia politica della città, e di questa regione?
Ormai da tempo ho smesso di prestare attenzione alle interpretazioni ufficiali e di fidarmi di esse. Quello di cui lei parla, quell’aspetto che coglie con così tanta precisione, una volta messo a nudo si riduce ai banali, ingannevoli calcoli dei ladri che si muovono nei boschi. A questo tipo di provocazioni rispondo negli editoriali che scrivo per il settimanale NIN, e nei miei romanzi faccio i conti con me stesso.
Tuttavia, quando la politica letteralmente demolisce il marciapiede davanti alla vostra casa, chiude la Stazione ferroviaria centrale, distrugge in una notte un’intera strada – come accaduto a Belgrado nel quartiere di Savamala nella notte del 25 aprile 2016, quando per un paio di ore, quanto sono durati “i lavori edili” eseguiti da alcune persone con passamontagna la cui identità resta ancora ignota, la polizia e l’intero apparato statale si sono resi irraggiungibili per i cittadini, rimanendo in stand-by – quindi, quando i vostri spostamenti indispensabili, quotidiani vengono resi più difficili per mesi, non potete far finta di non accorgervene.
Inizialmente non era mia intenzione, ma alla fine nel romanzo “Adresa” ho lasciato testimonianza di un’epoca, di un anno preciso, il 2018, a Belgrado. Semplicemente non ero più in grado di resistere alla penetrazione della quotidianità in tutti i pori delle nostre vite. Se il romanzo sarà letto in futuro, quella storia non potrà essere revisionata. I libri scolastici vengono cambiati, con un colpo di penna dalla leadership politica di turno, come anche i programmi scolastici, ma la letteratura lascia tracce più profonde. E quello che ho chiamato politica, penso che debba essere messo tra virgolette. Accaparrarsi il potere solo per trarne vantaggi personali, lasciarsi guidare da un’avidità assurda e in tutto questo appoggiarsi alla feccia della peggior specie, questo difficilmente può essere definito come politica.
Nel suo romanzo, lei scrive: “Vladan si illudeva di raggiungere una comprensione assoluta del genos della città – di Belgrado come un organismo vivente i cui battiti sono udibili solo dagli spiriti buoni, in collusione tra loro, fin dai tempi in cui il primo visitatore si stabilì sul suo territorio”. E quando oggi, nella Serbia di Vučić, viene devastata l’essenza di tutto quello che dovrebbe rappresentare una società civile, vengono distrutti tutti gli strati della storia della città, dall’epoca romana alla Seconda guerra mondiale e al regime comunista, passando per il periodo ottomano? E se questo romanzo è (anche) una guida di viaggio, che cosa esattamente suggerisce? Come ci emancipa? “Nell’organizzazione del pessimismo della situazione”? Nel tentativo di fermare il processo di atrofia dell’autoconsapevolezza dei cittadini”, come lei afferma nel romanzo?
Se Vladan avesse la risposta a questa domanda, probabilmente si candiderebbe alle elezioni presidenziali. Se con il romanzo suggerisco qualcosa in questo senso è il fatto che il male è onnipresente e che non esiste “il nostro” e “il loro” male. Se mi batto, mi batto contro il silenzio, le menzogne, l’insabbiamento della verità, la falsificazione della realtà, contro la falsificazione di quello che fu, della storia, della vita… Tutto questo fa parte di una stessa storia, per cui la città e l’uomo si intrecciano, perché la tendenza a mentire, a nascondere sotto il tappeto, a chiudere un occhio e a sottacere certe cose non può portare alcun bene né alla città né all’uomo. Non è un comportamento sano. Ed è per questo che la quotidianità sotto il governo guidato da una banda di delinquenti, che tra poco entrerà nel nono anno della sua esistenza, non può essere paragonata a nessun’altra quotidianità che l’ha preceduta, perché è ridotta ad un male puro che non ha nemmeno bisogno di giustificarsi. Nel nono anno del governo di Vučić giungeremo al nono e ultimo cerchio dell’Inferno di Dante.
