Dubravka Stojanović - Foto: Medija centar Beograd

Dubravka Stojanović - Foto: Medija centar Beograd

“Gli anni ’90 sono lontani ma noi siamo bloccati in quel decennio. Viviamo nel passato e non possiamo vivere nel presente, né immaginare il futuro. La domanda è: perché? E soprattutto: come possiamo uscire da questa situazione, da questo labirinto?”. Intervista con la storica Dubravka Stojanović

09/08/2024 -  Cecilia Zecchinelli Sarajevo

Dubravka Stojanović, nota storica di Belgrado che in quel “noi” include tutte le società post-jugoslave, lavora da molti anni sulla democrazia nei Balcani, sulla memoria e la sua manipolazione. Recentemente ha dato vita a un importante progetto insieme allo scrittore e accademico bosniaco Igor Štiks e al direttore del centro culturale Grad di Belgrado, Dejan Ubović: la creazione di un centro di riconciliazione regionale e museo permanente degli anni '90, di prossima apertura nella capitale serba, che ha già visto come tappa intermedia la mostra itinerante Lavirint 90-ih (Labirinto degli anni 90). Aperta fino al 15 settembre a Sarajevo nell’edificio del Museo storico della Bosnia Erzegovina, la mostra ha avuto una prima edizione nel 2023 a Belgrado e si sposterà poi in Montenegro e in Croazia.

Con Štiks e Ubović avete costituito una fitta rete di attivisti, esperti, artisti e Ong dei Paesi post-jugoslavi e avete raccolto moltissimi documenti, audio, video e oggetti di quel decennio, da cui è poi nata la mostra. Perché concentrarsi sugli anni '90? Soprattutto in Bosnia Erzegovina la memoria di quel periodo sembra perfino eccessiva, il ricordo della guerra e degli assedi è ovunque.

Il problema non è la memoria, ma quale memoria. Le nostre élite politiche, economiche e sociali, che non sono molto diverse da quelle di allora, continuano a trarre vantaggi da quel conflitto e oggi governano grazie alla paura della gente, all’odio reciproco, manipolando tutte queste complesse emozioni e la stessa memoria. Per rafforzare il loro dominio autoritario tengono le persone bloccate in quel trauma. E la sconfitta traumatica, come sostiene la storica tedesca Aleida Assmann, è il più terrificante genere di sconfitta e di dolore. Ma in quei terribili anni 90 non c’erano solo guerra e nemici. Con il nostro lavoro e la mostra vogliamo “aprire” il passato, mostrare che sono possibili delle soluzioni e che si può uscire dal labirinto che non a caso dà il titolo all’esposizione e che abbiamo creato fisicamente nel suo percorso.

In effetti la mostra, affronta quegli anni in modo diverso dalle consuete narrazioni. Ci sono i pacifisti, le femministe, la satira, gli artisti nella Sarajevo assediata, i graffiti e molto ancora, compresa la vita quotidiana delle persone. Il vostro messaggio è che la resistenza nelle sue varie forme è possibile?

È così, non vogliamo dare soluzioni ma proporre un approccio diverso che faccia riflettere tutti. Ed è stato interessante che all’inaugurazione qualcuno mi abbia detto stupito “ma questa mostra non è sulla guerra”. Naturalmente lo è: ci sono le atrocità, c’è Srebrenica, ci sono gli stupri etnici, i tanti generi di crimini. Ma il punto fondamentale è che non c’è solo quello. Volevamo mostrare che c’è sempre stata gente che ha combattuto per l’umanità, che ha resistito in vario modo. Ci sono stati eroi, e ai nostri eroi abbiamo dedicato un intero muro, a quelle persone che hanno combattuto e che spesso sono morte per aiutare gli altri. Allora parliamo di questi buoni esempi, di come si poteva restare umani e di come lo si può fare anche oggi.

Lei dice che la manipolazione della storia di quegli anni è comune alle élite politiche dei Paesi post-jugoslavi. Non vede molte differenze tra loro?