Pensa che le recenti proteste a Belgrado siano comunque un chiaro segnale del fatto che il sistema di governo di Vučić si sta avvicinando alla fine? L’attuale situazione in Serbia può in qualche modo essere paragonata al periodo del regime di Milošević, quando in alcuni momenti sembrava che non ci fosse alcuna via d’uscita, e poi all’improvviso la situazione è precipitata? Cosa pensa di questi segnali? Come vede il futuro?
Tutti abbiamo studiato, almeno noi, le generazioni jugoslave, che c’è differenza tra i motivi e la causa scatenante della Prima guerra mondiale. I motivi si accumulano e poi un evento più banale fa da detonatore. Il regime di Vučić, questa cachistocrazia assoluta che egli ha creato, prima o poi dovrà crollare. E questo crollo già oggi potrebbe essere provocato dalle cause più banali, come la protesta dei cittadini a causa dell’annuncio di un altro weekend in quarantena. Ma la sua falange si è infiltrata [nella protesta] e a quel punto le persone decenti hanno subito abbandonato la piazza. Tuttavia, inizia un’altra cosa – la protesta dei medici. Una cosa molto importante. Poi lui [Vučić] li attacca attraverso i suoi media e allora un altro migliaio di medici aderisce alla petizione. Poi lui e suoi čauši [termine che deriva dal turco çavuş, indica soldati dell’esercito ottomano impiegati come messaggeri, ndt] li attaccano di nuovo e questo non fa che spingere altre centinaia di medici a firmare la petizione. Poi tutti gli altri li appoggiano. Ed è qui che intravedo la strada giusta per rovesciare l’attuale potere. Quando le persone appartenenti ad alcune categorie professionali si ribellano contro gli ignoranti e i ladri tra le proprie fila; quando i medici, i giudici e gli avvocati, i giornalisti, gli architetti, gli accademici, gli insegnanti alzano la voce… Questa è, in realtà, la via più semplice e giusta, ma è comunque una via che ormai non può più prescindere dallo scendere in strada. E se finirà senza spargimenti di sangue, dipenderà da quanti ratti rimarranno sulla nave che affonda. Non ci sono paragoni con Milošević per il semplice motivo che nulla può essere paragonato alla guerra.
Un altro aspetto interessante del suo romanzo è rappresentato dalle digressioni storiche sui crimini commessi dai comunisti “dopo la liberazione”. Fatti di cui la nostra storiografia non si è mai occupata in modo serio e onesto e che si trasformano facilmente in mito, relativizzazione, caos. È un problema consueto nelle società post-jugoslave? Inestricabile?
Di questo ho parlato prima – non esistono bugie buone. Io credo che nel 1941 ogni uomo onesto avesse scelto di unirsi ai partigiani, e non ai cetnici. Sono sicuro che – pensando agli orrori accaduti durante i quattro anni di guerra, a tutti quelli che furono impiccati a Terazije, torturati a Glavnjača e uccisi a Banjica durante l’occupazione – pochi non riusciranno a capire la sete di vendetta emersa come conseguenza di tutto ciò. Del resto, cose del genere accadevano in tutta l’Europa “civilizzata”. Ma non dobbiamo negare questa vendetta, come se non si fosse trattato di un fenomeno diffuso. Senza fare i conti con i crimini comunisti non riusciremo a fare i conti nemmeno con Srebrenica, con Sarajevo, con i camion frigoriferi [pieni di cadaveri] che arrivavano dal Kosovo… Il regime comunista jugoslavo fu l’unico in Europa ad aver lasciato dietro di sé i registri precisi delle persone fucilate dopo la guerra, regione per regione. Così sappiamo che solo in Serbia furono giustiziate 35mila persone, senza alcun processo. Come ho già detto, fatti del genere accadevano anche in altre parti d’Europa, ma in misura minore e non venivano registrati e documentati.
Nel suo romanzo c’è anche una digressione sulla biografia di un esponente del surrealismo, Marko Ristić, che tra il 1945 e il 1948 fu ambasciatore della Jugoslavia a Parigi. “Marko aveva sostituito ’il tunnel infernale dell’occupazione’, che nel suo caso fu un soggiorno a Vrnjačka banja durante la guerra, con l’incarico di ambasciatore a Parigi. Che, come possiamo supporre, non era durato ‘troppo a lungo’, come l’occupazione”. È questo il punto in cui vengono messi in discussione molti limiti della percezione sociale di alcuni personaggi importanti della storia locale, delle differenze di classe, delle buone maniere dei kulturnjaci, della cittadinanza per “un passato più stabile” e, semplicemente, della “piena verità”?
Certo, solo che a quella “piena verità” si arriva solo con il senno di poi. In altro modo non è facile. Se fosse facile, la civiltà contemporanea sicuramente sarebbe diversa. Non è facile giungere alla verità o, per dirla tutta, alla “verità” di un dato momento. Ma questo non ci esime dall’impegnarci, né tanto meno dal tentare. E nemmeno ci consente di mentire coscientemente. Marko Ristiće è stato l'ideologo del surrealismo serbo. Un intellettuale ha il dovere di reagire? Non lo so, non mi sono occupato di questa problematica. Ma una persona che sui media ha giustificato un crimine commesso dal potere – come ha fatto Marko Ristić in un suo testo pubblicato sulla prima pagina di Politika il 28 novembre 1944 – dovrebbe essere assolta dalla responsabilità solo perché è un’icona indiscussa di un movimento artistico? Io credo di no. E qui torno su quel punto a cui ho accennato prima: non esistono “i nostri” e “i loro” crimini”, né nel senso nazionale, né in quello di classi sociale, né in quello ideologico.
Lei ha anche esperienza politica. Dal 2005 al 2008 è stato ambasciatore della Serbia e Montenegro in Austria. “In conformità con la vecchia tradizione jugoslava di nominare i suoi migliori scrittori come ambasciatori, il governo serbo filoeuropeo lo ha nominato…”, si legge su Wikipedia. Dalla prospettiva odierna, quel tempo sembra ormai preistorico, la diplomazia della vecchia scuola, lo dico senza cinismo. Si è mai pentito di aver accettato quell’incarico? Qual è l’aspetto fondamentale che l’alta politica rivela a qualcuno che non è un politico di professione?
Da ambasciatore, potevo rappresentare solo un governo democratico la cui politica era filoeuropea. Del resto, quel governo aveva dimostrato il suo potenziale democratico accettando la sconfitta alle elezioni del 2012. Il mio è un caso piuttosto atipico, dal momento che non faccio parte di alcun partito. Ho rappresentato la Sebia e il Montenegro in un paese dove, come scrittore, avevo un nome e un cognome, dove per più di un decennio le mie opinioni politiche erano note attraverso le interviste e i testi pubblicati sui media austriaci. Nei quattro anni e mezzo, quanto è durato il mio mandato da ambasciatore, non mi sono mai trovato nella situazione di dover dire qualcosa che divergesse sostanzialmente dalle mie opinioni personali. Come ogni mestiere, anche la diplomazia va imparata. È un lavoro serio, richiede persone di un certo spessore, anche se la funzione di diplomatici per molti versi è simile a quella di una sottostazione elettrica. Un ambasciatore non crea, bensì trasmette una certa politica, ma anche in questa trasmissione c’è un lavoro creativo. E questo non può essere imparato.
La raccolta dei suoi editoriali/saggi intitolata “Bratstvo po mrlji” [Fratelli di macchia], pubblicata nel 2018 dalla casa editrice Laguna, offre forse la più chiara immagine di lei come una persona che interviene apertamente nello spazio mediatico. In alcune interviste ha rivolto un appello (anche) ai giornalisti, invitandoli a “chiamare le cose con il loro vero nome”. Ma non è così facile, non crede? Il sistematico impoverimento intellettuale del mondo dei media è ormai diventato molto grave, per non parlare della degradazione dei diritti degli operatori dell’informazione… Quali sono, se ci sono, le opportunità per un giornalismo responsabile?
Io sono ulteriormente intossicato da questa problematica perché mia moglie è giornalista e ogni giorno parla di questo tema, e ormai non so più quale sia la mia opinione e quale la sua. Un tempo il giornalismo era una missione, oggi è una prostituzione, così dice mia moglie. Ma oggi tutto è prostituzione, dico io. Ovvero può esserlo. E lo è. I giudici si prostituiscono, lo fanno anche i professori, i pianisti, gli atleti, gli artisti, i medici… E tutto questo è, in un certo senso, tossico. Ed estremamente pericoloso.