Le interpretazioni degli anni '90 nei diversi Paesi sono totalmente diverse, a partire dalle date in cui è iniziata la guerra. O da chi l’ha iniziata. La stessa definizione della guerra è diversa: guerra civile, aggressione, guerra di indipendenza.

Ma la cosa identica per tutti è che ognuno sostiene di esserne stato la maggiore vittima, compresa la Serbia, soprattutto con l’attuale governo di Aleksandar Vučić che ricorda solo la perdita del Kosovo e l’operazione Oluja (Tempesta) in Croazia che ha portato nel 1995 all’espulsione di centinaia di migliaia di serbi. Tutto il resto, l’occupazione serba della Croazia, la pulizia etnica in Bosnia, le atrocità in Kosovo, tutto questo oggi per Belgrado non è mai esistito. La Croazia celebra quelle guerre perché grazie a loro è diventata indipendente ed europea, finalmente staccata dai Balcani. E la Bosnia Erzegovina si considera la maggiore vittima perché lo è stata davvero. Queste interpretazioni sono completamente diverse tra loro, eccetto che per lo stesso nazionalismo ancora presente in tutti questi Stati, dove la narrazione vittimistica è totalmente manipolata dalla politica.

Anche la jugonostalgija, la nostalgia o perfino il ripianto per il passato comune jugoslavo, non è la stessa nei vari Paesi. Che differenze rileva oggi?

In Bosnia Erzegovina c’è una forte nostalgia per la Jugoslavia, ed è del tutto comprensibile perché la Jugoslavia è stata la soluzione migliore per questo Paese etnicamente misto, la Federazione era una struttura in cui la Bosnia era al centro. Ora invece, con tutti i conflitti tra etnie, la Bosnia Erzegovina è diventato uno Stato disfunzionale. In Croazia c’è un’enorme propaganda anti-Jugoslavia, i croati sono completamente esenti da nostalgie e non è un caso che la mostra Lavirint difficilmente arriverà a Zagabria, anche se abbiamo contatti ben avviati per portarla sulla costa croata. In Slovenia invece c’è molta nostalgia, è questo è interessante perché la Slovenia era la prima della classe, aveva tutto. Sono diventati il primo Stato ex-jugoslavo ad entrare nell’Ue, ma poi hanno realizzato che in Jugoslavia erano lo Stato più modernizzato, il più progredito, mentre nell’Ue non sono niente. Non parlo dello Stato, ma degli sloveni, che spesso e in tanti vengono a Belgrado. La Macedonia del Nord naturalmente è molto nostalgica, è in una posizione terribile tra Grecia, Bulgaria, Serbia e Albania. E in Montenegro non c’è mai stato odio per la Jugoslavia e non c’è nemmeno molta nostalgia, sono più rilassati. In Serbia invece è molto complicato, perché per molti la Jugoslavia equivaleva in realtà alla Grande Serbia, i serbi vivevano in tutto il Paese e pensavano che la Jugoslavia fosse uno Stato serbo, non pensavano davvero al federalismo, dominavano.

La vostra mostra, come il futuro museo e centro di riconciliazione, vuole quindi proporre un’alternativa ai nazionalismi che ancora dominano la regione. Se a livello politico non è frequente trovare una simile visione, non pensa che nel mondo della cultura questa sia invece almeno in parte presente?

Sì, oggi c’è una nouvelle vague di registi di cinema e di teatro, di scrittori, di poeti, c’è una nuova generazione, soprattutto in Bosnia Erzegovina, che ha una visione completamente diversa da quella dominante nell’affrontare il dolore degli anni '90. Penso a poeti come il bosniaco Marko Tomaš o al regista croato Nebojša Slijepčević che ha di recente presentato a Cannes, dove ha vinto la Palma d’oro per i cortometraggi, “l’Uomo che non poteva tacere”, la storia di Tomo Buzov che nel 1993 fu ucciso nel vano tentativo di impedire il massacro di 24 bosgnacchi da parte di paramilitari serbi. Buzov è anche uno degli eroi presenti nella nostra mostra. La nostra visione è la stessa.