Per cui credo – lo ripeto – che solo all’interno delle categorie professionali e associazioni di categoria possa e debba avvenire un risveglio e una vera rivolta. Ora, dicono che oggi nel mondo girino più soldi che mai. Si tratta di somme straordinarie, impensabili per una persona comune, e – come dicono – tutti sono corruttibili. Se questo è vero, allora solo il crollo dell’attuale modello di società, a livello globale, può innescare un cambiamento. E i cambiamenti non possono essere realizzati stando seduti sulla propria comoda poltrona. Né dai centri commerciali, le case di villeggiatura e le vacanze all inclusive. È per questo che il virus è dovuto arrivare? Mi sto accorgendo che, per la prima volta nella vita, sto diventando un mistico.
E infine, Pola: città in cui lei ha trascorso una parte notevole della sua vita, città-motivo del suo opus letterario. Come vede oggi quella città? Com’è cambiata? La prospettiva cambia, vivendo altrove?
Monte Zaro, Stoja, Castello, Villa Maria… Sono tutti luoghi mitici della mia storia personale, ma anche della storia di intere generazioni. Cosa può essere cambiato e chi può farlo? Quella città è magica e bella, come lo è sempre stata. È una città che emana un’energia incredibile. Oltre a ciò, Pola sono gli amici! Magda, Paola e Ziro, Edi e Đilda, Goran Ban, Moris, Tanja e Bojan, Mirjana e Igor Galo... Tanti amici, le mie care persone… La città è fatta di persone. Naturalmente anche di case. Quelle meravigliose vecchie ville austroungariche, dimenticate e abbandonate. Poi i dintorni e la case contadine di pietra… Poi ancora un po’ più in là, fino a Rovigno (Rovinj), Trget, Arsia (Raša)… Fino a Fiume, alla libreria “Ex Libris”, a Željko e Milana, a Karlo e Roni… Questo non può essere cambiato, può solo essere rafforzato. Solo il Covid è riuscito a separarci, ma spero non per molto.
Quali sono gli argomenti su cui scrive in questo momento, che occupano la sua mente?
Dopo ogni romanzo mi prendo una pausa. Prima queste pause erano più brevi, con il passare del tempo stanno diventando sempre più lunghe, anche un anno, a volte di più. Non ci vedo molto senso nello scrivere solo per scrivere, per aggiungere un altro titolo al proprio opus letterario. Col tempo sono giunto alla conclusione che la scrittura non è finzione, bensì escavazione. Quanto più invecchiamo, tanto più “materiale registrato” abbiamo, quello che possiamo chiamare la vita vissuta. Tuttavia, i singoli eventi non sono rilevanti di per sé, bensì per le conoscenze fondamentali a cui portano, se nel processo di elaborazione letteraria riescono ad entrare nell’intimo del lettore, che in un romanzo, in un racconto o in una poesia riconosce la propria esperienza, la propria vita.
Ormai da anni rifletto sulla vita del mio poeta preferito, Konstantinos Kavafis, che, come impiegato di un’azienda idrica al Cairo, viveva una quotidianità apparentemente monotona. Ma da quella vita è nata una delle poesie più affascinanti. Quella settantina di poesie che Kavafis ha lasciato dietro di sé contengono il diario di tutti noi. Non ho alcuna ambizione di scrivere una biografia di Kavafis, tuttavia, ormai da mesi rifletto su quelle scene e situazioni di vita del tutto ordinarie che questo poeta ha creato nei suoi versi. È la memoria di un mondo che non ha limiti temporali né spaziali. Lo sto scoprendo nell’epoca attuale, nella quotidianità che vivo – un momento che dura in ogni singola vita. Vivendo quella unica vita possibile, Kavafis, con le sue poesie, l’ha trasportata nelle innumerevoli vite altrui. Kavafis è nostro contemporaneo. Sul romanzo, che recentemente ho iniziato a scrivere, incombe l’ombra di Kavafis. Non so dove mi porterà, ma questa è la magia dello scrivere.